Le nuove frontiere del lavoro e di chi lavora
L’entrata in scena nel XXI secolo della Intelligenza Artificiale (IA) sta mettendo il mondo del lavoro in allarme su almeno due fronti.
Il primo, il più indefinito e dibattuto (almeno a livello di media), riguarda l’avanzamento di sofisticati processi di automazione che – grazie allo sviluppo di macchine fisiche (robot) o immateriali (applicazioni software) – rendono possibile, con la loro capacità di svolgere compiti e prendere decisioni in maniera autonoma, la sostituzione delle persone impiegate in ambiti sempre più diversificati, restringendo di molto le possibilità di impiego umano.
L’intensificazione e la diffusione di tecnologie computerizzate negli ambienti personali e sociali per portare a termine qualsiasi attività stanno convincendoci di questa possibilità, anche perché attraverso il loro uso – concessoci spessissimo gratuitamente – ci stiamo prestando ad addestrarle a ciò.
In pratica, gli sviluppatori dei nuovi software hanno, a differenza di prima, tecniche innovative e infrastrutture informatiche e di comunicazione sofisticate, intersecate e abbondanti, ma, soprattutto, la disponibilità di una valanga di dati su infinite attività produttive, personali e sociali da cui è possibile ricavare, con le tecniche statistiche, le risposte più attinenti rispetto alle loro più probabili evoluzioni.
L’attuale successo delle tecnologie IA fa quindi intravedere un quadro in cui la lunga corsa dell’industria informatica a coadiuvare l’essere umano fa uno scatto decisivo nella sua capacità di sostituirlo in molti compiti qualificati. Da qui la preoccupata analisi di tanti esperti del mondo del lavoro sulla estensibilità dell’automazione anche a campi prima impensati quali quelli riservati ad attività prettamente intellettuali, con conseguenti squilibri nella distribuzione e concentrazione della ricchezza (Kaplan 2016).
Lo slittamento delle condizioni lavorative
L’ altro fronte problematico del lavoro è invece un po’ meno immaginifico ma forse ancora più importante per intercettare, incanalare o contrastare criticamente questi cambiamenti essendo essi in progressiva implementazione.
Si parla dunque del suo fronte interno, ovvero di tutto ciò che già sta accadendo sul posto di lavoro che, se si concorda sulle enormi ricadute sociali che questi processi comportano e sul bisogno di governarli, è il versante che richiede l’impegno più urgente.
In effetti, mentre tendiamo a proiettarci su un problematico futuro non dovremmo trascurare come queste tecnologie sono ingegnerizzate ed applicate via via sul campo seguendo idee e interessi peculiari, in un’azione che cerca di scardinare tutta una serie di conquiste, maturate e a volte normate faticosamente anche per via legislativa, ottenute – a partire dall’era industriale – in una lunga lotta sulla strada del miglioramento e la difesa delle condizioni lavorative.
Prepararsi a comprendere criticamente la nuova realtà
Ifeoma Ajunwa è una studiosa americana esperta in legge e in IA che ha condotto – pubblicando i risultati in un poderoso tomo ricco di teoria e dati empirici – un’approfondita indagine sul mondo del lavoro contestualizzandone l’evoluzione dalla fine dell’Ottocento in avanti così da poter coglierne i cambiamenti anche in senso ideologico, oltre che in termini di economia politica, lotte sociali e norme legislative.
Il suo lavoro – The quantified worker. Law and Technology in the Modern Workplace (2023) – è veramente un ottimo esempio su come essere efficaci rispetto ai cambiamenti in corso sia perché evidenzia la necessità di creare esperti sociali dotati di competenze nuove capaci di affrontare con profondità e tempismo tali fenomeni, sia perché dimostra che vi è l’opportunità di cambiare – se ben analizzati – quegli sviluppi che pensiamo in cuor nostro già come compiuti e inevitabili.
