Su crisi settoriali e insidie del diritto
Nonostante la consapevolezza di avere sempre da guadagnare nel ragionare anche in termini prospettici – di conoscere le cose e vederle as a big picture –, spesso soffriamo la mancanza o la non facile reperibilità di analisi appropriate.
Assorbiti dagli impegni, fiaccati nelle forze o distratti dall’iper-attivismo di una contro-informazione interessata, rimaniamo alla mercé delle correnti mainstream, ancorati a idee molto parziali e deboli per supportare/contestare azioni e decisioni che confinano la nostra agibilità mediale.
In realtà, soprattutto con il decollo e adozione di internet nella vita delle singole persone, siamo continuamente sollecitati da parte dei vari policy-maker – a loro volta smossi direttamente o indirettamente dalle azioni o lagnanze settoriali – a prendere posizione su argomenti quali la pirateria dei contenuti mediali e il contrasto a pratiche che distruggono valore e lavoro nelle industrie culturali e di telecomunicazione.
Nonostante abbia scelto da tempo una forma lunga dei contributi per il mio simil-blog, avrei un compito comunque difficile nel raccogliere e discorrere l’insieme delle problematiche che, per avere un’idea equilibrata della questione, dovrei richiamare: lo spettro tematico parte normalmente dall’economia, passa per il diritto e approda inevitabilmente alla democrazia. Quando ho provato a sviluppare un ragionamento, la cosa ha richiesto decine e decine di pagine, lo spazio necessario a soppesare gli aspetti, i principi e i punti di vista che i cambiamenti apportati dalle tecnologie elettroniche, fin dagli anni Ottanta del XX secolo, hanno continuato a introdurre nella legislazione, nel business e negli usi dei media.
Il lavoro fatto ha lasciato però la voglia di ritornarvi quando, come in questo caso, si rendono disponibili approfondimenti capaci di illuminare meglio il grande puzzle. I due report titolati The sky is rising e The private and social cost of patent trolls, rilasciati rispettivamente ad inizio 2012 e alla fine del 2011, meritano una prolunga discorsiva, soprattutto in un periodo in cui acronimi tipo SOPA, ACTA, PIPA, FRAD, ecc., sigle che richiamano normative in cantiere o in essere, infestano articoli e discussioni su cultura, tecnologia e new media.
Consumi mediali come fenomeno anti-ciclico
Il primo documento è un riepilogo dell’evoluzione dei consumi mediali – video games, musica, libri, cinema e video – negli ultimi 10 anni, periodo unanimemente riconosciuto come uno dei più regressivi dell’economia mondiale.
I dati collezionati provengono da primarie fonti quali BLS, BookStats, Game Developer Research, Gartner, Gracenote, IBISWorld, iDATE, IDPF, IFPI, ISBN, MPAA, Nielsen SoundScan, Parks Associates, PRS, PwC, Schwann’s Catalog, TESA, The UNESCO Institute for Statistics, YouTube.com. Per chi si è abituato ad ascoltare lagnanze sullo stato del mercato editoriale al tempo di internet, il quadro che ne esce fuori è sorprendente: i consumi mediali si rivelano un fenomeno resistente e anti-ciclico, tanto che il valore globale dell’industria dell’intrattenimento è cresciuta nel periodo considerato del 50%, mentre la spesa familiare, nonostante la cosiddetta tendenza ad avere tutto free, aumentata del 15%.
Non tutti i settori, ovviamente, si sono incrementati allo stesso modo, ma la tendenza positiva è comune. A tirare le fila, non solo siamo in una condizione storica unica per l’abbondanza dei contenuti, ma
internet ha agevolato una massiva crescita e un poderoso sviluppo dell’industria dell’intrattenimento, a beneficio sia dei consumatori sia dei creatori di contenuto.
L’insieme dei dati ci accompagna verso conclusioni che, con tutte le possibili osservazioni critiche e correzioni del caso, è difficile non condividere:
- i consumatori sono in un “periodo di assoluta abbondanza a livello di intrattenimento. Rispetto a prima ci sono molti più contenuti e molti più canali per usufruirli. Se ragioniamo nei termini della Costituzione degli Stati Uniti, che si premura così nel giustificare le leggi del copyright, appare chiaro che il progresso delle scienze e delle arti utili è stato promosso – anche se spesso il copyright è stato ignorato o superato.
