Come assorbire le collisioni socio-culturali secondo lo psicologo sociale Fathali M. Moghaddam
Ultimamente, ragionando sulla comunicazione ubiqua e globale abbiamo intersecato osservazioni e riflessioni che toccano molteplici aspetti, tra cui i fenomeni di emigrazione. Il fatto non stupisce visto che la ricchezza e la difficoltà delle analisi nel campo derivano dalla reciproca influenza dei movimenti di informazione, capitale, persone e merci .
Molta parte del mondo vive nella incerta stabilizzazione, in termini di consistenza, velocità e qualità rigenerative di questi flussi e ciò apre a nuove forme di esistenza e dunque di percezione. La nuova condizione raccoglie, amplifica e, per molti versi, modifica e sviluppa il tipo di esperienze a cui la cultura delle società industrializzate ci ha iniziati più di un secolo e mezzo fa.
Ricordavamo allora come spesso accade di essere nella necessità di richiamare nuovi termini per definire il senso della nostra attuale posizione, come fa, insieme ad altri, il sociologo e giornalista Joshua Meyrowitz a proposito del luogo:
Così, anche se la maggior parte delle interazioni più intense continuano ad accadere in ambienti fisici specifici, esse sono ora spesso percepite come avvenissero in una arena sociale più ampia. Locale e globale co-esistono nella glocalità (2004, p. 3).
I media hanno molto a che fare con queste nuove forme di dis-locazione e il loro coinvolgimento è molto evidente nel caso delle migrazioni, con i media che permettono di rinsaldarci alle esperienze locali connettendoci al vicinato e alle loro culture da qualunque parte del mondo risiediamo, dando vita a complesse forme di co-presenza fisiche e immaginifiche (Appadurai 1996).
Si notava anche come ubiquità informativa e indifferenza al luogo, funzionali alle migrazioni, retro-agiscano poi anche sul piano riflessivo dei diritti e del senso di stare e appartenere al mondo.
Diciamo che il telefono portatile è veicolo di un diritto a cui pochi oggi fanno riferimento: il diritto all’ubiquità, a non dover vivere per forza e sempre nel posto in cui si è nati, un luogo spesso diviso da frontiere e spaccato da ingiustizie mondiali e guerre insensate. Il diritto all’ubiquità è un coro che da varie parti del mondo si è levato come non mai negli ultimi venti anni e che ha reso obsoleti gli altri diritti: che senso ha parlare di libertà senza diritto all’ubiquità? Che senso ha parlare di uguaglianza senza il diritto a una mobilità generalizzata? Che senso ha parlare di fraternità in un mondo in cui l’accesso alle persone care è proscritto da inique leggi che impediscono alle famiglie degli emigranti di ricongiungersi? (La Cecla 2005, p. 41).
Per quanto affascinante, stimolante o illuminante possa essere il discorso, non c’è dubbio che il fenomeno immigrativo si trova ad affrontare, in prima battuta, problemi di natura (inter)culturale che hanno una ricaduta ben più drammatica.
Da questo punto di vista, e pur partendo giustamente da una “nicchia” analitica sulla realtà, nel nostro caso l’interesse per la comunicazione, sarebbe necessario per le scienze sociali unire all’approccio interpretativo quello empirico così da funzionare come una “sentinella” che anticipi e concorra a risolvere i problemi, come ricorda il sociologo Mauro Magatti (2007).
Avendo in mente lo stato asfittico e per tanti versi desolante della discussione sull’immigrazione in Italia, ho così trovato molto interessante la conferenza, tenuta a maggio 2009 presso la London School of Economics (LSE), dello scienziato sociale Fathali M Moghaddam che, allo stesso tempo studioso del fenomeno e persona coinvolta, in qualità di consulente, nell’elaborazione di politiche per la gestione del fenomeno in molti paesi occidentali, sembra andare verso questa proficua direzione.
Dato il contesto, platea qualificata ma eterogenea, l’evento non poteva essere molto di più di una veloce e generale rassegna sul fenomeno. E tuttavia, oltre all’equilibrio tra teoria e pratica, in esso è possibile apprezzare la pacatezza ed estensione delle argomentazioni, così come la pretesa, a fronte del lavoro di ricerca, di contribuire tramite la politica alle necessarie e irrimandabili soluzioni.
Assimilazione, multiculturalismo e onniculturalismo
Nella conferenza il prof. Fathali M Moghaddam illustra sinteticamente come l’onniculturalismo possa inaugurare una nuova via per trattare il problema dell’incontro/scontro culturale tra persone provenienti da regioni del mondo diverse.
Il suo contributo poggia sulle basi della ricerca e della elaborazione di esperienze e prospettive ricavate direttamente dai modelli e dalle pratiche adottate dalle nazioni coinvolte da tempo nel crocevia dei flussi emigratori.
Forte degli studi di psicologia sociale, e convinto della loro utilità nel trattare i problemi sociali, egli è da tempo coinvolto nell’analisi interculturali che declina per affrontare temi quali la democrazia, il terrorismo, i conflitti globali e le relazioni intergruppo, partecipando al riguardo come esperto in commissioni governative dedite alle analisi e alle formulazioni di adeguate politiche in numerosi paesi del mondo.
