Pubblicato un saggio del sociologo francese Dominique Wolton su informazione e comunicazione
In questi ultimi anni, sulla scia di una fiducia decrescente sul senso liberatorio e progressista di cui si era ammantata la missione originaria di internet, si è assistito alla forte crescita di una pubblicistica critica riguardo agli sviluppi sociali e culturali dei processi comunicativi e informativi sospinti dalle tecnologie di rete.
In questo stesso filone approda ora in Italia lo scorrevole saggio del sociologo francese Dominique Wolton -– Connessi e abbandonati. Informare non è comunicare – un’opera che è un vero e proprio appello a recuperare il senso dell’azione comunicativa per le comunità umane.
La comunicazione come opera di negoziazione
Una premessa va fatta: a differenza di altri questo lavoro non vive della sorpresa per le attese tradite. Forte di approfondimenti trentennali – con opere tradotte in una ventina di lingue in vari paesi nel mondo – l’autore è portatore di un pensiero lungo e ben ferrato sulle dinamiche sociali e culturali della comunicazione.
Conseguentemente, di fronte al panorama frastagliato degli attuali dispositivi comunicativi e ai suoi effetti spiazzanti – “sognavamo il villaggio globale, e invece riscopriamo la Torre di Babele” – la scelta di Wolton è di puntare direttamente al cuore “politico” del problema, ai principi e alle dinamiche che hanno reso fondamentali – da due prospettive interrelate ma diverse – la comunicazione e l’informazione per il funzionamento delle nostre comunità sociali.
Mantenendo nell’argomentazione una sintesi mirabile e un costante piglio, l’autore – tra le molte contraddizioni e paradossi rilevati nell’attuale sfera informativa/comunicativa – sottolinea desolatamente la discrepanza tra la potenza, precisione e varietà delle tecnologie e le crescenti difficoltà ad appianare le barriere dell’incomunicazione e favorire la convivenza tra persone e popoli.
Il suo invito allora è di entrare nel merito di questo paradosso, in cui una fede astratta nelle tecniche e tecnologie nasconde ciò che – come giustamente affermato dal prefatore del testo citando il filosofo dei media John Durham Peters – è il vero problema della comunicazione: non tanto gli inciampi riguardo alla semantica, ma quelli relativi all’etica e alla morale.
La sfida della incomunicazione
La comunicazione in quanto possibilità di relazione per Wolton rimane merce rara dato che emittenti e riceventi sono sempre su piani diversi, e la rapidità delle forme di comunicazione, così come l’aumento delle fonti e dei riceventi, non diminuiscono e anzi possono complicare l’attesa di comprensione reciproca – in effetti, è l’incomunicazione, intesa come risultato delle difficoltà di incontro con l’altro, l’orizzonte certo che tentiamo di superare.
La comunicazione così è il miracolo che può squarciare momentaneamente questo muro, e avviene con un’opera intensa di negoziazione tra le parti. Essa mira a creare la convivenza per tenere insieme la contraddittorietà delle molteplici dimensioni e dei valori in essere nelle società moderne, per smussare e armonizzare le reciproche differenze sociali e culturali, così come le diversità dei modi e delle sensibilità dei nostri approcci nella pratica – e tutto per assicurarci un necessario senso di unità, altrimenti irraggiungibile.
De-tecnicizzare la discussione
Wolton afferma che nelle nostre società vi è un evidente ritardo di riflessione teorica e critica sulle molteplici forme di informazione e comunicazione. Si parla di “società della informazione” e si espandono i sistemi tecnologici – diffondendo una moltitudine di simboli e innalzando livelli di interazione in ogni dove – senza accompagnare i processi con un necessario presidio critico.
Eppure l’informazione “non può da sola configurare un orizzonte sociale”. Per fare ciò dobbiamo istituire e coltivare i legami sociali, raggiungere una reale condivisione e una certa comunione di intenti. D’altronde, è nella stessa natura dell’informazione – per significare e anche per interessare – provocare rotture, aggiornare o sovvertire continuamente un “ordine precedente”.
Per Wolton de-tecnicizzare la discussione vuol dire proprio questo, “una teoria dell’informazione e della comunicazione non si può separare da una visione e da una teoria della società”, società in cui continuano a rimarcarsi fra le persone differenze di ogni tipo – materiali, sociali, etniche, di genere – e in cui la reale comunicazione umana continua a rimanere incerta e complessa nonostante le iper-attività sollecitate dal nuovo paradigma tecnologico.
