L’inevitabile ri-generazione dell’idea di umano
Ogni forma di delega per sua natura implica che si crei una certa distanza tra le aspettative della volontà originante e i risultati ottenuti dal de-legato che, persona o sistema, può peraltro contrassegnare caratteristicamente con le proprie virtù o mancanze la fase attuativa.
In generale, delegare a qualcuno o a qualcosa il controllo o l’adempimento di volontà, azioni o piani rientra in un modo di pensare e di comportarsi tipico delle persone appartenenti a società complesse ed estese che, come descritto tra gli altri dal sociologo Anthony Giddens, hanno la necessità di stabilire rapporti di fiducia con un insieme innumerevole di “sistemi esperti” per poter vivere e svolgere le loro attività.
Fondamentalmente, tutto ciò è parte di quella strategia di “riduzione della complessità” caratteristica della vita e degli ambienti biologici e sociali (Nicklas Luhmann). Tuttavia, vi è un campo che negli ultimi tempi sembra giustamente irriducibilmente refrattario a ogni tentativo di riduzionismo problematico e, ancora di più, di delega normativa, se non appunto, al prezzo di riconoscere il valore di un meccanismo che sappia prevedere le “impasse” non governabili per scioglierle (infine) in favore della volontà originante.
Questa forte resistenza è perfettamente legittima quando in ballo ci sono il concetto di vita e la sua condizione di esistenza, un combinato che acquista senso in una complessa trama di relazioni in quanto l’umanità è debitrice antropologicamente
dell’interpretazione scientifica, fisiologica e biologica dell’uomo: modello e immagine che si proietta nella ridefinizione delle prassi riproduttive, che presiede al progetto mentale e reale della clonazione e della predeterminazione dei caratteri genetici, che condiziona la prassi di prolungamento o di interruzione dell’esistenza (dalla trapiantologia alla eutanasia). Modello, infine, che condiziona i rapporti sempre più articolati e sofisticati con l’ambiente vitale, con gli animali e i vegetali, per estendersi a quelle zone più o meno esplorate della materia non vivente, ma che pure ci permette di esistere.
Un insieme, come si vede, tanto inestricabile quanto sensibile che si è creato un dominio tematico nella bioetica ma che, proprio nei suoi studiosi più responsabili, non nasconde i limiti di un approccio riservato ai soli “specialisti”.
Riflettere su questi modelli che condizionano la nostra esistenza e segnano la nostra condizione storica, valutandone le ragioni, è impresa umana non delegabile a nessuno (Pessina 2000, p. XVI).
Di fronte all’incommensurabilità, alle articolazioni e attualizzazioni della vita umana ognuno di noi è necessariamente un sistema “troppo esperto” in continua e ormai tumultuosa evoluzione.
Il nostro contributo prenderà lo spunto da alcune recenti pubblicazioni per fare delle osservazioni sul ruolo centrale che sull’argomento stanno assumendo sia le nuove tecnologie elettroniche sia i media dell’informazione e della comunicazione.
Il lato informativo e formativo delle idee
Iniziamo dalla considerazione che il tema, nei suoi vari aspetti, è quasi sempre nell’agenda setting dell’informazione che, al riguardo, agisce sia come registratore di una nuova “emergenza” che come orientatore di sensibilità.
Le opportunità di notiziabilità abbondano dal momento che le innovazioni bio-tecnologiche, ridisegnando i termini di intervento e di cura, hanno raggiunto, nell’ambito medico ed estetico, livelli di efficacia e sofisticazione crescenti, alimentando pretese e aspettative che spesso sfidano oltre il lecito la vita e la morte.
Visto i limiti con cui le pratiche del “news making” devono fare i conti, l’informazione mediale si muove spesso più sui binari della superficialità e della emotività che della pacata e pur partecipata riflessione, contribuendo al deragliamento del confronto e al rafforzamento degli integralismi, come è stato evidente per il caso italiano di Eluana Englaro, dove non poco hanno contribuito le strategie mediali. Ad esempio, con il continuo martellamento di un’immagine bella e giovanile di un corpo che era invece ormai piagato da una condizione decennale di immobilità, allettamento e stasi mentale, oltre che sottoposto ad alimentazione forzata, un corpo che, per preservare la dignità della figlia e tenere conto di una precisa volontà fattagli davanti a un caso simile quando ancora in vita, il padre non ha voluto mai mostrare pubblicamente*.
