Ripensare la priorità dei valori al tempo della pandemia e della sfida climatica
La stagione sociale e politica che stiamo vivendo si sta rivelando tra le più impegnative per le sfide globali che sta affrontando. Al perdurante e implacabile problema del cambiamento climatico si è aggiunto quello più contingente – e altrettanto micidiale – della minaccia alla salute personale portata dalla pandemia virale da covid-19.
Da tempo ormai viviamo gli avvenimenti quotidiani accompagnati dall’umore amaro che scaturisce da questo combinato disposto di pericoli, un accumulo alimentante una cappa culturale che si riverbera quasi in ogni tema e in ogni luogo.
Non è allora strano incontrare in giro per il mondo così tante riflessioni su come queste esperienze stiano segnando i nostri futuri, e se e quando sarà possibile ristabilire una certa stabilità – siccome la pandemia è una questione più contingente e, grazie alla scienza medica, più facilmente battibile, è comune imbattersi in frasi augurali su un’imminente “normalità post-covid”.
Una cosa che accomuna questi dibattiti, che approcciano argomenti diversissimi, è una tensione nel cercare di imparare dagli accadimenti. Evidentemente vi è sottesa la speranza di cambiare in qualche modo sia i nostri comportamenti che le mentalità – analizzare il prima per reimpostare un domani migliore, meno esente dai rischi esperiti.
Le riflessioni che qui vorrei portare all’attenzione sono inserite in una conferenza tenuta alla University of Wester Australia dalla professoressa e musicologa Sarah Collins nella serie “2021 Callaway Lecture” – l’evento si può ascoltare grazie al podcast Big Ideas offerto dalla televisione e radio australiana ABC.
Il tema trattato è il rapporto tra le arti e l’economia, o meglio, di quanto l’economia, come in molte altre dimensioni della nostra vita, si sia presa la briga di determinare per molti aspetti i destini dei cosiddetti mestieri creativi nonostante una chiara difficoltà a poter valorizzare con i paradigmi economici i sentimenti, le emozioni o le connessioni culturali che essi sollecitano e supportano.
Ho quindi provato a riportare integralmente il discorso della Collins – al meglio delle mie possibilità, ovviamente, scusandomi per eventuali refusi – in quanto è un brillante lavoro di analisi culturale che ha anche il merito di ribaltare i punti di vista contestualizzando storicamente i percorsi in cui, nell’ambito dell’economia politica, le ragioni dell’economia e quelli dell’estetica si sono incrociate e confrontate con risultati non proprio soddisfacenti, almeno per le persone direttamente coinvolte nel settore.
L’invito dell’autrice, proprio alla luce del nostro periodo critico, è di rivalutare i risvolti di questo rapporto, un’opportunità per ristabilire meglio le priorità dei valori che modellano il nostro vivere, presente e futuro.
[ndr. La titolazione è stata aggiunta per riassumere meglio i vari passaggi contenuti nella lunga dissertazione orale].
La cultura vista dalla lente economicista
“Le arti e l’economia sono strani compagni di letto. Nell’ambiente delle arti siamo abituati a dover difendere ciò che facciamo in termini economici. Quando giovani si devono convincere i genitori preoccupati che sì, ci sono modi per vivere nelle arti, di ottenere un lavoro. Diventati professionisti si deve convincere le agenzie di investimento che sì, ci sarà un insieme di benefici da trarre dal lavoro che facciamo, e ciò giustificherà l’investimento.
E quando supportiamo pubblicamente la politica dobbiamo convincere i governi che sì, le arti contribuiscono sostanzialmente allo stato nazionale e alle economie locali, e sono un fattore di forte export globale. Anche quando non ci basiamo esclusivamente sul linguaggio dell’economia per descrivere il valore delle arti, pure le altre aree delle arti che più ovviamente contribuiscono a ciò che si definisce coesione sociale, la salute e lo stare bene o il patrimonio culturale finiscono per ridursi all’economia, almeno nel contesto del discorso politico.
Se le persone sono più felici e più sane, è più probabile che siano membri produttivi della forza lavoro, più coesività in una società meno turbolenta rallenta il bisogno di intervento dei sistemi di giustizia penale e di welfare, creando risparmi che almeno in teoria possono essere utilizzati altrove. Le arti non solo ci fanno guadagnare ma ci fanno risparmiare denaro. Tutte le strade portano all’economia.
Quindi non c’è dubbio che gli argomenti sul contributo economico delle arti siano spesso logici e persuasivi, tanto più evidenti in particolare nello scorso anno sulla scia della pandemia.
Ad esempio, nell’agosto dello scorso anno 2020 Jenny Morris, cantautrice e presidente dell’Associazione Australian Performing Right, in un discorso al National Press Club ha detto che scrivere una buona canzone significa produrre un’opera di grande valore. Queste sono le sue parole:
per me sì, ma, cosa più importante per il mio pubblico, la mia comunità, la mia cultura, e ovviamente per la nostra economia, una buona canzone crea posti di lavoro, molti posti di lavoro, decine di migliaia di australiani si guadagnano da vivere con la musica, una buona canzone costruisce anche beni di proprietà intellettuale australiani, generando grandi entrate compresi i guadagni delle esportazioni perché una buona canzone gira il mondo trovando nuove performance e nuovo pubblico.