Personaggio noto, a cui sono andati riconoscimenti dall’America Sociology Association per il lavoro svolto sui problemi del controllo sociale, il prof. Moghaddam ha tutta l’autorevolezza per affrontare in maniera semplice e diretta i temi legati all’integrazione sociale in ambiti inter-etnici.
Si proverà allora a ricapitolare, riformulando autonomamente i nuclei tematici, quanto ascoltato. Questa non è dunque una traduzione puntuale ma solo un riassunto del discorso che illustra i punti salienti e la cui eventuale scarsa chiarezza mi vede come unico responsabile.
Introduzione
Il prof. Moghaddam spiega di essere nato in Iran ma di essersi trasferito con la sua famiglia giovanissimo in Inghilterra, dove ha iniziato il suo percorso di studi. Ritornato in Iran subito dopo la caduta del regime dello scià, ha potuto seguirne la rivoluzione dall’interno.
Negli anni Ottanta si trasferisce negli Stati Uniti per lavorare, tra l’altro, con le Nazioni Unite. Dopo un periodo in Canada, ritorna come professore alla Georgetown University in Washington. In pratica, come possiamo arguire dalla stessa biografia, il problema di capire come comportarsi in diversi ambienti culturali è una sua costante di vita.
Al riguardo, egli racconta un episodio curioso accadutogli nei primi tempi in cui risiedeva negli USA. I suoi nuovi colleghi gli chiedevano come stava e lui rispondeva “Bene, grazie” (“Fine, thank you”), come prassi in Inghilterra. Dopo un po’ iniziò a percepire una certa insistenza di domande riguardo al suo reale stato di salute e la cosa gli provocò una certa sorpresa perché effettivamente andava tutto bene. In seguito scoprì che i colleghi rimanevano poco convinti delle sue risposte perché negli Stati Uniti è d’uopo corrispondere a un “come stai” frasi del tipo “I’m great, fantastic!”, un genere di risposte con cui gli inglesi ti definirebbero subito un “idiota”.
La constatazione iniziale del suo discorso è che siamo coinvolti in un grande processo globalizzante che ci proietta in un unico villaggio. Basta trovarsi in qualunque città del mondo per usufruire degli stessi prodotti, servizi e modalità comunicative, mentre sono sempre più strette le integrazioni economiche regionali, come dimostrano la Comunità Europea o il NAFTA.
Allo stesso tempo, i macro cambiamenti sembrano stimolare controreazioni localistiche con popolazioni che provano a rivendicare specificità “nazionalistiche” e separatiste. Il nostro nuovo assetto di abitanti del mondo deve dunque fare i conti sia con istanze globali che locali. Le evidenze globalizzanti vanno dunque tarate sulla base delle fratture create, ed è proprio compito delle scienze sociali legare i livelli macro sociali alla vita delle persone.
Analizzare la globalizzazione nella teoria e nella pratica
Se esaminiamo la questione da un punto di vista teorico, potremmo vedere l’indebolimento dei confini statali delle singole nazioni come opera delle spinte provenienti politicamente sia da sinistra che destra. In tal senso, vi è stata un’eterogenesi dei fini.
Ad esempio, la teoria marxista vedeva nello stato un agente controrivoluzionario che si pone come una barriera all’unione trans-nazionale delle classi proletarie. Sull’altro fronte, la disillusione dello stato alimentata dalla destra, che lo vede come forma di impedimento delle dinamiche di libertà individuali, è stata una costante spinta alle politiche di liberalizzazione.
Scendendo nel contesto reale ci accorgiamo invece che gli effetti e le dinamiche sono differenti, come del resto stiamo vedendo nel corso di questa recessione economica. Inoltre, accade che la globalizzazione si associ a distruzione di valore e posizioni, ad una crescente insicurezza che si ripercuote da un posto del mondo all’altro.
In ogni caso, di fronte al fenomeno e alle sue articolazioni abbiamo l’esigenza di governare così come di disinnescare al massimo i conflitti. In ciò la psicologia sociale può contribuire molto nello scandaglio dei limiti di malleabilità degli individui.
Il problema delle categorizzazioni in cui incorre l’essere umano, formare insiemi diversi di persone sulla base di qualche caratteristica, può essere un esempio perché la psicologia può dimostrare come esso sia un processo guidato da determinati meccanismi riscontrabili a livello universale.
Un altro aspetto da cui è possibile ricavare ulteriori indicazioni è il fatto di vivere in piccoli o grandi gruppi di persone, ciò che in psicologia evolutiva viene indicato come il problema delle “unit size”, una caratteristica peculiare per la maggior parte degli emigranti che, abituati a vivere in comunità composte da poche decine o centinaia di persone, si trovano poi a convivere in città popolate da milioni, spesso decine di milioni, di individui.
