Per un nuovo spazio antropologico dell’umano
Sulla domanda di poter disporre di analisi sociali che sappiano indicare e anche sollecitare degli effettivi cambiamenti nelle società umane è tempo di riflettere.
Viviamo in un periodo storico in cui è forte la sensazione di essere davanti a un fine ciclo evolutivo su tanti aspetti determinanti per la vita in comune, e ciò giustifica l’esigenza di poter disporre di strumenti di analisi che spostino i propri focus su nuovi percorsi d’indagine.
Si può e si deve continuare ad approfondire le evoluzioni che avvengono nei confinamenti in cui ci dibattiamo – purtroppo spesso sterilmente – ma si deve anche iniziare a pensare come uscire dalle gabbie concettuali e dalle categorie interpretative generanti questo stato d’impasse.
Un aiuto su tale versante può arrivare dalla corrente di pensiero fortemente radicale che si richiama al cosiddetto postumanismo, ovvero alle riflessioni di quegli intellettuali che – considerando la crescita preponderante del ruolo della tecnica e delle tecnologie nella nostra esistenza, ma anche i fattori che hanno contrassegnato negativamente la nostra storia nel mondo a causa di attività antropiche o di atteggiamenti discriminanti e spoliativi – hanno la vivacità e il coraggio di riconsiderare criticamente le cornici e i fondamenti in cui si muove e in cui pensiamo la vita umana e sociale – aprendo la strada a nuove speranze, alleanze e strategie di uscita.
Saper rispondere al disorientamento ideale
Il postumanismo si irrora infatti di riflessioni critiche provenienti da versanti diversi ma generalmente contrassegnati da distorsioni e ingiustizie – discriminazioni di genere, forme di sfruttamento economiche e ambientali, dominio e distruzione di specie, ecc. – e ciò lo caratterizza di una carica innovativa ideale che, provenendo dall’interno di realtà amaramente vissute, sa parlare ai timori presenti nell’attuale contesto storico – il grande sociologo e filosofo francese Bruno Latour, anche lui diventato un riferimento di questo filone culturale, ha titolato la sua ultima opera (2022) con la domanda angosciata Dove sono? l’espressione con cui in genere, acquisito il primo stato di coscienza, evidenziamo il nostro disorientamento.
Il cambio di paradigma
Una premessa è qui d’obbligo: la ricerca e letteratura sul tema post-human è molto ricca visto che mette insieme una variegata galassia di pensatori. Sull’onda di un cambio di paradigma riguardo sia alla costituzione che al posizionamento dell’essere umano sul pianeta terra, in essa troviamo anche tesi molto ardite e di tipo prettamente funzionalistico (transumanesimo) quali l’affrancamento dell’uomo dai propri limiti biologici grazie alla partnership con il potere scientifico, e dunque la costituzione di un nuovo corpo cyborg – un mix altamente performante e resistente che ibrida la carne con i supporti tecnologici più avanzati (bio, info, nano e neuro).
Tuttavia, prendendo le misure da questo eccesso di ottimismo e dall’approccio strettamente funzionalistico, non ha torto chi afferma che il vero fascino del postumanismo – e di chi interviene in tale ambito discorsivo – è «nel suo stile di pensiero e nel modo di guardare a sé stessi e al mondo» cosicché esso ha la forza di parlarci del «tempo che stiamo vivendo» prefigurandosi come una forma di fantascienza che – più che immaginare il futuro – sa indagare le ansie e le insoddisfazioni del presente (Grion 2021, p. 28).
Nel postumanismo troviamo così sia argomentazioni funzionalistiche più o meno equilibrate, sia analisi sospinte da un grande senso di responsabilità verso tutta una serie di aspetti da sempre considerati secondari e trascurabili rispetto al ruolo che l’essere umano ha voluto giocare nell’abitare il mondo.
In effetti, il referente critico del postumanismo «non vuole essere l’uomo così inteso (o l’umanità in genere) ma il paradigma che ha contraddistinto la sua realtà storica fino ad oggi e che viene messa in crisi da nuovi modelli esistenziali» (Bonito 2022, p. 25).
Decostruire l’antropocentrismo
Come è stato giustamente affermato (Revelli 2021), siamo cresciuti forti di un’idea di umanesimo che si è sempre giustificato con l’eccezionalità dell’Uomo, la sua irriducibilità sia all’animale che alla cosa, mentre è tempo che abbiamo evidenza delle incursioni che mettono in crisi la separazione tra uomini e macchine (umano e artificiale) e tra umano e animale (uomini e bestie) – una demarcazione quest’ultima non rivista nemmeno a fronte dei nostri comportamenti nelle guerre mondiali o ad Auschwitz, e che soprassiede alla nostra proficua ibridazione con le diverse alterità oppure alla stessa continuità biologica, una costruzione così artefatta da andare in ultimo platealmente in crisi quando un’entità biologica non umana (un virus), entrando nella spazio cellulare dell’uomo, ne ha azzerato la sua sovrastruttura valoriale e normativa.