I piccoli ritorni (per la cultura) di una visione economista
Allo stesso modo – la logica dell’economia è qui sempre al lavoro – abbiamo una serie di recenti rapporti sul futuro post-covid delle arti e della cultura in Australia prodotti da gruppi di riflessione indipendenti, come nel nuovo approccio dell’Australia Institute, nonché i rapporti sulla partecipazione artistica dell’Australia Council for the Arts. In effetti questi rapporti sono destinati non solo per essere leggibili da parte dei responsabili politici, ma sembrano anche offrire ai difensori dell’arte le munizioni necessarie per difendere la legittimità del settore.
Un rapporto dell’Australia institute nel 4/2020, ed un altro sempre l’anno scorso sull’economia del settore creditizio australiano, hanno riassunto la situazione in un modo che il supporto alle arti creative diventa un gioco da ragazzi. Scrivono stime prudenti che rilevano che le arti creative danno lavoro a 193.600 australiani, ovvero quasi 200.000 persone e contribuiscono con 14,7 miliardi di dollari al prodotto interno lordo. Le arti sono state particolarmente colpite dalle restrizioni del covid 19 e nuovi sondaggi suggeriscono che l’Australia vuole sostenere un pacchetto di aiuti, quindi questo tribunale sta davvero affermando che non si perderanno voti sostenendo le arti.
In larga parte, la strategia di quelli che potremmo chiamare economisti, ovvero considerare tutti i fenomeni in termini economici quasi fisici, ciò che David Throsby ha chiamato l’economizzazione della politica culturale, ha avuto alcuni risultati incoraggianti. Per tutti, gli artisti con accordi di lavoro precario a cui è stato precluso l’accesso al lavoro in seguito alla prima ondata di blocchi legati al covid, il governo ha ora annunciato un pacchetto di finanziamenti e un’inchiesta parlamentare per affrontare l’impatto sproporzionato dei blocchi sulle industrie creative in Australia.
Inoltre, nel pacchetto del governo preparato per il lavoro dei laureati, gli studenti universitari che studiano materie associate alle arti visive e dello spettacolo hanno un aumento delle tasse inferiore rispetto ad altri campi, suggerendo forse che una narrativa economica per il valore delle arti ha contribuito a promuovere l’idea che l’educazione artistica è come qualsiasi altra forma di formazione pre-professionale. Quindi i corsi universitari nelle arti visive dello spettacolo sono ora nelle stesse fasce di finanziamento dei percorsi professionali della psicologia, del lavoro sociale nonché dell’informatica, dell’ingegneria e della statistica.
Limiti e distorsioni dell’approccio economico alle questioni estetiche
Quindi, forse, la strategia di argomentare per il valore delle arti in termini economici ha alcuni vantaggi. Eppure, sotto queste pratiche dell’economia per comunicare il valore delle arti sembra trasparire un’ansia inespressa, tanto che molte persone potrebbero effettivamente pensare che sia il contrario.
Noi sentiamo di avere il bisogno di dover difenderci nel modo in cui lo fanno coloro che lavorano nel settore agricolo o ingegneristico, settori dove il linguaggio della produttività, efficienza e rendimento degli investimenti è più ficcante. Non dobbiamo difenderci nello stesso modo
Piuttosto di affermare che le arti scaturiscono un senso ampio di inclusività e generatività, e in ciò sono produttive e utili, come sosterremo più avanti, ci siamo preoccupati che le arti possano in effetti essere viste da alcuni come marginali, esclusive e lussuose o anche improduttive.
Sappiamo nel profondo del nostro cuore che l’arte e la cultura informano tutto ciò che abbiamo di più caro come esseri umani, da mia mia madre che canta alla sua bambina, al guardare un film con un amico, al leggere la biografia di uno sportivo stimolante o un libro sulla storia militare, all’assistere dal display di un drone alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Tokyo, alla partecipazione a un festival in una città regionale o alla scelta di una playlist divertente.
Abbiamo anche un vago sapere sul fatto che l’espressione di sé e la cultura sono associate in qualche modo alle libertà democratiche perché vediamo male i regimi che sopprimono attivamente l’accesso all’arte e alla cultura. Sappiamo tutto questo, eppure c’è ancora qualcosa che fa sembrare sentimentale o non pragmatico e pure ingenuo difendere le arti semplicemente sulla base del fatto che arricchiscono le nostre vite rendendole degne di essere vissute. Ed è questo guardare a qualcosa che ci porta a usare argomenti economici per difendere le arti.
Questa strategia è senza dubbio una risposta ad alcuni momenti della storia politica recente dell’Australia, ma vorrei suggerire che ha anche le sue radici in uno scontro immediato e un’interazione molto più profondamente radicata tra i sistemi di valori associati all’economia da un lato, e i sistemi di valore associati alle arti dall’altro, o ciò che potrebbe essere caratterizzato più in generale come estetica, che include cose come creatività, immaginazione, sentimento, senso, percezione, interpretazione e giudizio.
Come è nato il dominio economicista
Vorrei abbozzare sinteticamente questa breve e lunga storia in modo che possiamo capire come la nostra situazione attuale si è formata, ma oltre a ciò voglio suggerire che il fatto che le arti non dovrebbero adattarsi all’economia attuale dovrebbe essere visto non tanto come un ostacolo da superare ma sempre più come un invito, un invito a pensare se l’economicismo dell’attuale clima politico ci sta aiutando adeguatamente, quali valori sono supportati e se questi valori siano effettivamente ciò che vorremmo che fossero.