Da questo punto di vista l’autrice sottolinea la necessità di scrutinare puntualmente la realtà che si sta costruendo nei posti di lavoro con l’utilizzo e l’applicazione delle nuove tecnologie digitali – braccialetti elettronici, sensori vari (a volte anche microcircuiti impiantati sottopelle), cellulari, visori, strumenti con chip RFID, applicazioni georeferenziali e social diffusi e spesso anche condivisi in ogni dove, registrazioni di telefonate, cattura di ogni codice (lettere, numeri) battuti sulle tastiere dei computer, ecc. – che stanno amplificando a dismisura i livelli di sorveglianza, oltre ad annullare la distanza tra ciò che erano considerati spazi differenti come il posto di lavoro e la vita privata, configurando quindi condizioni di potere sempre più asimmetriche ed estese tra controllori e controllati.
Quantificazione e taylorismo digitale
Il libro esamina la situazione negli Stati Uniti ma le riflessioni in esso contenute, vista la quasi uniformità dei modelli di sviluppo economici e tecnologici nel mondo sotto l’egida dell’ideologia liberale, sono interessanti per ogni paese. L’idea centrale del libro riguarda la ricerca spasmodica nel misurare, o meglio, quantificare tramite l’utilizzo delle nuove tecnologie informatiche, ogni aspetto della vita lavorativa delle persone, invadendo e soppesando inevitabilmente tutte le sfere fisiche e psichiche della persona stessa, con ciò che Ifeoma Ajunwa chiama il nuovo “taylorismo digitale”.
Illustrerò temi e tesi del libro in un altro articolo mentre qui mi limiterò invece a presentarne alcune argomentazioni attraverso un dibattito tenuto presso il Berkman Klein Center for Intenet & Society dell’università di Harvard il 13 novembre 2023.
La presentazione del libro – a cui partecipano Sharon Block, professoressa ed esperta di lavoro ed economia, e Yochai Benkler, anche lui professore ed esperto in legge, entrambi ad Harvard – è l’occasione per parlare dell’impatto che l’IA avrà sul posto di lavoro e su come l’amministrazione della politica pubblica debba muoversi per tutelare i lavoratori anche alla luce dell’impegno che l’attuale presidente americano Biden sta dedicando ai problemi riguardanti lo sviluppo e gli utilizzi delle tecnologie IA.
Il video della presentazione è disponibile in rete ed è qui allegato – di esso ho ricapitolato sommariamente alcuni passaggi che potrete quindi riascoltare direttamente nella loro interezza.
Ifeoma Ajunwa: per iniziare, in merito al libro – e forse, aggiungiamo noi, in riferimento alla superficialità e alla rassegnazione mista ad un certo sconforto con cui spesso si seguono queste tematiche – l’autrice confessa che “nei sei anni in cui lo scrivevo ho pensato più di una volta il perché lo avessi scritto, a nessuno importa, nessuno lo leggerà, invece ora che è stato pubblicato sono felice perché vedo che il tema interessa e il libro è letto…” (al minuto 3:00 circa).
L’autrice, che è chiamata proprio come esperta del mondo del lavoro, ha un commento da fare sul merito delle iniziative politiche che si dicono preoccupate dall’IA. Il fatto è che esse rimangono perlopiù sui principi generali mostrando sul lato pratico una mancanza di guida rispetto ai problemi già in corso come le procedure di assunzioni automatizzate [i sistemi di automated hiring si occupano di analizzare e selezionare il personale tramite lo scandaglio automatizzato dei curriculum o interviste video che le aziende ricevono e mettono a disposizione] o il collezionamento generalizzato di dati personali.
Tra l’altro, anche le autorità indipendenti sulle comunicazioni (per gli USA la FCC) potrebbero e dovrebbero già intervenire sulle pratiche di marketing che le aziende venditrici di piattaforme di automated hiring mettono in campo sia riguardo alla loro promessa di ottenere risultati non discriminatori, sia riguardo alla raccolta e al trattamento dei dati, su cui si sa poco.
Insomma queste iniziative politiche sono benvenute ma è un primo passo, con l’autrice che si augura che si attrezzino con azioni regolative che abbiano “più denti” (al minuto 6:54 circa) per fare fronte con efficacia all’incalzante realtà.
Ma cosa comporta in termini di cambiamento la diffusione e lo sviluppo delle tecnologie digitali rispetto al controllo di vecchio stampo dovuto al taylorismo? – nel libro si parla appunto di un taylorismo digitale. Il taylorismo classico mira a quantizzare le singole fasi lavorative provando a standardizzarle così che diventi possibile quantificarle e compararle aprendosi alla possibilità di assegnare precisi obiettivi al lavoratore.