Vi è un incredibile aumento di contenuti in qualità e quantità, ed essi sono, in assoluto, sia più accessibili sia disponibili per molte più persone”;
- i creatori di contenuti vivono un “periodo di opportunità straordinarie e nuove”. Oggi non è più vero che si debba passare solo attraverso un gatekeeper – il quale, spesso, trattiene la grande quantità dei guadagni – per poter “creare, promuovere, distribuire e monetizzare i propri lavori”, ma si hanno a disposizione nuove vie e strumenti per farlo;
- i tradizionali intermediari hanno in internet sia una sfida che un’opportunità. “Non vi è dubbio che internet ha eroso i margini dei guadagni fatti attraverso i mezzi tradizionali. Tuttavia, come dimostrano i dati, il denaro che fluisce in questo settore aumenta, così come i contenuti e i modi di guadagnare. Tutto ciò dimostra che è in atto una sfida a livello di modelli di business e di marketing con una prospettiva che, nel lungo termine, promette molte più opportunità. Il punto focale è scoprire come catturare il valore in un’industria che si espande. Le imprese tradizionali affrontano sicuramente una maggiore competizione (mentre diminuiscono le ragioni per cui gli artisti devono accordarsi con loro) – il che spiega le varie lamentele circa la morte di tali industrie. Ma, soprattutto, è chiaro che, abbracciando le nuove opportunità, si aprono molte vie per avere successo”.
Competizione e innovazione
Non è la prima volta che le varie industrie culturali e di telecomunicazione si trovano a dei passaggi critici, e spesso ad essi hanno saputo reagire riguadagnando campo. Tuttavia, è anche vero che lo scenario dei partecipanti e le modalità di partecipazione si sono sia ampliate che dinamizzate.
L’affermazione delle tecnologie digitali, la diffusione di sofisticati apparati hw/sw a livello personale e le interconnessioni degli stessi (apparati e persone) in rete tramite protocolli interoperativi hanno abbassato le barriere partecipative alla produzione e circolazione dei contenuti/informazioni, un fenomeno che ha avuto effetti su ogni altro settore, soprattutto quelli hi-tech, più influenzati dalla ricerca e innovazione.
Un interessante studio sui fenomeni imprenditoriali, trasversali a tutti i settori, elaborato dalla Ewing Marion Kauffman Foundation, ha rilevato che negli Stati Uniti ben il 10,7% di tutte le start-up sono fondate da individui che hanno sviluppato il prodotto per un proprio uso personale, per estenderlo solo successivamente, in maniera strutturata, al mercato. Ma il dato più interessante è che ben il 46,6% di queste hanno appena 5 anni di vita.
Ricapitolando, mentre nei mercati delle industrie culturali si denunciano perdite, i grandi numeri delineano un aumento dei fatturati con le famiglie che spendono di più. Al contempo, aumentano gli imprenditori che in essi vogliono avere una parte e tutti, vecchi e nuovi, devono ormai ragionare – a meno di non voler imporre regole restrittive e conservative – in un nuovo contesto.
La situazione, al di là delle posizioni di facciata e dei naturali tentativi di sfruttare la propria influenza, è chiara a tutti; un po’ meno le soluzioni, soprattutto quando si vorrebbe che tutto rimanesse as usual.
Da questo punto di vista, qualcuno prova a fornire consigli per migliorare aspetti che potrebbero limitare – o meglio, non alimentare – gli effetti indesiderati.
Ad esempio, si incontrano analisi ficcanti svolte da alcuni economisti sulla correlazione che vi è tra il ritardo di uscita dei film in paesi diversi da quelli in cui nasce la produzione e le perdite accusate per cause dovute alla pirateria. In sintesi, si è visto che meno si ritarda a far uscire i film a livello globale, più si viene incontro al desiderio del pubblico e alla sua disponibilità a fruirlo regolarmente. Ed è questo uno degli inviti rivolti ai produttori per calmierare il fenomeno della pirateria.
Ma, a dirla tutta, questi cosiddetti ritardi sono parte integrante della strategia di vendita dei contenuti filmici da quando gli incassi fatti al botteghino non rappresentano più la maggiore fonte di guadagno della produzione. Infatti, se negli anni Trenta del XX secolo la percentuale di persone che si recava al cinema raggiungeva il 65%, negli ultimi decenni essa non supera il 10%.