Così potremmo dire che invece di chiederci cosa può dirci l’economia sul valore delle arti, dovremmo domandarci cosa possono dirci le arti sui tipi di valori che stanno alla base degli attuali sistemi economici, e quali alternative potrebbero essere aperte per noi.
Tuttavia questo potrebbe sembrare un po’ strumentale, ma c’è un precedente per l’idea che l’estetica dovrebbe informare l’economia. Con le arti gli economisti sono spesso in difficoltà, specialmente quando non sono viste semplicemente come qualsiasi altro prodotto o servizio. In effetti, le arti di cui parlerò, in particolare la musica, hanno storicamente rappresentato un caso ostico per gli economisti, e la presa di questo difficile caso rappresentato dall’arte della musica ha talvolta portato a cambiamenti nel loro pensiero.
Ciò significa che esiste un precedente nel considerare come le arti possono contribuire al ripensamento economico che deve avvenire man mano che emergeremo nella nuova normalità del post-covid nei prossimi anni. Quindi, prima un brevissimo abbozzo della storia recente che ha portato alla tendenza di pensare le arti in termini economici. Questa tendenza può essere vista nella primissima politica culturale nazionale australiana riguardo alla creatività del 1994.
Questa è l’era di Keating. In questa prima azione si trapiantava in Australia un’idea dal Regno Unito riguardante le industrie creative. L’apparizione nella politica culturale nazionale del 1994 dell’idea di industrie creative non è stata solo una mossa politica che rispecchiava una retorica simile nel Regno Unito, ma ha anche coinciso con le tendenze accademiche in Australia nel 1990 associate agli studi culturali.
Unendosi a una serie di idee che sono circolate per un certo numero di decenni dopo la seconda guerra mondiale, gli studi culturali erano generalmente scettici sull’idea che l’arte fosse edificante o civilizzatrice o che avesse la capacità di promuovere le virtù civiche o la moralità pubblica o la partecipazione democratica. Questi sono i primi tipi di discussioni sul valore delle arti su cui sono state fondate istituzioni come la BBC e l’ABC durante questo intervallo di tempo.
Nel 1990, tuttavia, gli studi culturali ritengono che questa retorica sia paternalistica e allineata con le prospettive dell’élite su ciò che era giusto o di buon gusto facendo sembrare le scelte culturali di una piccola minoranza maschile, solitamente bianca, come se fossero le caratteristiche universali verso cui tutti gli esseri umani dovrebbero aspirare.
Lo scetticismo serviva anche per demistificare l’arte, cioè per contrastare l’idea che ci sia un canone di grandi capolavori che trascende il tempo e il luogo, e che hanno un valore quasi irriducibile che li pone al di sopra del giudizio, un fatto che promuove presupposti problematici riguardo al genio e all’originalità, arrivando anche ad avere particolari associazioni razziali e di genere.
Il lungo processo conseguente al tentativo di smantellare questi presupposti è stato supportato da approcci accademici che si concentrano non tanto sulle proprietà estetiche dell’arte, quanto sul prestare maggiore attenzione al motivo per cui l’arte è stata prodotta e consumata in quel modo. Così, piuttosto che guardare al contenuto sotto forma di un’opera particolare che è l’oggetto principale di studio, gli studiosi si sono rivolti alle reti istituzionali e commerciali che hanno reso possibili queste produzioni, quindi gli stampatori, i copisti, i distributori, i concept organizer, i filantropi e le persone comuni tra il pubblico, su come quest’ultimi hanno pagato e hanno interagito con l’arte e il significato da loro attribuito ai diversi tipi di opere.
Segui il denaro, ma…
Studiare la produzione artistica in questo modo spesso implica seguire il denaro, ovvero rintracciare ricevute e buste paga, investimenti e ordini di acquisto al fine di scoprire i modi in cui l’arte è incorporata negli stessi tipi di sistemi economici di produzione che modellano tutti gli aspetti della società umana, e probabilmente modellano anche la coscienza umana secondo questa visione del mondo.
Così, negli anni Novanta del XX secolo abbiamo studiosi che seguono il denaro come un nuovo modo di studiare il significato e la funzione delle arti, e allo stesso tempo abbiamo decisori politici che attingono da una nuova tendenza politica a considerare le arti un’industria o un insieme di industrie creative. Come ha sottolineato l’economista culturale Justin O’Connor, l’idea di proporre le arti come un’industria è nata proprio nel momento in cui il governo si stava allontanando, nella sua politica, da un approccio industriale. Egli scrive:
la musica è stata riconosciuta come un’industria proprio nel momento in cui la stessa politica industriale è stata effettivamente abolita in quanto pilastro centrale dello sviluppo delle capacità nazionali.
L’Australia ora fa parte di un’economia commerciale globale e non era compito del governo sostenere le industrie alla vecchia maniera. Così, la concorrenza globale era buona ed i mercati il modo più efficiente di punire l’inefficienza e premiare i vincitori.
Oltre alla retorica delle industrie culturali – la politica a supporto delle arti creative – si vede quindi anche l’arte come progenitrice dell’identità nazionale, vale a dire un bene pubblico, portando a ciò che O’Connor ha osservato come una tensione imbarazzante tra l’idea delle arti – ora un’industria come qualsiasi altra, che ha il bisogno di competere in un mercato aperto – e il fatto di essere un bene pubblico, meritevole quindi di trattamento o protezione speciale.