Siamo nel bel mezzo di quel territorio definito “paradosso della rivoluzione” per cui i cambiamenti, soprattutto nelle sfera tecnologica ed economica, si avvertono e si evidenziano con estrema velocità, mentre il passo del cambiamento a livello comportamentale e ideale non è altrettanto rapido. Esaminando la letteratura che si rifà a questo paradosso, i cambiamenti sembrano sempre fallire.
In effetti, nei primi periodi di queste rivoluzioni vi è molta incertezza sul reale risultato. Ad esempio, durante il primo anno di rivoluzione iraniana sembrava che tutte le soluzioni fossero aperte. Ciò crea una sorta di attesa perché si produca, a un livello inferiore, un altro sommovimento che accolga e promuova lo shock.
In ogni caso, i processi di globalizzazione stanno correndo molto velocemente e una delle conseguenze sono le tante persone che si spostano da una parte all’altra del mondo. In Inghilterra, ad esempio, l’afflusso è evidente e determina cambiamenti in termini di presenze etniche e di religione. Come dobbiamo organizzarci per affrontare tutto ciò?
Le diverse policy di accoglienza: l’assimilazione
Rispetto alle principali politiche di accoglienza possiamo parlare attualmente di due grandi famiglie, che si rifanno alla concezione dell’assimilazione e del multiculturalismo, di cui si proverà a delinearne i principi sottostanti per proporre infine, in alternativa, una terza soluzione.
La politica dell’integrazione o assimilazione è tradizionalmente associata con gli Stati Uniti dove si usa il termine “melting pot”. Una delle sue forme si basa sull’assorbimento delle minoranze nella cultura e società dominanti, soprattutto se favorito da una lingua comune. Una seconda forma di tale policy agevola un’assimilazione che è il prodotto dell’incontro delle due diverse culture, che unendosi danno dunque vita ad una terza. È un’assimilazione molto diversa ma il fine è lo stesso, creare una società che è simile al massimo grado dello sforzo possibile.
Ci sono delle indicazioni psicologiche che indicherebbero nelle politiche dell’assimilazione una buona soluzione. La più consistente è il riscontro, in molti ambiti, di una grande attrazione tra persone che hanno caratteristiche similari. Durante un’indagine sulla società canadese e sulla sua politica multiculturale si è potuto verificare, in maniera diretta, questa preferenza.
In ben sei differenti gruppi etnici la similarità era il fattore chiave in ambiti quali il matrimonio, la vicinanza abitativa, la collaborazione nel lavoro, ecc.
Un’altra ragione che incoraggia le tesi dell’assimilazione è la meritocrazia. Essa implica che ognuno possa avere le medesime possibilità di accesso al successo e, in termini basici, ciò richiede la possibilità di acquisire gli stessi livelli di educazione. Conseguentemente, i bambini sono guidati ad assorbire velocemente tutti gli elementi centrali della cultura mainstream del paese di cui ora sono parte. Da questo punto di vista, una delle barriere più ardue all’effettiva applicazione del principio sono i test che valutano l’idoneità per accedere alle risorse educative, che quasi sempre rispecchiano nella loro ideazione la cultura dominante.
Se accettiamo questi assunti, è chiaro che è l’assimilazione a dare maggiori chance alle minoranze. Un altro argomento in favore dell’assimilazione è la cosiddetta “contact hypothesis”, originariamente formulata da Gordon Allport nel 1954. Il concetto è molto semplice: più frequentemente si entra in contatto con un determinato gruppo, più grande diventa la volontà di diventare simile, di voler rendersi familiare, meno minaccioso. Dunque, maggiori sono i contatti tra maggioranza e minoranza, maggiori le possibilità di assimilazione. E‘ un ipotesi che ha avuto molta eco e supporto nelle politiche di de-segregazione applicate negli Stati Uniti negli anni Cinquanta del XX secolo.
In ogni modo, questa ipotesi mostra anche delle debolezze. La prima deriva dal cosiddetto “minimal group paradigm”: per quanto ci si adoperi a fissare un certo numero di categorie con cui poter descrivere un gruppo di persone, ci sarà sempre un ulteriore lavoro di differenziazione che ne creerà ulteriori. Questo fenomeno è descritto precisamente dallo scrittore Jonathan Swift nel romanzo Gulliver.
In questa novella i lillipuziani avevano escogitato un modo molto peculiare di divedersi in due gruppi tra di loro belligeranti. I piccoli endiani e i grandi endiani si riconoscevano per il modo in cui utilizzavano le uova a scopi alimentari: i primi li aprivano dalla parte piccola, gli altri da quella più grossa.
La lezione che si può trarre è che gli esseri umani faranno di tutto per trovare forme di differenziazione. Allora, la sfida delle politiche basate sulla similarità è quella di capire fino a che punto è possibile spingersi visto che comunque le persone sentono quel limite insopportabile per il loro incomprimibile desiderio di differenziazione. Se non è il colore della pelle potrebbe essere quello degli occhi, un gioco senza fine considerando le possibilità di differenziazioni costruibili a livello culturale. Dunque, abbiamo un limite alla stabilizzazione di basi comuni.