Una delle sfide da tentare è allora decostruire l’antropocentrismo, diventato per noi «un’atmosfera cognitiva» da cui uscire con la critica dei suoi tre assi architetturali: lo specismo ovvero la discriminazione dell’Homo sapiens delle altre specie animali, attorno a cui si è costruito un mondo sociale che rende invisibile ciò che invece sorregge il mondo visibile; la metafisica, ovvero la nostra conoscenza del mondo rispetto a un essere che non ne è al centro, ma tra le altre cose (biodiversità); la visione creazionista top-down dell’uomo invece che la sua emersione (bottom-up) dal caos delle viscere terrestri, così come ogni altro organismo vivente (Caffo 2017).
Identità umana, partnership varie e alterità
Per il postumanismo l’essere umano è il risultato di un campo in cui si intersecano forze molteplici guidate da istanze organiche, inorganiche, animali, macchiniche e sociali – quindi un insieme di partner e alterità irrinunciabili per il formarsi di un’identità umana che è inscindibile in un qualche elemento. Bisogna «riconoscere il significato coniugativo del fare tecnologico e l’importanza dell’alterità, ossia dell’eteroreferenza, al fine di realizzare in concreto la declinazione dell’essere umano» (Marchesini 2002, p. 550).
La sua radice mutante è conseguenza dell’ibridazione evolutiva, che è stata la chiave per sfuggire alle minacce poste dalla propria nicchia ecologica, e ciò si è ottenuto grazie alle partnership attivate con la natura e alle variegate strumentazioni fisiche e culturali in grado di generare feedback a livello ambientale (slittamenti nella pressione selettiva) per ottenere performance più vantaggiose – per alcuni postumanisti si generano anche feedforward a livello genetico cosicché tali mutazioni si tramandano alle generazioni successive, una conclusione un po’ troppo avventata che non tiene adeguatamente conto dei reali meccanismi di comunicazione tra l’interno e l’esterno degli organismi (Tintino 2015).
Insomma ogni telos che si rifà a una presunta essenzialità umana è artificioso nella sua pretesa di separare l’uomo dai processi che gli sono propri individuando essenze che sono invece sempre opera di culture – e quindi di un determinato ”stato dell’arte” – essenze che tenderanno a mutare e a trasformarsi – «non c’è altro tratto distintivo, altro modo possibile di descrivere la “natura umana” se non la sua estrema e variabile duttilità, la sua apertura al possibile, la sua vocazione relazionale e ibridativa, che partendo da una innegabile unitarietà biologica si declina culturalmente nei modi più svariati e diversi» (Caronia 2008, p. 146).
L’immagine del cyborg
Dal richiamo delle assunzioni attorno a cui ruota il pensiero postumanista dovrebbe risultare chiaro come la complessità e lo spettro delle questioni aperte invitino e attraggano nella discussione studiosi di molte discipline quali scienziati della vita, filosofi, antropologi, sociologi.
In effetti, le iniziali riflessioni su tecnica, tecnologia e mondo animale per il formarsi della concreta identità umana si rivelano scintille d’innesco sia per rigenerare delle argomentazioni a supporto di problematiche rimaste irrisolte, sia per gettare nuova luce sulle tante emergenze, si pensi ad esempio allo stupore per la velocità con cui le persone si sono ritrovate avvolte nelle tecnologie internettiane, e dunque sulla nostra nuova assunzione di corporalità virtuale e il ripensamento del corpo come superficie di incrocio di codici di informazione – genetico e informatico – molteplici e mutevoli.
Proprio su quest’ultimo aspetto il sociologo della comunicazione Alberto Abruzzese, rifacendosi all’immaginario collettivo e al ruolo delle tecnoculture generate dalle varie incorporazioni mediali – capaci di mettere in crisi la solidità dei paradigmi teorici abituali e le matrici sociologiche forti (Abruzzese, Borrelli 2001, p. 251) – descrive i meccanismi con cui il corpo umano – inteso non solo fisicamente ma anche nella sua estensione territoriale, desideriale, sociale, simbolica – «produce le innovazioni necessarie a soddisfare la dinamica dei suoi mutamenti strutturali» (Abruzzese 1988, p. 94).