La tensione tra industria e bene comune
Nella seconda politica culturale nazionale creata in Australia, il primo ministro Julia Gillard descrive la centralità delle arti per l’identità nazionale, la coesione sociale e il successo economico, seguita dal ministro delle arti, Simon Crean, che nota, come detto nel suo mandato, che investirà nel settore culturale per ottenere dividenti sia sociali che economici.
Così, vediamo qui di nuovo una combinazione dell’approccio dell’industria e dell’approccio del bene pubblico, le arti creano ricchezza e creano, come bene pubblico, coesione sociale.
Ora, uno dei pericoli di pensare alle arti come a un’industria è che sembra siano come qualsiasi altro prodotto o servizio. Userò la musica come esempio. Nell’approccio industriale un lavoro orchestrale assomiglia alle scarpe che indosso. Economicamente parlando è prodotto e consumato, e il suo processo è determinato da una serie di fattori non solo legati alla sua funzione, tipo il lavoro impiegato per produrlo, ma anche dai gusti, dalle mode e dal marketing.
Allo stesso modo, in un approccio di bene pubblico, la musica potrebbe essere direttamente paragonata a cose come l’istruzione pubblica o la salute pubblica o le organizzazioni e gli enti di beneficenza senza scopo di lucro, cioè è descritta come supporto di un senso di comunità e aiuta ad alleviare gli effetti dello svantaggio sociale attraverso un senso di connessione e reciproco sostegno.
Tutte queste sono cose grandiose che le arti sono tenute a fare, ma nel fare queste cose assomigliano molto ad altri beni pubblici, e nel far notare che fanno queste cose, e attenendosi a questo, li avvicina molto ad altri beni pubblici, è proprio che le arti sono un’industria che fanno sembrare le arti come qualsiasi altro prodotto commerciale.
Il regno dell’estetica come resistenza o emersione dei disagi sociali
Ora, perché questo è un problema? Bene, per una ragione principale. Perché storicamente il regno dell’estetica è stato visto come uno dei più potenti strumenti per resistere, strumenti per resistere e per la giustizia sociale. Vale a dire l’estetica, questa sfera dei sensi e dell’immaginazione, è stata vista in passato come un aspetto dell’esperienza che consente di far emergere i diversi tipi di conoscenza che possono resistere o sovvertire le potenti logiche del tempo, che consentono ai gruppi emarginati o invisibili, e alle preoccupazioni, di diventare visibili o udibili nel senso di dargli una voce.
Quindi questa idea non riguarda semplicemente una canzone di protesta che unisce parole stridenti alla musica per trasmettere un messaggio, e non è nemmeno vero che tutte le arti hanno la stessa capacità in termini di resistenza e giustizia sociale. L’affermazione è più generale di questa. L’idea è che quando consentiamo a noi stessi di impegnarci con riflessioni di un pensiero non strumentale e di avere esperienza di ciò che il regno dell’estetica permette – una sorta di piacere disinteressato – esso ci consente di vedere più chiaramente quali aspetti della vita e dei sistemi razionali esperienziali (a volte) sono alleati.
Questo potrebbe sembrare un po’ fumoso, ma in effetti non è un approccio radicale. In realtà si rivela un approccio più tradizionale perché la concezione matematica prevalente dell’economia oggi è più recente del tipo di economia che suggerirò, basato principalmente sull’estetica, che è l’economia politica del XIX secolo.
Economia politica ed estetica nel XIX secolo
L’economia politica era un approccio all’economia che considerava la produzione e il lavoro come una funzione delle relazioni sociali e dello sviluppo storico, in contrasto con gli approcci successivi che tendevano a vedere il valore economico come in gran parte non correlato al costo di produzione, ma piuttosto come una questione di scelta del consumatore e di modelli statistici di comportamento che influenzano il processo produttivo.
Quindi, vale la pena notare che l’economia politica sta guadagnando terreno di nuovo oggi tra gli economisti in Australia, come nel caso di Tim Thornton, che è direttore della scuola di economia politica a Melbourne. Thornton e altri hanno sostenuto che le logiche sociali ambientali e di altro tipo devono riguadagnare considerazione nell’economia, mentre si dovrebbe rianimare una visione audace dell’economia come veicolo attivo per una società giusta ed equa in contrasto con il più modesto approccio legato ad una modellazione matematica.
Così, tutto ci porta a esplorare il ruolo avuto dall’estetica in questa precedente tradizione di economia politica e, in particolare, come gli economisti hanno affrontato con difficoltà le arti e come i diversi canoni di valorizzazione delle arti a volte sfidano e cambiano nel loro pensiero in combinazione ad ampie questioni economiche e politiche. In definitiva, stiamo per fare un viaggio indietro nel diciannovesimo secolo, ma vale la pena notare che questo non è un divorzio dalle realtà contemporanee, come si potrebbe pensare.
Gli economisti classici e le arti
Permettetemi di guardare alcuni dei primi pensatori economici di questo periodo che erano associati all’economia politica. Stiamo parlando di una tradizione di pensiero che era strettamente legata a ciò che oggi in Australia pensiamo come un liberalismo minore, e in effetti le riforme dei sistemi di governo sotto la bandiera del liberalismo nel diciannovesimo secolo in Gran Bretagna ha oggi un’eredità contigua nel sistema governativo australiano.