Divergenze di interessi e contraddittorietà dei fini
Wolton ci aiuta così a individuare le debolezze filosofiche di questa alchimia di sistemi tecnologici e dinamiche sociali e culturali nell’ambito delle nuove frontiere della comunicazione e della informazione, mettendone a nudo la contraddittorietà degli approcci e dei fini.
Da questo punto di vista le sue critiche possono aiutarci ad abbandonare un certo lassismo e una trascuratezza riguardo ad alcune pieghe prese dall’espansionismo informativo e comunicativo reso possibile dalle tecnologie di rete – a cui, nella loro intrusione in ogni aspetto umano, sembriamo perdonare tutto , e ciò nonostante esse possano rispondere anche a interessi diversi rispetto a quelli di utilità più generale richiamati dall’autore.
In realtà, abbiamo modo di constatare quotidianamente come gli orizzonti comunicativi della rete internet siano ormai in buona parte piegati soprattutto a fini di redditività economica o commerciale d’impresa – quindi, di per sé, obiettivi molto parziali se pensiamo allo spettro dei valori necessari a supportare validamente degli ecosistemi sociali – con meccanismi che – per coinvolgere contemporaneamente miliardi di persone – sono ingegnerizzati massivamente in termini di automatismi e scale applicative, confenzionati secondo i criteri egoistici del massimo ritorno e indifferenti ai singoli destini umani.
Concedendo la buona fede d’intenti ai più, chi crea e congegna i servizi con questi livelli di intensità ed estensione operativa è quasi costretto – per essere competitivo e profittevole – a trascurare i più ampi effetti d’insieme, così come a porre all’ultimo posto l’attenzione per i loro risvolti etici e morali.
Al più, quest’ultimi sono considerati solo in seguito ad appelli ultimativi da parte di qualche potere pubblico forte, una modalità di contrasto che avviene con enorme difficoltà – tra contesti locali e interessi/strategie globali – e comunque quasi sempre a posteriori, quando il campo e il posizionamento per difendere tali aspetti è ormai perso.
Informazione e comunicazione nella presa valoriale dell’informazionalismo
Non è certo casuale che per raccordare questo scollamento tutte le nuove aziende tecnologiche in internet – alcune diventate nel frattempo potenti imperi, gonfi di informazioni di ogni genere su cose e persone e super-attrezzate dei software sofisticati dell’intelligenza artificiale – sentano il bisogno di accompagnare il loro agire con degli slogan rassicuranti – mantra tanto ripetuti quanto generici – sull’ impegno a “costruire un mondo migliore”.
E tuttavia la loro primaria missione è stata (e rimane) il miglior posizionamento in un nuovo genere di industria, che tratta i concetti di informazione e comunicazione soprattutto in termini cibernetici per estrarne comunque del valore economico, essenziale per il proprio sviluppo impreditoriale.
Per queste aziende data insurgent calarsi nell’ambito dell’informazione e comunicazione vuol dire competere – nell’agone del marketing – per guadagnare risorse pregiate quali l’attenzione delle persone o un insieme di indizi precisi e puntuali su bisogni, comportamenti o desideri in essere.
L’informazionalismo è questa nuova era, in cui la ricchezza deriva sia dalla produzione di dispositivi per l’elaborazione di dati – e tutto ciò che pensiamo e facciamo nel nostro vivere onlife è ormai riducibile a dati –, sia dalla creazione di prodotti che sono l’elaborazione stessa di informazioni.
Con essa si è aperta – per gli attori di tale firmamento – la nuova frontiera di uno sviluppo ritenuto infinito grazie alla generatività di servizi derivanti dagli accumuli di conoscenza/dati e dall’evoluzione dei software che aggregano, analizzano e predicono – e da tutto ciò iniziano anche ad autoapprendere affinandosi autonomamente (machine learning).
È stato questo il sottostante processo che ha alimentato un circolo virtuoso che, abbattendo i costi industriali nell’ICT sull’onda liberista globale degli anni Novanta (XX secolo), ha agevolato la rapida adozione sociale dei sistemi d’interazione internettiani, spingendoci in un’euforia per tanti versi irriflessiva – sicuramente riguardo a una presunta epifania nella costruzione e gestione dei rapporti umani e sociali.
In Connessi e abbandonati Wolton ha il merito di riportare un certo ordine nello stato delle cose provando a chiarire il buono che le società umane producono con gli strumenti e i processi dell’informazione e della comunicazione, non illudendoci sulla necessità di rimanere critici e vigili su problematiche la cui salvaguardia sempre richiederà fatica e responsabilità a ogni essere umano.
Riferimenti
Wolton, D., 2022, Connessi e abbandonati. Informare non è comunicare, Napoli, Editoriale Scientifica.