Per altro verso, la filosofa e biologa statunitense Donna Haraway è stata una delle prime a elaborare una teoria del cyborg che diviene – nel suo studio delle implicazioni di tecnologia e scienza sulla vita degli esseri umani – una branca del pensiero femminista teso a superare le concezioni duali del tipo uomo/donna, naturale/artificiale, corpo/mente che, nella culturale occidentale, finiscono sempre per stabilire nella coppia il dominio di un elemento sull’altro.
Nell’ambito di questa teoria ella definisce il postumano non come arrivo di creature tecnologiche umanoidi, ma come nuovo spazio antropologico dell’umano, la rigenerazione ermeneutica delle sue categorie ontologiche, epistemologiche ed etiche (Haraway 1995, p. 83).
Da questo punto di vista, come afferma Rosy Braidotti, un’altra filosofa ed esponente del movimento femminista, il postumanismo è stato capace di rivolgersi «alla mia coscienza femminista, perché il mio sesso, storicamente parlando, non ha mai del tutto preso parte all’umanità, ecco perché la mia fedeltà a tale categoria resta negoziabile e mai data per scontata» (2013 p. 98).
Simbiosi e soggettività nomadi
Visto che come umani siamo obbligati alla simbiosi, il cyborg diventa allora l’occasione per dare vita – ripensando l’autocomprensione e l’immaginario dell’umano alla luce della sua concreta storicità evolutiva – a una nuova forma di soggettività definibile come nomade.
Nel momento in cui l’identità umana, rileggendo la biologia e l’evoluzionismo, si plasma quale composto di forze esterne umane, non umane, organiche e tecnologiche, essa non è più un cammino teleologico ma un percorso nomadologico che avviene in un processo di consapevolezza – nel solco della ibridazione mutazionale – nei confronti della virtualità dell’Homo sapiens (1995a).
Allo stesso tempo, essendo la tecnica riconosciuta non solo come fattore costitutivo ma anche occasione di nuove possibilità di innesti ibridanti, non abbiamo più il problema di rifiutarla o accettarla «ma nell’assumerla quale elemento imprescindibile della propria identità» (Tintino 2015, p. 91).
La consapevolezza dell’inevitabilità dell’incontro con la tecnica e la tecnologia (Kelly 2011) ha un altro risvolto positivo, quello di obbligarci eticamente – se non vogliamo lasciarle, come accade ora, nelle mani del mercato e quindi della biopolitica e biopotere – a mettere in campo protocolli che sappiano gestire preventivamente e in corsa d’opera i risultati del loro incontro.
La complessa ecologia dell’esistenza terrestre
Al termine di questa breve excursus possiamo convenire che un’indubbio merito del pensiero postumanista – rispondendo con perspicacia alle tante sfide del presente – è il tentativo di risvegliare una necessaria consapevolezza sistemica del mondo poiché l’essere umano ha avuto interessi ad astrarsi invece che vedersi per ciò che è: parte di una rete di connessioni e relazioni con una pluralità di ecologie in un immenso e critico reticolo di attività e contesti di sviluppo, umani e oltre-che-umani (Borgnino 2022).
Una consapevolezza di cui vi è urgente necessità visto che l’Homo cosiddetto sapiens ha saputo negli ultimi cinque secoli sterminare oltre un terzo di tutte le altre forme di vita note alla scienza eliminando per sempre molte specie con tutto il loro corredo genetico unico, recidendo così anche le proprie possibilità di vita – per dire, gli esseri umani condividono con gli scimpanze il 98,4 per cento di DNA, con i lombrichi l’86 per cento e persino con le banane il 45 per cento (Pievani 2020) mentre riducendo la biodiversità si favoriscono anche le zoonosi, i passaggi di virus patogeni (spillover) da mondo animale al genere umano (Quammen 2014).
Purtroppo, gli esseri umani hanno anche provocato una rottura geologica epocale che è incisa negli strati della terra stessa – vivere nell’Antropocene per i geologi significa avere coscienza che l’attività umana ha modificato strutturalmente la biosfera, un evidenza attuale che si trasmetterà anche alle generazioni future minando la qualità della stratificazione terrestre, l’aria o l’acqua (Missiroli 2022).
Questione di stile: nuove epistemologie, nuovi linguaggi
Un’ulteriore annotazione riguarda la questione dello stile che, anche qui, a volte è contenuto. La consapevolezza sistemica e l’enfasi post-human è stata teorizzata negli anni passati anche dalla sociologia avendo in Niklas Luhmann un acuto precursore (1990; Petulla 2010).