Anche l’ipotesi del contatto è buona, ma fino a un certo punto. Anche schiavi e padroni erano in stretto contatto ma il fatto non provocava un’assimilazione in termini di diritti. Non è solo questione di contatto, ma essere vicini rispettando determinate pre-condizioni.
Le politiche del multiculturalismo
Passiamo al multiculturalismo, anche perché negli ultimi 30 anni la policy basata sull’assimilazione è stata considerata non corretta sotto il profilo morale. Essere costretti a divenire un’entità unica una volta che ci si incontra non è visto come un buon modo di avanzare.
Il multiculturalismo è venuto così a godere di maggiore apprezzamento. In questo ambito, per effetto di una ricerca svolta direttamente sul campo in Canada e durata 6 anni, possiamo avere un’idea più circostanziata.
Il perno dell’ipotesi, almeno così come sviluppata negli anni ‘70 dal Primo Ministro Pierre Elliott Trudeau, era di far sentire i diversi gruppi etnici e linguistici orgogliosi e consapevoli delle loro radici culturali. Ad ogni modo, prima di approfondire il concetto, diciamo che anche il multiculturalismo ha diverse tipologie implementative.
Un tipo di multiculturalismo si fonda sul laissez-faire: i gruppi si ritrovano insieme, emigranti e indigeni, proprio come accade ora in Gran bretagna, e le dinamiche economiche decidono quali gruppi rimarranno distinti e/o quali lingue sopravviveranno, ecc. È una sorta di multiculturalismo basato sul mercato ed è quanto avviene attualmente in città quali Los Angeles, New York e altre metropoli americane.
Un’altra forma di multiculturalismo ha una matrice più attiva: in esso i governi intervengono per sostenere le eredità linguistiche e culturali delle minoranze. Trudeau è stato appunto il riconosciuto capostipite di tale politica, ma furono molti i paesi che adottarono il medesimo approccio, ad esempio Australia e Nuova Zelanda.
Negli Stati Uniti la situazione è mista, alcuni stati adottano il multiculturalismo altri l’assimilazione. Il dibattito è forte perché ci sono in ballo risorse economiche, specie nel settore educativo. Alcuni Stati supportano il multiculturalismo linguistico altri, come in California, si sono pronunciati contro questa politica scolastica. Al momento vige un certo contrasto, e così si può assistere a movimenti che, come l’English-only movement, si battono per ristabilire la supremazia dell’inglese come lingua ufficiale della nazione.
In questo tipo di paradigma il governo è dunque parte attiva, la stessa cosa che accade ora in Inghilterra.
L’idea centrale sottesa a questa ipotesi è che le minoranze vogliono mantenere le loro eredità culturali e non desiderano essere assorbite nella corrente dominante. In Canada, durante le summenzionate ricerche, si è potuto testare l’ipotesi ricavando però indicazioni contrarie, ovvero che alcuni gruppi, e alcuni individui di queste minoranze, vogliono invece essere assorbiti quanto prima (vi sono diverse ragioni per cui non si vuole rimanere minoranze).
Il multiculturalismo attivo ha un’altra assunzione di fondo, chiamata “multiculturalism hipothesys”, che pretende di essere fondata su basi psicologiche.
Ritornando a Trodeau e alle sue affermazioni, il governo aiuta le minoranze a rimanere confidenti e orgogliose delle loro radici cosicché saranno poi disposte a rispettare quelle altrui. È una idea nobile e, allo stesso tempo, molto progressiva.
Tuttavia, come dicevamo, quando andiamo a vedere le ricerche sul multiculturalismo non troviamo conferma di grandi evidenze empiriche. E ci sono delle buone ragioni. Pensiamo in termini storici, dove abbiamo molti esempi di gruppi altamente convinti delle loro eredità e radici culturali e che, forse, non avevano molte buoni ragioni per esserlo. Si pensi ai nazisti. Oppure, anche ora, ai molti gruppi fondamentalisti e al loro modo di rivendicare queste ragioni.
Insomma, non è che i collegamenti tra orgoglio delle proprie eredità e apertura agli altri siano molti e forti. Altro problema del multiculturalismo è che esso sembra guidare al relativismo e al pieno rispetto delle differenti culture, una cosa che incoraggia le dispute legali.
Negli USA vi sono stati moltissimi casi che sfidano le leggi in base al rispetto delle comunità locali, una questione molto problematica. In UK, ad esempio, vi è il dibattito sulla legge della Sharia e su che cosa è giusto imporre ai figli degli emigranti, con discussioni sulla possibilità di poter scegliere di cambiare ambiti di dominio legislativo.
È inevitabile che il multiculturalismo porti a ciò perché mette (in qualche modo) in discussione le forme di universalismo: il fatto che vi possono essere modelli comuni e contesti pronti ad accogliere tutti.
La terza via: l’onniculturalismo
A questo punto, il prof. Moghaddam può introdurre un’ipotesi, definita onniculturismo, a cui dovrebbe essere data l’opportunità di essere provata operativamente.