La negoziazione dei diritti per coordinare l’uscita dei film nei vari paesi e, soprattutto, la gestione temporale delle uscite sui vari canali distributivi – sale cinematografiche, DVD, premium tv, pay-per-view, tv via cavo, video-on-demand, free-air – sono un vero e proprio esercizio artistico che insegue gusti e desideri di un pubblico variamente attrezzato di tecnologie casalinghe e personali. La massimizzazione dei ricavi è così ottenuta gestendo sapientemente, sulla base delle attese e dei canali, le “finestre” di uscita in uno scenario divenuto però sempre più mutevole.
Già dal 1986 la major cinematografiche guadagnavano più dall’affitto e vendita delle video-cassette che dai botteghini. Se negli anni Ottanta ben l’85% dei guadagni derivava dalle sale, negli anni Novanta esso si è ridotto ad appena il 25%. Con le tecniche digitali di pubblicazione (DVD) c’è stata un’ulteriore accelerazione dei cambiamenti anche se, diventato lo standard del consumo domestico nel 1997, l’avvento di internet e la possibilità di distribuirli anche via download/streaming ne ha decretato (dopo un decennio) il declino.
La clava, le rose e le spine del diritto
Dunque, se si deve parlare di crisi settoriale, questa ha a che fare sia con la resistenza al cambiamento e una debole velocità di risposta, sia con il desiderio di perpetuare le posizioni e il livello di redditività da parte dei tradizionali dominatori del settore. Giudici e Parlamenti sono così chiamati – nelle aule dei tribunali e in quelle legislative – a dover mediare, sempre più frequentemente, tra attori e interessi consolidati e realtà emergenti secondo idee e quadri normativi pre-esistenti alle evoluzioni tecnologiche e socio-culturali in essere (costume, pratiche di consumo, spinte espressive e innovative), ma nel farlo devono tener conto di un interesse e di un bene sociale più complessivo, un dovere quest’ultimo per loro fomdamentale in quanto giustifica il loro stesso potere (socialmente delegato) di intervento.
La medesima problematica assume rilevanza patologica sul versante industriale in quanto (praticamente) ogni giorno assistiamo all’avvio di cause legali per presupposte violazioni di brevetti da parte del concorrente commerciale di turno. In questo ambito siamo ormai a un punto di non ritorno nel senso che, visto i costi esosi delle dispute e la facilità di contestazione a cui si prestano i brevetti, soprattutto software – sia perché spesso accettati in termini di descrizioni generali vaghe, sia perchè, come i brevetti su standard interoperativi, si portano dietro o includono tutta un’altra serie di tecnologie e di lunghi sviluppi precedenti – vi è ormai la consapevolezza generale di dover in qualche modo cambiare l’intero sistema.
In effetti, soprattutto dopo il grande successo dei servizi software usufruiti in rete – leggi social network – e la loro diffusione su ogni sorta di dispositivo – in primis quelli mobili – la competizione tra gli operatori di comunicazione è all’ultimo sangue. Per citare solo un esempio, Google si è vista “costretta” a comprare (12,5 miliardi di dollari) l’azienda del mobile statunitense Motorola – è l’azienda che inventò la telefonia mobile.
L’obiettivo non dichiarato dell’operazione pare essere il miglioramento del suo parco brevetti nel settore: il sistema operativo Android, elaborato e rilasciato gratuitamente da Google come progetto open source, dopo il grande successo di adozione – è presente su almeno il 50% degli smartphone mondiali e su una grande quantità di modelli tablet – è sottoposto a continui attacchi legali, e ciò rischia di minarne in qualche modo l’ulteriore espansione o la stessa continuità operativa. In effetti, il fatto di essere l’ultima arrivata nel settore mobile ha agevolato le aziende concorrenti nell’azione di contestazione di un qualche elemento funzionale coperto brevettualmente da un loro precedentemente sviluppo.