Joanna Zylinska, teorica dei new media, in Bioethics in the age of new media sottolinea come i media partecipino attivamente ai dibattiti bioetici che danno forma, anche per via legislativa, ai confronti sulla vita e sulle sue forme di mediazione e di trasformazione su basi tecnologiche.
Le discussioni sulla salute e il corpo non sono mai una questione di risposte individuali e di decisioni fatte da singole entità morali. Al contrario, appartengono a una rete più ampia di discorsi etici e politici che danno forma al sociale e la mantengono unita. I media del broadcasting, con il loro panico morale […] giocano un importante ruolo nel costruire narrative sulla vita umana, la salute e il corpo (2009, p. 4).
Non si tratta solamente di una presa in carico della realtà, ma anche di una sfida ideale. Il processo di formazione delle decisioni e degli schemi di riferimento è potenzialmente dinamico in quanto valori e convincimenti possono andare incontro a trasformazioni quando
si espongono a problemi e questioni morali nuove. Dal momento che le nuove tecnologie e i nuovi media sfidano costantemente le nostre idee abituali su ciò che significa essere umani e vivere una vita umana, essi sembrano anche guidare la trasformazione degli schemi morali di riferimento, sebbene ciò non significhi che l’esigenza di una radicale ri-verifica dei valori sia sentita da tutti come inevitabile (ibid.).
In realtà, siamo in una situazione in cui l’incontro e l’abbraccio tra l’uomo, le nuove tecnologie e i media si intensificano ed estendono. Conseguentemente, si modificano sia i corpi che le idee ad esso riferibili. Questo “divenire” ci sottopone
a una radicale trasformazione poiché si costituiscono nuove forme di associazione tra esseri umani, animali e macchine, con un’umanità stessa che si riposiziona come ‘archivio digitale’, richiamabile attraverso reti di computer e leggibile dalle stazioni di lavoro […]. Tutto ciò non deve suggerire che l’essere umano è stato ridotto nell’era dei new media a informazione e che possiamo dunque fare a meno del suo essere incarnato; invece, evidenzia l’emergenza di nuovi discorsi intorno all’umanità che sfidano il suo incardinamento attorno ad alcune caratteristiche biologiche o alcuni valori morali (ibid.).
Le nostre storie con i dispositivi tecnologici
Ma il discorso ha dei lati più “hard”, nel senso che si parla e si può parlare di vere e proprie compenetrazioni tra sistemi tecnologici ed esseri umani, che includono evidentemente le protesi immesse accanto o in sostituzione di organi vitali, ma anche la costituzione e interazione intima che tra di essi si formano nella quotidianità.
Domandarsi come si ridispongono le nostre vite al contatto con i dispositivi tecnologici è diventato per la psicologa sociale Sherry Turkle un impegno costante fin dagli anni Novanta del XX secolo. Nel suo ultimo libro da curatrice, The inner history of devices, si spazia in campi di esperienze molto diversi provando a interrogarsi sul valore e le profonde connessioni che stabiliamo ibridandoci con il cosiddetto mondo “macchinico”.
Le voci raccolte su queste nuove forme di intimità provengono da resoconti di romanzieri (autobiografie), da annotazioni di pratiche cliniche o da osservazioni di vita reale e a carattere etnografico, un insieme che trovo particolarmente adatto per introdurci, pescando casualmente nella serie dei contributi, in questa intricatissima ma affascinante materia. Anche solo alcune di queste viste credo possano fornire uno squarcio per riflettere con maggiore pacatezza sul nostro complesso stato di esseri sperimentali.