Oggi vi sono in atto dei riorientamenti generali che appaiono problematici nel modo di affrontare la questione inter-etnica, soprattutto a livello educativo. Ad esempio, visitando le scuole primarie di paesi quali gli Stati Uniti si possono sentire slogan del tipo “ogni bambino è una star, siamo tutti diversi, pensiamo positivo”. È chiaramente un tentativo di rafforzare l’autostima. Pare che il più grande problema che ci sia nella scuola sia la scarsa stima che ognuno ha di sé: accade che anche una sparatoria possa essere imputata a scarsa auto-stima.
Il compito del multiculturalismo è proprio quello di alzarne il livello. Il feedback giusto da dare alle minoranze è di ragionare in positivo e rafforzare le proprie fondamenta. Gran parte della psicologia sembra proiettarsi in questo senso: pensare in termini positivi, cambiare l’attitudine delle persone a vedersi meglio, impostare gli individui a tale positività fin da piccoli. Gli insegnanti sono così i primi operatori che devono impegnarsi su questo fronte. Nessuno è un disastro e, ovviamente, tutti sono una star.
Questo approccio ha certamente risvolti positivi, ma nasconde molti rovesci. Soprattutto, se si esaminano i componenti delle minoranze si trova che queste non provano una scarsa stima personale. Normalmente entrano in azione dei meccanismi di auto-protezione per cui la stima si eleva. Anzi, in alcuni episodi distruttivi i problemi sembrano essere legati a un’eccessiva auto-stima.
Le persone si sentono molto speciali, ma il vero problema è che le basi di tale presunzione sono false. Ad esempio, si può giocare a tennis e pensare di essere un grande giocatore per poi rimanere altamente scottato la prima volta che si gioca effettivamente con persone capaci. Come dare allora i giusti feedback?
Un problema è di focalizzarsi troppo presto sul fatto di dire ai bambini che si è già speciali mentre, al contrario, ci si dovrebbe concentrare sullo spiegare subito i modelli che nella vita ci accomunano.
L’onniculturalismo inizia allora con un impegno pratico a evidenziare cosa abbiamo in comune, cosa rende un essere “umano”. La psicologia ha molto da dire in proposito. I primi anni educativi, e ciò vale per cristiani, mussulmani, ebrei, ecc., devono stressare l’”essere in comune” e le caratteristiche di similarità, una cosa che può essere messa in pratica se ci discostiamo dalle pratiche che insistono invece sulle differenze (di genere, etniche, ecc.).
È un’operazione quindi che prova a girare il tavolo, dalle differenze alle somiglianze, e che sposta il focus dei feedback positivi, che non si rivelano poi così benefici. Se un bambino va male in matematica non è molto positivo continuare a dirgli che ogni bambino è una star, ma si deve cercare di rimuovere il problema.
In effetti, assistiamo a una visione esagerata delle possibilità di successo. Ad esempio, si vedano le ricerche condotte nelle scuole superiori degli USA sul tema delle attese in ambito sportivo. Oggi vi sono più possibilità che un afroamericano diventi un chirurgo del cervello che un giocatore di basket di successo, ma si continua a dare questo genere stereotipato di feedback positivi.
Vagliare le fondamenta dell’ipotesi
Ci sono evidenze che le persone siano adatte all’ipotesi dell’onniculturalismo? È vero che, attualmente, siamo molto coinvolti nel multiculturalismo che sembrano esserci pochi spiragli per vagliare altro.
Recentemente, in collaborazione con la Stanford University, si è condotta una survey su circa 4.000 persone a cui è stata data la possibilità di scegliere tre alternative in termini di policy di accoglienza: assimilazione, multiculturalismo, onniculturalismo. A sorpresa si è scoperto che circa il 70% sono per la terza ipotesi. Ovviamente, c’è stata una grande soddisfazione.
In ogni caso, gli appartenenti alle minoranze hanno preferito il multiculturalismo. Una possibile spiegazione è che l’ideologia del multiculturalismo è attualmente molto diffusa e riscuote apprezzamento da parte delle minoranze. Esse pensano che il multiculturalismo le protegga meglio.
Si possono avanzare dei dubbi sul fatto che il multiculturalismo abbia portato dei buoni risultati alle minoranze. Se si vede alle effettive performance nella scuola o nel settore economico quello che troviamo è che non è la mentalità della rivendicazione delle proprie origini ad aver fatto avanzare le loro condizioni.
Torniamo per un attimo a un’immagine larga. Viviamo in un’epoca dove i cambiamenti a livello globale accadono molto rapidamente. Lo si vede a livello economico con l’attuale fase recessiva e la sua dinamica diffusiva, così come a livello tecnologico.
Tra i fattori importanti di cambiamento vi sono anche i movimenti di persone, che producono attualmente grandi flussi. Ovviamente gli esseri umani sono stati sempre mobili, basti pensare ai nostri primi spostamenti dall’Africa. Tuttavia, i mezzi erano lenti.