Nel far ciò esso aveva figure professionali che monitoravano, affincandosi fisicamente, chi lavorava prendendo appunti su come queste fasi venivano performate. Con il taylorismo digitale, in cui gli strumenti di sorveglianza diventano ubiqui e silenti, abbiamo uno spostamento del focus perché ad essere monitorato non è solo ciò che si fa ma, in maniera sempre più rilevante, il lavoratore stesso nella sua interezza con l’obiettivo di quantificarne in qualche modo tutti gli aspetti ritenuti – per qualche ragione – importanti per l’espletamento e l’efficienza del proprio lavoro.
Si passa così dall’idea di poter insegnare i metodi che aumentano l’efficienza lavorativa, all’idea molto più perniciosa che esista il lavoratore “ideale”, che esistano lavoratori molto più adatti rispetto ad altri (al minuto 9:21 circa).
L’esempio classico e attuale di tali pretese sono i sistemi automatizzati di assunzione che sono venduti come sistemi neutri ovvero capaci di non cadere in errori di valutazione falsati da qualche sorta di pregiudizio – tecnologie in grado di eliminare “dall’equazioni” quelle scelte “empatiche” in cui cascano inevitabilmente gli esseri umani (al minuto 10:00 circa).
Purtroppo, se si studiano gli ambienti di lavoro in cui tali sistemi automatizzati vengono adoperati, si vede che non vi è un’opera di diversificazione degli addetti ma, come d’altronde promettono le stesse parole d’ordine che accompagnano la vendita di tali prodotti – “clona il tuo lavoratore migliore” – , queste tecnologie replicano le scelte assunzionali che le aziende stesse hanno già pianificato sulla base del loro “lavoratore ideale”, quello che evidentemente hanno già in casa (al minuto 10:44 circa).
Il risultato quindi è quello di perpretare tutti i modelli discriminatori che, eventualmente, sono già in atto e la cosiddetta neutralità tecnologica si rivela essere un motore “automatizzato di pregiudizi” (al minuto 11:23 circa).
D’altro canto, vi è la consapevolezza che, come gli stessi sviluppatori di tecnologie IA affermano, anche gli esseri umani sono in definitiva delle black box che nascondono – per lo più inconsapevolmente – dei modi di pensare e agire discriminatori. Per questo i tecnici dell’IA si sentono legittimati – proprio perché concentrati a identificare ed eliminare queste distorsioni – a proporre tali sistemi.
Per l’autrice, comunque, senza meccanismi di auditing pubblico sui metodi e sui dati che vengono utilizzati per addestrare questi sistemi automatizzati le affermazioni sul potere di eliminare o minimizzare tali pericoli rimangono promesse da marketing.
Sharon Block: su questo tema ci chiediamo come gli attuali sistemi online di incontro tra domanda e offerta di lavoro (matching system come Indeed, Monster, LinkDin) possano favorire qualche effetto discriminatorio.
Ifeoma Ajunwa: in effetti, afferma l’autrice, l’impostazione di formulari che spingono a mettere in evidenza certe informazioni (anno di laurea, presenza di foto, ecc.) possono comportare fattori discriminatori, ad esempio in termini di età, ma, anche in questi casi, non vi è una legislazione che obblighi tali operatori a essere interrogati sui metodi e neanche sui risultati che le loro pratiche comportano ai fini delle policy assunzionali, anche se potrebbero già incappare in qualche forma discriminatoria proibita, ad esempio nel facilitare la discriminazione per età o per altri fattori deducibili dall’apparenza corporea.
Sharon Block: ad ogni modo, visto che iniziano ad essere messe in campo iniziative regolatorie – in alcuni stati americani, ma forse anche in Europa, a cui spesso si guarda come regione del mondo che in questi ambiti porta i termini della regolamentazione digitale più avanti – ci sono da segnalare pratiche pubbliche efficaci?