Così, cose come lo scrutinio segreto, l’urna elettorale o il fatto che i diritti di voto non siano limitati alla condizione che gli uomini possiedano le terre, oppure l’idea comune che il ruolo del governo dovrebbe essere limitato semplicemente alla creazione di un ambiente in cui può aver luogo la libera concorrenza, piuttosto che un approccio più attivo, associato dopo la prima guerra mondiale all’interventismo keynesiano.
Queste sono tutte eredità dei liberali riformisti del diciannovesimo secolo prima dell’istituzione del partito laburista in Gran Bretagna e, soprattutto, prima della prima guerra mondiale, che portarono a un cambiamento nel modo in cui le persone concettualizzavano il ruolo del governo. Anche tutto questo ha una controparte nella politica recente, dato che ora accettiamo un intervento molto maggiore del governo per il bene della salute pubblica.
Comunque il mio punto è che questa storia sull’impatto dell’estetica sull’economia politica non è confinata al lontano passato. In effetti, potremmo anche dire che una parte del motivo per cui l’economia nelle arti ci sembra oggi una strana compagna di letto è dovuta al modo in cui l’estetica, l’immaginazione e le emozioni sono state trattate nella prima storia intellettuale del liberalismo.
La musica nel pensiero liberale
Ancora una volta mi concentrerò sulla musica come esempio. La musica è stata a lungo considerata nel pensiero liberale. L‘economista illuminista scozzese Adam Smith usa le interazioni tra i musicisti in un quartetto d’archi come metafora di come le comunità costruiscono un consenso ragionato e condividono – ad esempio, il sentimento morale comune.
Eppure il rapporto del liberalismo con la musica è problematico e sfuggente. L’utilitarista e riformatore sociale Jeremy Benton definisce l’esperienza della musica come paragonabile al piacere derivato da un gioco di puntine da disegno e l’essere coinvolti nel gioco è in effetti più prezioso della musica se fornisce un piacere maggiore. L’economista e filosofo John Stuart Mill classifica la performance musicale con un’etichetta improduttiva.
Eppure sia Benton che Mill hanno anche registrato profondi impegni personali con la musica per tutta la vita, e un esame più attento di cosa intendessero per cose come il piacere dell’utilità e l’etichetta, improduttiva o meno, rivela la natura non peggiorativa dei commenti. Anche così c’è stata questa tentazione di interpretare male questi tipi di commenti come parte di un più ampio processo di allineamento del liberalismo in Gran Bretagna nel XIX secolo con una retorica di carattere nazionale, una retorica che enfatizzava l’azione sul pensiero o il valore di scambio sul valore estetico o sui prodotti del processo produttivo.
Tale tropismo sarà blasonato dal famoso ritratto di Adam Smith dell’Inghilterra come la nazione dei negozianti nella sua indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni nel 1776, e dall’osservazione di Mills, nel 1835, che la celebrità dell’Inghilterra riposava sui suoi dottori, i canali e le ferrovie.
Così, possiamo vedere la stessa retorica in gioco nel discorso politico australiano sui beneficiari del welfare – almeno, prima del covid. L’idea che tu sia Alena o Alifta. Quindi, la narrativa dell’azione pratica è stata collegata a una caratteristica interessante del liberalismo, vale a dire la libertà concepita come azione individuale e fiducia in se stessi.
Queste cose sembrano essere piuttosto lontane dalla preoccupazione dell’estetica. Nel contesto della nostra attuale discussione sul perché gli artisti sentano ancora oggi il bisogno di difendersi in termini economici, vale la pena chiedersi come il liberalismo e le relative tradizioni di pensiero hanno affrontato le sfide speciali poste da un mezzo estetico, la musica, il cui l’ampio potere affettivo diffuso sembra del tutto sproporzionato rispetto alla sua limitata funzione comunicativa.
E quello che voglio dire con questo è che sappiamo tutti che la musica può suscitare in noi emozioni molto forti poiché divagazione, tristezza, nostalgia o altro spesso non comunica idee specifiche, specialmente quando non ci sono parole per assecondarla. Potremmo avere il senso di un’immagine o di un paesaggio o di un’identificazione per la musica, ma è notoriamente difficile individuarne il significato. Si è spesso affermato che ciò che trasmette non può in effetti essere espresso a parole: un famoso scritto di un autore della nuova Repubblica nel 1918 afferma che scrivere di musica è illogico quanto cantare di economia.
La discrepanza tra l’intensità della risposta emotiva alla musica, il fatto che attiviamo i sentimenti, ha un grande significato, e la sua funzione comunicativa limitata ha reso la sfida speciale per i pensatori liberali. Un esempio di ciò è il pensatore utilitarista John Stuart Mill che ho menzionato prima. È importante annotarlo in questo contesto, sebbene la consueta descrizione dell’utilitarismo riguardi la ricerca della più grande felicità per il maggior numero di persone.
Questa idea è stata articolata dai primi pensatori non in termini di felicità ma in termini di piacere, di evitamento del dolore. Così gli utilitaristi ritenevano il piacere fine a se stesso, vale a dire un bene irriducibile a qualsiasi altro bene. Se un’azione produce piacere o benessere in una proporzione sostanzialmente maggiore rispetto alla sofferenza dolorosa che potrebbe essere la causa, allora eticamente potrebbe essere considerata un’azione buona o giusta.