Le sue tesi hanno ricevuto al tempo molte critiche sia per la loro complessità che un certo stile espressivo convoluto. Il successo delle teorie e la nostra fascinazione per esse dipendono certamente dalle concomitanti contingenze ed emergenze storiche, ma ha valenza anche la capacità del linguaggio utilizzato di catturare positivamente l’immaginario dei lettori interessati.
Da questo punto di vista l’attuale letteratura scientifica relativa al postumanismo – che si muove evidentemente sull’humus dell’Antropocene e delle esperienze del ciberspazio – denota una carica espressiva ricca di una prosa suggestiva e accattivante offrendosi come strumento e formula che sa avvincere.
Come ci è spiegato, abbiamo bisogno di nuove forme di alfabetizzazione per decodificare il mondo odierno, nuove figurazioni per parlare persuasivamente del mondo tecno-scientifico, e per far ciò le nuove epistemologie devono utilizzare linguaggi originali rispetto a quelli del pensiero tradizionale in quanto la «invenzione del nuovo richiede una certa forza immaginativa oltre che rigore concettuale» (Braidotti 1995b, p 26).
L’impulso al cambiamento nel pensiero e nell’azione
Indubbiamente, la teoria critica postumana ha acquisito ultimamente più rilevanza con la contestuale urgenza della condizione antropocenica e la combinazione di crescenti disuguaglianze economiche e sociali e di rapidi progressi tecnologici, quest’ultimi guidati per lo più da un capitalismo privatistico informazionale che sta ridisegnando modi e confini produttivi e comunicativi in quasi ogni ambito di attività umana.
Di questo paesaggio – dominato dai conflitti e caratterizzato da relazioni di potere tanto asimmetriche quanto innovative nella loro capacità di sedurre e coinvolgerci in assemblaggi in cui operano attori umani e non – le teorie postumaniste hanno fornito chiavi di lettura che sono uno stimolo fondamentale per la riflessione pubblicistica di varie discipline, coinvolgendo in queste analisi centinaia di studiosi (Braidotti, Hlavajova 2018).
In effetti, la postura postumanista ci aiuta ad affrontare diverse sfide tra cui il riconoscimento che la soggettività non è un appannaggio esclusivo dell’essere umano; l’attenzione allo sviluppo di realtà materiali vitalistiche che – includendo agenti non umani che vanno da piante e animali a manufatti tecnologici – siano tanto dinamiche quanto socialmente sostenibili, utili all’incremento del bene comune; la spinta ad ampliare la cornice e portata della responsabilità etica lungo le linee trasversali di relazioni post-antropocentriche.
Il postumanismo sta dunque contrassegnando l’ambito della ricerca culturale e sociale vista l’esigenza di trovare nuovi modi di incontrare, discutere e pensare entità e ambienti in cui umani e non umani si intrecciano in schemi sempre più intricati. Animali e androidi, piattaforme tecnologiche e vari generi di creature biologiche popolano le analisi critiche in modi sempre più complessi, complicando la nostra concezione del cosmo, detronizzando il singolo soggetto e smantellando le comode categorie attraverso le quali abbiamo interpretato la nostra esistenza,
la sfida di mappare le intricate relazioni tra umani e non umani è stata recentemente accettata da diverse discipline, poiché gli studiosi di tutto il mondo accademico devono fare i conti con i cambiamenti sociali, economici, culturali, ambientali e tecnologici che circondano, penetrano e influenzano i loro metodi e campi di studio con rapidità senza precedenti. Questa lotta per adattarsi ha già portato a una ricchezza di nuovi approcci, domande di ricerca e concettualizzazioni, ma né il punto di saturazione né la domanda sono stati ancora raggiunti (Karkulehto, Koistinen, Varis 2019, p. 2).
Recentemente abbiamo vissuto un esempio eclatante quanto tragico che ci ha fatto riflettere su tutto ciò, e possiamo riconoscere che l’opera di riconcettualizzazione della nostra condizione o esperienza postumana ha reso più sopportabile, poiché più comprensibile, la pandemia da covid-19. Con essa abbiamo realizzato di non essere un’entità macrobiologica ma un assemblaggio di microorganismi da cui
dipende assolutamente la vita … e questo ci permette di produrre mondi nuovi e diversi… L’esperienza postumana è un’esperienza di crescente consapevolezza della nostra posizione all’interno di, e nella dipendenza da, ecosistemi e reti complesse che includono altri attori e forze non umane, naturali o tecnologiche (Newman,Topuzovsk 2021, p. 3,4).
D’altronde, tale impostazione concettuale diventa essenziale nel momento in cui abbiamo bisogno di comprendere la crescente malleabilità e fluidità del mondo in cui ci troviamo a vivere poiché immersi in potenti processi informazionali, avvolti all’interno di infosfere co-costituite di agglomerati di piattaforme, algoritmi intelligenti, dispositivi/infrastrutture fisiche ed esseri umani.