Ifeoma Ajunwa: l’autrice risponde che, a suo avviso, sembra esserci un tentativo di affrontare la questione efficacemente nello stato di New York, dove si inizia a richiedere alle aziende che assumono di spiegare se e come utilizzano questi sistemi automatizzati nell’effettuare le assunzioni. Solo attraverso un’analisi delle situazioni in atto – dando ovviamente delle garanzie legali alle aziende che ci saranno conseguenze solo dopo che, eventualmente, non avranno ottemperato ai correttivi richiesti – è possibile capire e affrontare il problema nelle sue reali dimensioni.
Sharon Block: a questo punto la domanda è se servono capacità particolari per condurre queste indagini da parte delle autorità, se servono expertise specifiche.
Ifeoma Ajunwa: la domanda è, secondo l’autrice, molto azzeccata perché assistiamo continuamente a interrogazioni o dibattiti sull’IA in cui si registrano distanze cognitive tra i vari interlocutori. Eppure, prendiamo il caso del lavoro, il 99% delle persone hanno bisogno di lavorare per vivere e quindi l’impatto delle tecnologie IA devono essere comprese e affrontate.
Da questo punto di vista vi è l’esigenza di educare i legislatori e gli esperti legali alla materia, che deve essere inserita nei vari corsi di studio per formare persone che poi possano avere dei ruoli all’interno delle varie autority ma anche nel congresso (al minuto 19:46 circa).
Sharon Block: cambiando la prospettiva dal processo decisionale dell’assunzione agli usi nel posto di lavoro di queste tecnologie IA, in cui ci sono resoconti allarmanti di quanto i lavoratori sono dipendenti da queste applicazioni a livello di continua sorveglianza e interazione – parliamo ad esempio degli autisti dei servizi alternativi di taxi o dei lavoratori di Amazon –, non siamo già a questo livello in un mondo distopico e altamente asimmetrico in cui l’IA comanda il lavoratore decidendo anche se sia il caso di licenziarlo? Come è possibile per il lavoratore appellarsi ad un attore e ad una decisione di questo genere?
Ifeoma Ajunwa: purtroppo, afferma l’autrice, siamo in presenza di situazioni in cui dobbiamo affrontare problemi di simmetrie sia in termini di informazione che di potere. Dal punto di vista legale è difficile difendersi nel momento in cui ci sono motivazioni legate a qualche problema lavorativo che è documentato – efficienza, compiti non svolti –, a meno che non ci si possa appellare a qualche forma di discriminazione tutelata dalle leggi.
In termine di potere l’unica reale risposta è organizzarsi in forme sindacali. Queste, come spiegato nel libro, hanno un grande ruolo nel definire i processi di assunzione, i termini e i modi in cui i dati relativi al lavoro sono collezionati, così come i motivi e le forme del licenziamento.
Yochai Benkler: a questo punto interviene nell’intervista Yochai Benkler che vuole sottolineare gli aspetti del libro più teorici che riguardano l’intersezione dei temi del lavoro con la legge e l’economia politica – particolarmente apprezzata è la scelta dell’autrice di partire da un quadro storico ricco approfondendo il taylorismo, ma anche quelle iniziative di studio a livello sociologico avvenute al tempo presso la Ford in modo di entrare così nello sviluppo delle specifiche problematiche sociali.
Interessante è questa idea di quantificazione del lavoratore che viene parametrizzato a un “lavoratore ideale” cosa che ci permette di ragionare, così come è stato fatto nel libro, sulla frenologia o l’eugenetica ma anche sulla lotta di potere tra manager e lavoratori e sul ruolo della scienza sociale. Cosa si intende nel libro per gestalt del lavoratore?
Ifeoma Ajunwa: per iniziare, dovremmo pensare alla quantificazione del lavoratore come a una tecnica di controllo. La stessa catena di montaggio, mettendo in linea i lavoratori e facendo pressione su di loro, è una tecnica di controllo definitiva. Nel momento che si misura ogni dettaglio del lavoro e che ci si deve attenere agli standard fissati non si ha proprio il tempo di organizzarsi e fare un’azione di contrasto. La quantificazione ha anche lo scopo di portare tutto all’essenziale, di definire una gestalt del lavoratore “ideale” di cui si è alla ricerca in quanto il lavoro stesso diventa una caratteristica innata, che non si impara.