L’idea di perseguire azioni che creano piacere suona profondamente decadente alle nostre orecchie oggi, ma ciò che questa categoria offriva era una classe generale di bene, o diritti, che era, essi pensavano, libera dall’influenza del dogma morale esistente perché si trattava di come essi provavano dei sentimenti, e potremmo pensarli anche viziati con quell’idea, ma era quello che sentivano, era una sorta di valore neutrale.
Questo è ciò a cui si riferisce Mill quando scrive del piacere, non semplicemente del piacere passeggero o del piacere sensuale, ma di un profondo senso di benessere, scopo e sentimento che secondo lui tutti gli umani cercano in un modo o nell’altro. Quindi, questo comprende alcune forme di dolore a breve termine poiche più durevole del piacere, come un esercizio o il parto.
Mill era un pensatore prodigioso e rigoroso fin dalla tenera età, ma nella sua autobiografia scrive della sua esperienza di un crollo emotivo durante i primi vent’anni, quando si rese conto che parte del proprio piacere e il piacere di tutti gli altri riguardava lo sforzo o la lotta per raggiungere un fine dichiarato, e se tutte le misure di riforma sociale che aveva escogitato fossero entrate in vigore e non ci fosse più lotta e tutti i bisogni fossero soddisfatti, vi sarebbe meno piacere dalla vita.
Ebbene, è stata la prima lettura di Mill della poesia delle parole che fornirono un punto di svolta in questi incroci emotive. Era stata la musica che aveva aggravato la prospettiva angosciosa e che aveva dato il via agli incroci in primo luogo, perché era la musica che gli rivelava che una volta soddisfatti i bisogni fondamentali degli esseri umani – il piacere della felicità – questa soddisfazione dei bisogni prodotta sarebbe stata meno preziosa per noi nel tempo.
Il ruolo del’aspetto estetico per il cambiamento del pensiero
Mi prendo un momento per citare qui il pensiero di Mill così da avere un’idea di quale ruolo ha avuto la musica nel suo cambiamento di pensiero. E anche se non sarete d’accordo con la sua analisi del problema che la musica presenta, potrete almeno discernere l’importanza dell’aspetto estetico dell’arte per il cambiamento del suo pensiero. Così scrisse, nell’umore dell’epoca, del suo crollo mentale.
In quel periodo conobbi per la prima volta l’Oberon di Weber, e l’estremo piacere che trassi dalle sue deliziose melodie mi fece bene mostrandomi una fonte di piacere a cui ero più suscettibile che mai: questo bene, tuttavia, essendo molto compromesso dal pensiero che il piacere della musica… svanisce con la familiarità, e richiede di essere alimentato da continue novità. Ed è molto caratteristico sia del mio stato di allora che del mio carattere mentale generale in quel momento, che fossi seriamente tormentato dal pensiero dell’esauribilità delle combinazioni musicali.
I cinque toni e i due semitoni dell’ottava possono essere accostati solo in un numero limitato di modi; di questi solo una piccola parte è bella; la maggior parte di questi doveva essere già stata scoperta e non poteva esserci spazio per una lunga successione di Mozart e Weber per far emergere, come avevano fatto, delle vene di bellezza musicale completamente nuove e straordinariamente ricche. Questa fonte di ansia può sembrare forse simile a quella dei filosofi di Laputa che temevano che il sole si bruciasse… sentivo che il male nella mia vita doveva essere un male nella vita stessa; che la questione era che se i riformatori della società e del governo potessero avere successo nei loro obiettivi e ogni persona vivente fosse libera e nel benessere fisico, i piaceri della vita, non essendo più sostenuti dalla privazione e dalla lotta, cesserebbero di essere piaceri: e io sentivo che, a meno che non fossi riuscito a vedere la mia strada verso una speranza migliore di questa per la felicità generale dell’umanità, il mio sconforto dovesse continuare.
Mill si volse da questa preoccupante presa di coscienza rivelatagli dalla sua esperienza di ascolto di Oberon verso la poesia di Wordsworth, attraverso la quale si rese conto che in effetti l’estetica poteva promuovere un diverso tipo di piacere rispetto a quelli che nascono per soddisfare i bisogni.
Quello che ha chiamato un piacere comprensivo e fantasioso che potrebbe essere condiviso da tutti gli esseri umani, è ciò che ha scritto, una sorta di sentire comune che fa avanzare gli obiettivi democratici e una vita ricca. Secondo questo pensiero, l’’individuo che persegue il piacere personale potrebbe essere meglio attrezzato per partecipare all’aumento del piacere comune suggerendo che l’estetica fornisce la base delle relazioni sociali in un modo che i dibattiti razionali non potrebbero.
Il punto che turba Mill durante il suo crollo – il piacere era esauribile una volta che i bisogni fondamentali di cibo, riparo, ecc. fossero soddisfatti – portò nel secolo a una svolta importante nell’economia lontana dall’economia politica verso quella che fu chiamata la teoria dell’utilità marginale. Questo cambiamento ha spostato la misura del valore da quanto costa produrre un bene, una teoria del valore del lavoro, a quanto i consumatori sono disposti a pagare per questo.