Tanto per dire, Microsoft, facendo valere una sua vittoria legale, è riuscita a farsi pagare qualche dollaro su ogni telefonino Android prodotto da varie aziende quali Samsung, HTC, Acer. Anche Motorola, che ha adottato Android per alcuni suoi modelli, è stata portata in giudizio dopo essersi rifiutata di aderire, come le altre aziende, alla richiesta di royalty. Motorola, in effetti, dall’alto della sua passata esperienza e dal gran portafoglio brevetti accumulato, può difendersi più facilmente da questo genere di attacchi. Non solo, ma ora che è stata acquisita da Google, sono proprio gli avversari Microsoft e Apple a segnalare alle autorità anti-trust di stare attenti a dare parere positivo al merger in quanto lo stesso potrebbe far nascere una realtà che, avendo a disposizione un grande arsenale di brevetti (24.500), può bloccare i progetti dei competitor rifiutandosi di vendere – a prezzi e modalità giuste, questo sottointende l’acronimo FRAD che regola il gentlemen’s agreement di cooperazione commerciale tra operatori – qualche tecnologia essenziale per il mondo interoperativo del mobile!
Ovviamente, per quanto deprecabile, a volte tendiamo a pensare al fenomeno come a un effetto deleterio della ricerca del successo nel mondo degli affari, un fatto che riguarda aziende affermate che possono permettersi di perdere dei soldi. Ed è anche vero che si intentano cause, e lo vedremo meglio fra poco, quando si sa che i ritorni sono sicuri. E tuttavia, l’arma dei brevetti è usata frequentemente anche per intimorire o bloccare le piccole realtà avvertite come potenzialmente pericolose, ed è in assoluto un disincentivo all’innovazione come denuncia da tempo la EFF (Electronic Frontier Foundation).
The private and social cost of patent trolls si occupa proprio di questi aspetti prendendo di mira il vertiginoso giro di affari legato alle cause per violazione dei brevetti. Più precisamente, si concentra su quelle realtà legali che hanno imparato a lucrare sulle contraddizioni dell’intero sistema.
Le NPE (non-practicing entities) sono organizzazioni nate per gestire e far valere i brevetti di tutte quelle piccole realtà, anche singoli inventori, che non hanno le risorse finanziarie da impegnare nei processi di certificazione. Le NPE dunque non producono i beni interessati dai brevetti da loro curati: il loro scopo invece è di difendere chi si trova a operare nel mercato esposto e senza alcuna protezione.
I cambiamenti avvenuti negli ultimi 10 anni nei settori hi-tech e nei media e il loro comportamento stanno però mettendo alle corde i principi sociali che ne avevano giustificato l’istituzione. Nel solo 2010 le aziende statunitensi hanno ricevuto 2600 ingiunzioni legali, cinque volte di più che nel 2004. Le perdite complessive tra il 1990 e il 2010 sono state di 500 miliardi di dollari. La media annuale delle perdite negli ultimi 4 anni è di 80 miliardi di dollari. Le più colpite risultano, ovviamente, le aziende che maggiormente investono in ricerca, e tali costi, oltre a essere scaricati sugli stessi beni finali, rappresentano un disincentivo all’innovazione. Oltretutto, lo studio trova che le somme perse non sono poi devolute in qualche modo agli altri inventori difesi, non si tramutano cioè in incentivi all’innovazione.
Una terza evidenza certifica ciò che si affermava precedentemente: le ingiunzioni legali si concentrano sui brevetti software e di tecnologie collegate coinvolgenti possibilmente più aziende. Ciò suggerisce che
queste cause legali sfruttano le debolezze del sistema dei brevetti… frequentemente … i brevetti sono poco chiari negli obiettivi, scritti in linguaggio vago e le aziende tecnologiche non riescono a individuarli facilmente così come a comprenderli nelle funzionalità che descrivono.
La conclusione della Boston University School of Law , curatrice della ricerca, è lapidaria:
la perdita di miliardi di dollari di ricchezza associata a queste cause legali danneggia la società. Inoltre, le cause legali aumentano gli incentivi ad acquisire brevetti vaghi e a larga portata. Nell’insieme, esse si rivelano un disincentivo alla reale innovazione.
Bibliografia
Bessen J., Ford J. , Meurer M. J., The private and social cost of
patent trolls , 2011, Boston University School of Law Working Paper No. 11-45
Danaher B., College W., Waldfogel J., 2012, Reel piracy: the effect
of online film piracy on international box office sales
The Kauffman Firm Survey, February 2012
Young S. M., Gong J., der Stede W. V., The business of making money with movies, 2010