Yochai Benkler: vi è la possibilità di spiegare meglio questa ultima cosa, ovvero vi è anche la possibilità che lo spezzettamento delle fasi lavorative in fasi standardizzate possa spingere o insegnare a come fare meglio le cose o a diventare un lavoratore “ideale”?
Ifeoma Ajunwa: certamente, vi è un effetto spinta verso questo lavoratore “ideale” ma, inerentamente e prima di ciò, vi è l’idea che questo lavoratore esiste perché “devi avere questi standard perché tu possa raggiungerli” (al minuto 29:00 circa) e dunque in questa idea vi è anche il fatto che tu non possa averli, ed è questo il motivo per cui i sistemi automatizzati di assunzione possono scartare le persone non in linea con essi.
La quantificazione odierna è un’evoluzione del taylorismo – in questo ci si limitava a dettagliare tutte le fasi – qui invece ci si organizza dietro l’idea che vi sia un lavoratore ideale e che, conseguentemente, vi sia chi non vi corrisponda e deve essere eliminato dal posto di lavoro.
A differenza del taylorismo, oggi nel posto di lavoro vi sono i programmi che si occupano del benessere/salute dei lavoratori (workplace wellness program), che includono anche test genetici.
L’idea del lavoratore ideale non era presente nel taylorismo ma si affaccerà nel fordismo con l’entrata, a quei tempi, della scienza sociale in fabbrica e la nascita di un “americano ideale”.
Yochai Benkler: ed è proprio su questo punto che vorrei chiedere qualcosa sul ruolo che la scienza gioca nell’aiutare determinate ideologie, si pensi alla frenologia, all’eugenetica e anche a come queste siano poi connesse, come si spiega nel libro, al sistema di assunzione automatizzato tramite le interviste video [in esse le procedure algoritmiche esaminano espressioni facciali, dialoghi, toni di voce, inflessioni lessicali, ecc. per ricavare gli indizi del lavoratore ideale]. Tra l’altro, come riportato, furono molti gli intellettuali anche progressisti che videro la gestione scientifica del lavoro come un passo verso un mondo del lavoro più armonioso.
Ifeoma Ajunwa: è vero, nel libro si riporta anche uno scambio epistolare tra Louis Brandeis e Frederick Taylor in cui il primo scrive ammirato per le idee e i sistemi elaborati da Taylor, fiducioso del fatto che con essi i lavoratori riusciranno a diventare più produttivi.
Lo stesso libro di Taylor Principi di organizzazione scientifica del lavoro contiene questi convincimenti per cui la nuova organizzazione del lavoro risulterà vantaggiosa per gli interessi di tutte le persone coinvolte. Vi era veramente un clima intellettuale favorevole che coinvolgeva anche le organizzazioni sindacali.
Tutto sembrava andare bene finché poi la cosa non fu realizzata. L’esperienza pratica fu contestata dai lavoratori che lamentavano i metodi in cui veniva estratto lavoro da loro, così come i danni alla loro stessa personalità (al minuto 32:47 circa). Ci furono anche audizioni al congresso in relazione alle proteste sulla limitazione dell’autonomia personale.
Ma è vero, ogni volta che si presenta qualcosa di nuovo e che sembra scientificamente migliore – come avviene oggi per gli stessi sistemi automatizzati di assunzione – vi è questa idea di oggettività che può far pensare che tante distorsioni, dovute per esempio a favoritismi manageriali o altro, possano essere superate dalla logicità di questi sistemi.
Ciò di cui non ci si rende conto è la quantità di abuso di potere che un’organizzazione scientifica del lavoro introduce. Ad esempio, insieme a questo nuovo tipo di organizzazione sono stati introdotti anche i vigilanti del lavoro denominati Pinkerton che servirono a tenere a bada, anche in maniera violenta, sia i sindacati che i lavoratori nei luoghi del lavoro.
Yochai Benkler: vi è un’idea direi implicita in tutto il libro sul fatto che in questa storia conti molto anche la questione razziale e le sue correlazioni con i problemi di classe, genere, disabilità. Sappiamo che i modelli della teoria economica classica vedono il razzismo come una inefficienza perché possono escludere dal gioco le persone capaci. Può parlarci un poco di questa teoria e delle sue implicazioni in termini di potere?