Parallelamente, questo è anche uno spostamento dell’attenzione dall’ideazione di un sistema che supportava i bisogni umani, all’ideazione di un sistema che sostenesse il desiderio umano, un cambiamento che rifletteva il timore che una volta che i bisogni fossero stati soddisfatti, e se soddisfatti ci sarebbe stata una stagnazione economica, le persone avrebbero smesso di acquistare cose.
Al contrario, il desiderio era insaziabile, il che significa che se il sistema è orientato al desiderio del consumatore piuttosto che al bisogno umano, c’è un potenziale di crescita economica infinita. L’unico problema era che l’utilità o il piacere che il prodotto offre diminuisce man mano che si acquisisce, questo significa avere il problema che Mill ha appena descritto.
Così, una pagnotta di pane è di alto valore per un uomo affamato, ma dopo che è stata pagata si pagherebbe di meno per la prossima pagnotta perché si ha meno fame e quindi il pane darà meno piacere – continuare a consumare il pane al massimo potrebbe anche portare ad avere una sensazione dolorosa. Questa è la legge dell‘utilità marginale decrescente che ha rappresentato una sfida importante a un prevalente dominio dell’economia politica.
Il piacere dei sensi e dell’immaginazione
Ancora una volta, la musica è ovunque in queste discussioni. Uno dei primi psicologi della musica, Edmund Gurney, ha contribuito ai dibattiti sull’utilità marginale nelle riviste liberali affiancando i teorici politici ed economici sostenendo che la musica e l’arte visiva rappresentavano una via d’uscita dal ciclo di scambio senza fine perché il piacere estetico ricevuto attraverso i sensi dell’udito e della vista operava diversamente da altre sensazioni come quella della fame fisica.
Udire e vedere richiedevano l’apprensione attiva della forma, il cui eccesso non riduceva quanto vivida potesse essere. Così Gurney ha notato come una fragranza piacevole che persiste troppo a lungo semplicemente perde la presa su di noi, ma una piacevole melodia eccita i sensi tanto quanto la sgradevolezza se c’è un eccesso di essa. Ora per Gurney proviamo dolore e piacere in eccesso rispetto a una bella musica in un modo diverso dalla legge dell’utilità marginale, che parla di un’utilità marginale decrescente.
Quindi, come abbiamo visto con Mill, l’estetica legata ai sensi e all’immaginazione sembra offrire un diverso tipo di utilità o piacere rispetto ad altre cose, il che significa che potrebbe indurre un cambiamento nelle teorie del valore esistenti. In effetti, ci sono prove che suggeriscono che uno dei principali economisti e teorici economici della teoria dell’utilità marginale, William Stanley Jevons, – che una volta descrisse la musica come una “condizione della mia esistenza” – fu influenzato nel suo pensiero sulla logica dalla musica e dalle strutture musicali.
In effetti ideò un pianoforte logico, un vero e proprio set di una scatola con una tastiera, che aveva lo scopo di testare il valore di verità degli argomenti usando una prima forma di quelli che sarebbero diventati i principi delle funzioni computazionali. In altre parole, la forma di una tastiera di pianoforte ha fatto riflettere Jevons sul calcolo del valore di verità dei sillogismi in una luce diversa e contribuisce alla prima storia dei computer.
L’ultima figura che voglio menzionare molto brevemente oggi è un pensatore che era un critico dell’economia politica, che allo stesso tempo condivideva molte delle categorie con cui gli economisti stanno lavorando, vale a dire Karl Marx.
Nei primi lavori, come i manoscritti economici e filosofici del 1894, Marx si preoccupava di come la realtà umana fosse stata dominata dai mezzi piuttosto che dai fini. Ha scritto che tutti i sensi fisici e intellettuali sono stati sostituiti dal loro semplice estraniamento – il senso dell’avere aveva ampliato il senso del bisogno. Quando la nostra relazione con le cose al di fuori di noi è puramente per ciò che desideriamo, non siamo in grado di percepire ciò che è necessario per creare noi stessi come esseri umani. Quindi, Marx usa qui di nuovo la musica come esempio, scrivendo:
Soltanto attraverso la ricchezza oggettivamente dispiegata dell’essenza umana vi è la ricchezza della umana sensibilità soggettiva (l’orecchio musicale, l’occhio per la bellezza della forma – in breve, i sensi capaci di umana gratificazione, sensi che affermano se stessi come poteri essenziali dell’uomo) sia essa coltivata o prodotta.
Allora, ciò che è interessante in questo saggio è l’affermazione che il sentire o percepire gli oggetti come fine a se stessi – in una mentalità estetica, se mai ve ne fosse una – è secondo Marx ciò che ci consente di riprenderci da una condizione di alienazione che deriva dalla divisione del lavoro .
Marx sosteneva che il lavoro è oneroso solo quando è un mero mezzo per la vita piuttosto che un’esistenza piena, e i sensi sono ricettivi solo nella misura in cui non sono semplicemente un mezzo per un altro fine, quindi non stiamo solo usando i nostri sensi per la sopravvivenza ma per il piacere estetico e il gioco dell’immaginazione.
Un invito a ripensare, anche attraverso le arti e le politiche culturali, i nostri valori attuali e futuri
In conclusione potremmo chiederci cosa possiamo trarre da questa lunga e breve storia di intermezzo tra pensiero economico e valore estetico, e cosa potrebbero dirci su come pensiamo alle arti nell’ambiente economico post-covid.