Oggi, solo negli Stati Uniti vi sono flussi di accesso nell’ordine di 1-2 milioni di persone all’anno. Anche in Europa sono sostanziosi, con persone che muovono dal sud al nord dell’Africa e poi in Europa, così come vi sono flussi dall’est all’ovest.
Il risultato è ciò che si può definire “sudden contact”, il contatto improvviso, senza preadattamento, tra persone culturalmente diverse. Il concetto di preadattamento deriva dal mondo biologico ed indica la fase di preparazione necessaria agli organismi che devono adattarsi reciprocamente evitando la fase di estinzione.
In effetti, generalmente parliamo di estinzione per le varietà animali presenti al mondo, ma lo stesso si può fare per le diversità culturali e linguistiche. Ad esempio, attraverso il contatto improvviso si perdono queste diversità molto rapidamente. “Language death” è il termine utilizzato, che è anche il titolo di un bel libro di David Crystal. Se prendiamo le statistiche degli ultimi 500 anni, si stima che per questo fenomeno abbiamo perso circa 7-8.000 differenti linguaggi.
In tutto ciò vi è un problema di fondo. In seguito al non controllo delle dinamiche dovute al contatto improvviso si formano delle istanze controreattive in gruppi che, accorgendosi di perdere qualcosa, possono reagire in maniera radicale e conflittuale. Come organizzarsi per evitare questo stadio? Con l’assimilazione, il cui obiettivo è diventare tutti più simili possibile, in un unico villaggio globale e con gli stessi stili di vita?
Come abbiamo visto, vi è un forte limite a questo perché, per ragioni psicologiche, tanto più simili cerchiamo di essere tanto maggiore è la spinta a differenziarci.
Il multiculturalismo è la risposta elaborata per affrontare l’esigenza di differenziazione. È questa la policy considerata “politicamente corretta” e accettata da molte minoranze in paesi come Canada, Australia, Nuova Zelandia e altri.
In ogni caso, il multiculturalismo ha molti inconvenienti come l’assunto che nelle minoranze sia radicato un difetto di auto-stima o come l’alimentazione del relativismo, che può diventare, a sua volta, molto distruttivo. L’onniculturalismo, d’altro canto, è un ipotesi percorribile e utile nell’aiutarci a organizzare per il meglio.
A&Q
Riassumiamo qui la parte riservata alle domande del pubblico.
D: Come può avanzare un simile processo in società in cui una larga parte delle minoranze si rifà alla cultura mussulmana mentre gli Stati di accoglienza sono fondamentalmente secolarizzati?
R: Quando una larga parte di emigranti sono mussulmani, e questa è una tendenza che si confermerà per i prossimi decenni, il movimento va visto all’interno di un processo che, coinvolgendo anche gli stessi paesi mussulmani, esprime per queste culture una profonda crisi nell’identità collettiva. Inoltre, ciò va discusso in relazione a quello che potremmo definire il grande dilemma politico occidentale. Da una parte USA ed Europa parlano e agiscono per supportare apertura, trasparenza, democrazia e libertà. Dall’altra, se si vede come in pratica vengono applicate tali politiche, almeno negli ultimi 50 anni, sembra proprio il contrario, che vi sia cioè il supporto alle dittature. Proprio questa estate si è avuto occasione di ribadirlo al senato americano: è insensato supportare in paesi quali Egitto e Paesi Arabi i dittatori sulla base di assunti del tutto diversi.
Come viene interpretato ciò nei paesi mussulmani? Gli oppositori ai processi di secolarizzazione, o sono in carcere o all’estero, oppure vengono uccisi. Ad esempio, vediamo che le cose vanno così in Egitto – paese appoggiato sia dagli americani che dai francesi.
La strada per discutere la secolarizzazione è una via difficile, non vi sono vie politiche per trattarla. Qual è l’alternativa? La moschea, perché i dittatori non riescono a chiuderle cosicché le alternative si costruiscono tramite la fede. Dunque, questa mancanza di sfoghi politici non si riflette solo nei paesi mussulmani ma anche in quelli occidentali, quali l’Inghilterra.
Allora, i mussulmani che vivono a Lione o a Londra non vivono solo le vicende locali ma anche quelle oltre frontiera nell’orizzonte reso possibile da un identità mussulmana che funziona, oltre che su scala nazionale, al livello internazionale.
D: L’onniculturalismo è un concetto molto interessante ma siamo sicuri che il perno delle nostre discussioni debbano essere i fattori culturali quando, a veder bene, i flussi di spostamento sembrano nascondere più problemi di natura economica, e dunque bisogni più fondamentali?
R: Domanda molto appropriata anche se pare improntata a seguire le gerarchie del bisogno così come descritte da Maslow. [La gerarchia disegnata da Abraham Maslow nel 1954 vede una piramide che ha alla base le esigenze fisiologiche e, via via, di sicurezza, appartenenza e amore, auto-stima e infine auto-realizzazione, in una logica lineare il cui accumulo completa le esigenze umane].