Una vita questa in continuo cambiamento definita ormai, nei termini delle revisione dei software, come una versione che rimarrà permanentemente in una fase di test (beta). A detta dei molti studiosi che abbracciano in queste ricerche una metodologia postumanista, sarebbe «impossibile analizzare tale condizione da un quadro antropocentrico tradizionale» (Kalpokas 2021).
In effetti, l’epistemologia postumana si rivela certamente più adatta a indagare i processi attraverso cui, in quanto cyborg-consumatori, non smettiamo mai di incorporare con le nostre menti ogni genere di tecnologie, media e informazioni (Hristova, Hong, Daryl Slack 2020).
D’altro canto, la teoria postumanista lavora con l’obiettivo di individuare le relazioni di potere che sono all’opera nella produzione di discorsi e pratiche sociali, e dei loro effetti sulla formazione del soggetto. Da questo punto di vista si può dire che essa incoraggia l’attenzione alle dinamiche più complesse in cui nascono e operano gli agglomerati macchinici con cui, sempre più sofisticatamente, siamo in diretta e intima relazione – a livello intellettuale e sociale – ad esempio gli algoritmi software che intermediano ormai ogni nostra azione.
In questo caso, essa spinge le stesse discipline classiche, ad esempio la sociologia, a recuperare e rinverdire quei filoni di ricerca rimasti finora abbastanza periferici rispetto agli ambiti canonici
il fatto che una macchina che impara dai modelli nei dati generati dall’uomo e manipola autonomamente il linguaggio, la conoscenza e le relazioni umane, è più di una macchina. È un agente sociale: un partecipante alla società, contemporaneamente partecipato da essa. In quanto tale, diventa un legittimo oggetto di ricerca sociologica (Airoldi 2022, p. x).
Conclusione
La radicalità e la costante spinta critica del postumanismo si rivelano forse come l’ariete capace di creare una breccia in tutta una serie di convinzioni alimentate da saperi e ideologie uniformate da principi o fini che non ci hanno aiutato a coltivare un habitus ecologico.
Per il sociologo Pierre Bordieu l’habitus è infatti una disposizione coltivata, e quindi una guida pratica, che permette a ogni agente di generare, a partire da un piccolo numero di principi impliciti, comportamenti in linea con una forma di educazione pratica, che nel nostro caso dovrebbe essere in linea con il rispetto degli ecosistemi da cui dipendiamo,
niente sembra più ineffabile, più incomunicabile, più insostituibile, più inimitabile, e quindi più prezioso, dei valori incorporati, fatti corpo, dalla transustanziazione operata dalla persuasione clandestina di una pedagogia implicita, capace di inculcare tutta una cosmologia, un’etica, una metafisica, una politica, attraverso delle ingiunzioni tanto insignificanti quanto “stai dritto” o “non tenere il coltello con la sinistra (Bourdieu 1972, p. 245).
Nel suo ultimo lavoro l’economista Jeremy Rifkin ci spiega i limiti che abbiamo incontrato su questa strada. Come persone negli ultimi 200 anni siamo stati plasmati da teorie – economiche, filosofiche, fisiche – che non hanno saputo spiegare come e quanto l’essere umano sia in continuità e circolarità con le stesse sostanze e forze di cui sono costituite e a cui rispondono anche tutte le altre componenti della biosfera.
Tutto ciò ha influenzato nel profondo comportamenti e convenienze supportati da ideologie tendenti a esaltare acriticamente le vie del progresso infinito, predisponendoci a un efficientismo proiettato a ottimizzare l’espropriazione, il consumo e lo scarto delle risorse naturali
Il nostro personale orientamento temporale e il battito del tempo della nostra società si incentrano sull’imperativo dell’efficienza. È ciò che ci ha portato alle vette più imponenti come specie dominante sulla Terra e ora alla rovina del mondo naturale (Rifkin 2022).
Il postumanismo vuole allora riaprirci a un mondo intessuto di alterità e altre forme di vita per scardinare il pensiero antropocentrico. Esso sospinge le filosofie che ci invitano ad approfondire il nostro essere nel mondo, ci spiega come le nostre vite agiscono e sono retroagite in una fitta rete di collegamenti e interconnessioni con le alterità di forze, organismi e sostanze presenti dentro e fuori del nostro corpo – in definitiva, non vuole farci diventare persone ecologiche, solo renderci consapevoli che siamo già (indiscutibilmente) «esseri ecologici» (Morton 2018).
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