Vorrei ribadire che il fatto stesso di avere delle arti che non ricadano nell’economismo attuale non è un problema di percezione pubblica per le arti, piuttosto è un invito a pensare a quali tipi di valori abbiamo in un sistema che non consente arti senza conformarle alla logica dello scambio, e se davvero vogliamo questo tipo di sistema.
Anche solo il fatto che le arti sentano di doversi difendere in termini economici ci invita a considerare altri sistemi di valore, e anche a domandarci se altri tipi di pensiero economico possano essere a noi più utili. Dopotutto, nessun economista pretenderebbe che l’economia sia una descrizione neutra o oggettiva o eccessivamente dannosa per il mondo naturale e che non è malleabile.
Ancora una volta, questa non è un’idea particolarmente rivoluzionaria, anzi possiamo vedere come funzioni già in alcune recenti riflessioni sul cambiamento climatico con la logica del mercato e dell’economia, che è stato sfidato con approcci vibranti da argomentazioni estetiche intorno al sentimento di empatia, responsabilità, etica, e come queste cose ci abbiano restituito una visione.
Prima di ciò, ed era purtroppo il caso anche in Australia, la politica ambientale sulla scena globale era pesantemente economizzata. L’inquinamento e le soluzioni ad esso, se ricordate, erano viste come problemi economici piuttosto che problemi etici o politici, mettere un prezzo sul carbonio, vendere una licenza per inquinare, lasciamo che il mercato risolva questo problema.
Rivolgersi ai meccanismi di mercato in risposta a quelle che sono essenzialmente questioni etiche è comprensibile all’interno di una mentalità concentrata sul libero mercato liberale, e in effetti questa era un’idea progressista che cercava di creare una situazione di concorrenza aperta ed equa ricorrendo a sistemi e processi numerici per sostituire le vecchie idee su come la società potrebbe funzionare derivanti da tradizioni, convenzioni dogmatiche e gerarchie radicate – ciò doveva essere dunque una cosa liberatoria.
Così, può essere una posizione progressista se si prova a capire come la società funziona – al tempo i numeri e i processi sembravano avere valori più neutrali rispetto alle idee su virtù e moralità.
Ma quella che alcuni hanno chiamato la colonizzazione dell’etica da parte degli economisti ha lasciato meno spazio a una seria considerazione dell’importanza di cose come la simpatia, la responsabilità e il bene comune. No, non voglio essere riduzionista su questo concetto come il bene comune. So che non è esente da gravi problemi, e abbiamo visto come questa retorica può essere usata per razionalizzare storicamente alcune orribili forme di governo – e in questo stesso senso, la pretesa delle persone di impegnarsi con le arti in modo che i cittadini siano più democratici o abbiano più senso dell’etica poiché più capaci di vedere oltre l’individuo verso il bene comune, cose purtroppo che non sono necessariamente vere.
Tuttavia, la mutevole retorica internazionale sulla necessità di agire sui cambiamenti climatici intorno a idee sulla protezione dell’ambiente per il bene della sopravvivenza umana, pensando seriamente a cosa significhi essere una specie animale che rischia l’estinzione, ma che possiede un senso di responsabilità etica che concepisce la modifica di quella situazione, è incoraggiante.
E anche il recente cambiamento di atteggiamento nei confronti dell’intervento del governo nel campo della salute pubblica, specialmente intorno all’etica individuale della vaccinazione, suggerisce il revival della categoria di pensiero che ha origini estetiche, e cioè nel bene comune rispetto al pensiero di un sé semplicemente come prodotto di individui razionali, che agenti nei mercati, devono avere la libertà di scegliere secondo i nostri desideri, interessi e piaceri personali.
Come ha osservato di recente il leader dell’opposizione liberale John Hewson sul giornale Sunday, ci è voluto molto tempo perché il concetto di un bene più grande, del senso di un destino condiviso, di uno scopo collettivo, di un futuro comune, stia finalmente tornando alla politica. Hewson vede la capacità di adeguare il nostro comportamento in risposta alla pandemia come una prova generale per il cambiamento di comportamento che potrebbe essere necessario per una risposta efficace nell’affrontare l’attuale sfida climatica o per un nuovo atteggiamento verso la leadership del governo o altre questioni come fornire agli aborigini il riconoscimento costituzionale e la voce in parlamento.
Allora, vorrei concludere con questo: qualsiasi discussione sulle arti e la politica culturale in Australia nella nuova normalità del post-covid non dovrebbe riguardare semplicemente come le arti siano davvero preziose secondo gli attuali sistemi di valore. Piuttosto, una politica artistica e culturale dovrebbe essere una componente centrale e una forza modellante a supporto di un dibattito a livello nazionale su quale tipo di vita vogliamo condurre come comunità nel futuro, grazie”.
Riferimenti
Associate Professor Sarah Collins (University of Western Australia): The Unproductive Arts?: Cultural Economy after Covid, 14- September-2021
Karl Marx, “Economic and Philosophical Manuscripts of 1844,” in Early Writings, ed. Lucio Colletti, trans. Rodney Livingstone and Gregor Benton (London: Penguin 1975).
John Stuart Mill, 1824, “Autobiography and Literary Essays”, The Collected Works of John StuartMill, Volume I.