Ifeoma Ajunwa: allora, possiamo vedere il razzismo come l’operatore che detta chi sarà la classe in sovrappiù, chi saranno i lavoratori immagazzinati, che è un modo per analizzare e comprendere, come fa ad esempio la studiosa Michelle Alexander, il sistema delle incarcerazioni di massa, quindi un modo per immagazzinare ciò che è considerato un sovrappiù della classe lavorativa (al minuto 35:13 circa).
Ma possiamo anche vedere come molto di ciò che è considerato ora gestione del lavoro proviene dai sistemi utilizzati nel lavoro delle piantagioni. Molte delle pratiche moderne relative all’accounting, ai registri, alla quantificazione della produttività proviene da quel mondo.
Vi regna quest’idea che si sta creando una classe con il capitale e una classe che lavorerà per perpetuare quel capitale, e la questione è chi è assegnato e da quale parte del campo.
Il modo in cui la questione razziale funziona negli Stati Uniti è che le minoranze etniche sono assegnate per essere coloro che replicano il capitale per gli altri. La quantificazione di chi lavora continua a perpetuare la stessa cosa impedendo la mobilità per il modo in cui rifiuta di prendere in considerazione altre esigenze che consentirebbero una mobilità sociale di cui potrebbero beneficiare coloro che sono considerati una classe inferiore.
Yochai Benkler: passiamo ora a considerare la proposta programmatica che si fa nel libro su un nuovo assetto dei poteri presenti nel posto di lavoro per avere un riequilibrio verso forme più democratiche, parliamo del framework teorico in cui ciò potrebbe avvenire, se con forme di gestione partecipate o aumentando i ruolo dei sindacati o altro.
Ifeoma Ajunwa: bene, con ciò torniamo a quello che accade in Europa dove troviamo forme istituzionalizzate che hanno il fine di tenere in piedi un confronto tra il management e i lavoratori, con questi ultimi che eleggono i propri rappresentati delegati alla discussione, cosa che avviene nei singoli posti di lavoro.
In ogni caso, tenendo conto della rivoluzione dettata dalle tecnologie IA, il ruolo dei sindacati deve interessare i dati che sono raccolti e la guida d’azione dovrebbe essere quella di farne un uso che porti vantaggi alle condizioni dei lavoratori e non che siano usati come una frusta per guidarli.
Odio il termine data-driven, si deve tenere conto del modo di parlare, si sta dicendo di guidare gli esseri umani come animali, come si guidano i cavalli, praticamente si usano i dati come una frusta per ottenere la produttività che si vuole (al minuto 39:00 circa).
Invece, qui si tratta di ripensare le cose, intendere i dati come forma di aiuto, con i sindacati che dovrebbero avere accesso ai dati e aprire con il management una discussione su modi, strutture e ambienti capaci di rendere i lavoratori migliori e più efficaci.
Per me, ma ciò è vero anche per le teorie dell’organizzazione, questo è parte di ciò che determina un lavoro che per il lavoratore ha un significato. Un lavoro di questo genere prevede un lavoratore munito di un determinato grado di autonomia, una persona anche consapevole di come il lavoro e i prodotti sono utilizzati, di come il posto di lavoro e gli ambienti sono congegnati.
Il fatto che i sindacati abbiamo accesso ai dati nello stesso modo degli imprenditori rimuove quell’assimetria informativa iniziando a correggere lo sbilanciamento di potere, con i sindacati che potrebbero perorare meglio le cause per avere ambienti lavorativi in cui si è meglio disposti ad essere più produttivi.
Vi sono molte evidenze fattuali sul fatto che i lavoratori sono molto più produttivi quando sono contenti di andare a lavorare, quando sono in ambienti ritagliati per le loro esigenze lavorative. Non dobbiamo quindi guidarli con i dati, ma con essi abilitarli a costruire ciò.
Riferimenti
Ajunwa, I., 2023, The Quantified Worker. Law and Technology in the Modern Workplace, Cambridge, Cambridge University Press.
Kaplan, J., 2016, Le persone non servono. Lavoro e ricchezza nell’epoca dell’intelligenza artificiale, Roma, Luiss University Press.