Tuttavia, vi è un adattamento che sembra migliore nello spiegare la formazione motivazionale ed è quello elaborato successivamente da Clayton Aldfer denominato Erg, [dalle iniziali delle parole inglesi: Existence (esistenza), Relatedness (relazione), Growth (crescita)]. In esso è il concorso simultaneo di diversi elementi ad agire. Ad esempio, certamente si può agire stimolati da qualche bisogno primario quale la fame, ma allo stesso tempo anche da ideologie che si sentono necessarie e vitali. In ogni caso, dobbiamo prendere in carico il fatto che il 50% della popolazione mondiale vive con meno di 2 dollari al giorno, una situazione che è una sfida a qualunque politica di emigrazione.
Allo stesso tempo, tuttavia, la sfida su come organizzarci perché le differenze non diventino ostacoli, evitando che tutto vada verso un peggioramento, non è di entità minore. Spesso le differenze sono veramente poca cosa, mentre altre volte, a livello ideologico, sono enormi. Rimane la necessità di elaborare una politica che stabilisca degli ambienti di riferimento. Il dislivello economico è decisivo per movimentare le persone, ma esso non satura tutti i problemi. Qualunque sia l’opera di intervento per renderlo meno pronunciato, dobbiamo capire cosa fare nel frattempo nella pratica di incontro interculturale.
D: Come è possibile organizzare le differenze alla luce dei problemi perenni che storicamente hanno contrassegnato tali operazioni?
R: Questo problema si è riscontrato effettivamente molte volte nella storia, anche in periodi non più recenti, ad esempio per l’Impero Romano. Ovviamente, molto è cambiato. Ma possiamo avere anche esempi positivi, pensiamo a quanto accaduto in Sud Africa, dove, a dispetto delle previsioni, abbiamo assistito a un processo di integrazione delle diversità culturali non seguito da un bagno di sangue, anche se là i problemi economici rimangono tutti.
Un punto centrale è dunque legato alla leadership. Mandela era là al momento giusto. Non siamo stati altrettanto fortunati con le leadership inglese e americana in questi ultimi 8 anni di grande confusione e instabilità.
D: Si è detto che non è bene insistere troppo presto sulle differenze. Come stabilire quando è il momento di parlare solo delle cose che abbiamo in comune e il momento giusto per ciò che ci differenzia?
R: La domanda dà modo di rispondere prendendo maggior spunto dalla psicologia sociale. Vi sono cose che colpiscono nei diversi sistemi educativi delle nazioni interessate ai fenomeni di immigrazione. Prendiamo la Svezia, una nazione che, avendo un milione di abitanti nati all’estero sui nove complessivi, si trova ad affrontare enormi problemi. La Svezia sta provando di tutto, facendo riferimento a questo o quel modello per rispondere ai problemi delle differenze e rimanere allineata, anche in termini di capacità di crescita, alle altre nazioni sviluppate. Proprio in queste circostanze ci si rende conto dei limiti legati al sistema dei feedback positivi, che sembra essere una delle soluzioni più seguite. Se voi dite ai bambini, che mostrano delle deficienze in particolari aree della conoscenza, “tutto è ok sei una star”, non fate loro un favore, anzi danneggiate le minoranze.
D: Cosa si può dire delle seconde generazioni di immigrati, i figli di emigranti che crescono all’interno delle società che li accolgono, ma che rivendicano le differenze originarie o che, addirittura, si sentono del tutto appartenenti alla cultura di chi li ha accolti.
R: Ciò è appunto testimonianza di quel fenomeno di cui si diceva, vale a dire anche quando ci si spinge verso la massima similarità scatta la voglia di stabilire continue differenze. Comunque, vi è da distinguere tra differenziazione reale e simbolica.
Torna alla mente un simposio in cui erano presenti diverse donne emigranti che dicevano: noi viviamo diversamente da molte donne americane. Diamo importanza alla famiglia, ai bambini, al cucinare. Anche la donna che interveniva successivamente affermava: noi donne arabe siamo differenti dalle donne americane: noi amiamo i bambini … Insomma, ogni donna si sentiva diversa ma diceva di dare importanza alla famiglia, al cucinare. Eppure, non è raro trovare donne americane che amano i loro bambini !!
Questi modi di ricostruirsi un’identità mostrano come funziona il modello “non siamo uguale a voi”. Nella psicologia sociale ciò si spiega con la necessità di distinguersi, che è una cosa molto importante per le persone. Esse si sentono minacciate dall’eccessiva somiglianza. La stessa cosa accade quando sentite che c’è una persona a voi gemella che vi richiama perfettamente.
Il fenomeno può avere vaste articolazioni. Pensate alle celebrazioni del Kwanzaa, la settimana di commemorazioni alternative al Natale (ideata negli anni ‘60 come controcultura dei festeggiamenti consumistici occidentali) e che, organizzate dalle minoranze afro-americane, ha ormai dietro tutta una industria dedicata.
D: Cosa si può dire, prendendo spunto dalla psicologia evolutiva, su queste forme di costruzione dell’identità che giocano sulle differenze, e che forse sono modi più semplici di non farsi carico degli altri, di gestire la nostra aggressività, di dare la colpa agli altri….
R: Ciò dimostra sia la plasticità degli esseri umani sia i suoi limiti. Una delle sfortunate conclusioni dovute ai conflitti prevede la guerra. E vi è chi, sulla base di teorie genetiche, la vede come cosa inevitabile: sarebbe il comportamento umano (fenotipo) che deve in qualche modo ridursi alle ragioni dei suoi geni. Si può essere dubbiosi su questa ipotesi generale. Sfortunatamente, se vediamo i comportamenti dei vari dittatori, dobbiamo ammettere che la paura di un qualcosa prodotta rispetto a un distinguersi con l’esterno è una pratica universale.
In questa fase di radicalizzazione dei conflitti vediamo oltretutto come figure quali Bush e Ahmadinejad si supportino a vicenda nel modo di far mobilitare il supporto interno per gestire le aggressioni. Questo aspetto è cruciale e merita di essere trattato a livello di educazione. Di nuovo, converrebbe esplorare il tentativo di ragionare sulle cose che ci accomunano e di insegnarle subito. Non è l’unica soluzione. E, si può essere d’accordo, elaborare una visione talmente larga da accontentare tutti è una grande sfida.
D: Ma come passare da una questione ideale ad una reale impostazione nel campo educativo che valga ovunque?
R: La psicologia sociale ha svolto un gran lavoro identificando le aree critiche dei modelli universali contenenti le cose che si rivelano importanti per la comunità. Ad esempio, ciò che si sta facendo ora è il rispetto del turno di parola (turn-taking) . Se fermiamo questo meccanismo fermiamo la comunicazione. Dentro di esso vi è l’idea di diritti e doveri. Ecco, nel mondo animale e umano vi è una continuità di pratiche di diritti e doveri. Non idee ma pratiche. Ad esempio, ci sono ora ricerche sul comportamento delle scimmie rispetto alla ricompensa dei compiti assegnati, un premio che, in queste prove, consiste in grappoli di uva. Messe due scimmie affianco, si prova a ricompensarle differentemente offrendo ad una qualcosa di meno appetibile dell’uva. La scimmia ricompensata peggio smette immediatamente di agire perché è colpita da questa disparità. Ciò conforta nel dire che è nella pratica, più che nell’idealità, che già esiste questo sentire.
D: Sembra che noi dobbiamo contrastare tutto ciò che non ci fa pensare in termini di comunità. Mentre il fatto è che, parlando di globalizzazione, i modelli imposti per il successo sono uniformati e basati solo su determinate caratteristiche.
R: Sicuramente la costruzione dell’identità è attualmente un lavoro molto contrastato. Si può definire come problema della “buona copia”. Ad esempio, le donne sono spinte a impegnarsi o si impegnano nel management, ma il modello che hanno sono gli uomini e voi, in quanto donne, siete impossibilitate a raggiungerlo/rispettarlo. Ma ciò ci riporta al problema di quanto plastici noi siamo in questo processo di modellizzazione. Inoltre, è il caso che dobbiamo assomigliare a qualcuno che è in ogni caso diverso? È il caso che per definire me stesso devo definire gli altri differentemente? Potremmo avere dei dubbi. Possiamo educarci a vedere noi stessi nella nostra malleabilità e, di nuovo, fare i conti con i processi basici di categorizzazione. Possiamo essere educati a categorizzare in maniera nuova. Vi è una grande possibilità che ci si possa riuscire, visto che stiamo iniziando, ad esempio, a categorizzare in maniera nuova gli animali, a vederli come esseri contigui che hanno diritti e doveri. Ovvero, che è giusto enfatizzare i doveri dei possessori degli animali.
D: Si è insistito molto sul sistema educativo, ma non sarebbe molto più giusto che questo compito fosse preso in carico anche e soprattutto dalle famiglie e in genere da tutta la società?
R: In effetti sarebbe l’ideale ma noi dobbiamo fare i conti con la realtà e capire con che mezzi intervenire nella società. Da questo punto di vista, gli strumenti istituzionalizzati sono più facilmente indirizzabili progettualmente e possono fare da cassa di risonanza o innescare le altre istituzioni meno formalizzate. Non dimentichiamo che parliamo di un progetto di lungo termine.
Prendiamo il caso del multiculturalismo. In Canada ci sono diversi livelli organizzativi. Il livello più alto, statale-governativo, vede un direttorio e dei canali di smistamento dei fondi che sono poi elargiti ai livelli più “bassi” delle varie istituzioni (educative, del vicinaro, comunitarie, ecc.). Ecco perché il multiculturalismo è diventato così potente. Trenta anni fa non era così. Lo è diventato perché sono state decise delle politiche di intervento, ed è una delle ragioni che spiega perché le minoranze la riconoscono come politica migliore. Il modello che fa riferimento a una diffusione orizzontale nella società va bene, ma bisogna che nel frattempo cammini sulle gambe delle istituzioni partendo dal settore educativo.
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