Per chiarire, esseri sperimentali lo siamo sempre stati, e le tecnologie di cui ci circondiamo, coinvolgendoci, “proceduralizzano” alcune sperimentazioni particolarmente riuscite. Uno dei più grandi antropologi ed etnologi contemporanei, Marcel Mauss, riscontrava dopo anni di intense e famose ricerche in varie regioni del mondo che
il corpo è il primo e più importante strumento naturale dell’uomo. Oppure, per essere più precisi e non parlare di strumenti, il primo e più importante oggetto tecnico dell’uomo e, al contempo, proprio mezzo tecnico, è il suo corpo […] prima della tecnica strumentale c’è l’insieme delle tecniche del corpo […]. Il costante adattamento agli scopi fisici, meccanici o chimici (ad esempio, il bere) è perseguito in una serie di azioni coordinate e organizzate per l’individuo non solo da sé ma attraverso tutta la sua educazione, dall’intera società a cui appartiene e in base al posto che vi occupa (1934, p. 104-105).
La lista delle tecniche che Mauss chiede di investigare include praticamente tutto ciò che a noi sembra così naturale: il dormire, il risveglio e il riposo, il camminare, il correre, danzare, saltare, arrampicarsi, nuotare, muoversi con forza, l’igiene, il mangiare e il bere, la sessualità e la cura della malattia. Anche se non direttamente incluse nella lista ma spesso citate, vi sono anche tutte le attività sensorie – guardare, ascoltare, gustare, odorare e toccare.
Protesi: il defibrillatore cardiaco interno
I dispositivi di defibrillazione cardiaca inseriti direttamente nel cuore degli esseri umani sono stati sviluppati negli anni Ottanta. Nel solo 2001 gli ICD (Implantable Cardioverter-Defibrillator) impiantati nel corpo hanno riguardato negli Stati Uniti 100.000 persone.
Gli ICD monitorano le aritmie pericolose e, nel caso, intervengono automaticamente per ripristinare la normale pulsazione. Dunque, sono macchine congegnate per estendere la vita anche se, allo stesso tempo, ne cambiano la gestione e il significato.
Avere una macchina dentro di te che, periodicamente, ti riporta improvvisamente alla vita sollecita questioni che una volta erano problematizzate nella letteratura fantascientifica e nella filosofia bioetica. In che modo gli shock provocati delle IDC – interventi traumatici bio-tecnologici – cambiano le vite che provano a prolungare? Che cambiamenti apportano all’evento di quella morte che tentano di posporre? La morte, per un paziente che ha impiantato un defibrillatore, non aspetta silenziosamente, essa appare a ogni shock (Turkle 2008, p. 98).
In effetti, le sensazioni riportate dalle persone che vivono le esperienze degli shock, delle continue intimazioni di morte sfiorate e ritardate, parlano al riguardo di esperienze indicibili, di sconvolgenti transiti tra vita e morte, di un senso arcano, così come definito da Freud, di un qualcosa di improvvisamente nuovo e che, tuttavia, si accompagna con un senso di antica e lunga familiarità.
Avere questo dispositivo nel corpo crea di per sé un altro corpo, quel doppio che Freud ha individuato essere alla base della concezione dell’anima, nel desiderio appunto di non morire e che, per lo stesso fatto di essere concepita, diventa “la misteriosa messaggera della morte”.
Per quei pazienti che ricevono l’impianto dopo che i test diagnostici ne hanno indicato l’appropriatezza, gli shock funzionano come rammento della morte che non avranno: la morte improvvisa (p. 101).
Dunque, allo stesso tempo, quella che potrebbe essere la morte più desiderabile, il black-out improvviso e veloce, diventa un’opzione difficile, mentre cresce la paura che sopraggiunga comunque dopo i numerosi tentativi falliti del defibrillatore.
In pratica, il fatto di aver ottenuto un maggior controllo degli eventi accidentali tramite il dispositivo comporta il rovescio di essere caduto in un altro “regime” di controllo di cui, peraltro, si ha scarsa conoscenza, un meccanismo che dispone della funzione vitale del tuo corpo.
Si potrebbe pensare che tutto faccia parte di una scelta. In realtà, la stragrande maggioranza delle persone che lo usano non hanno avuto scelta perché l’alternativa che la medicina offre è la morte. Siamo in una situazione in cui la tecnologia è l’unica via; in cui è anche implicito l’inoltramento in un percorso di esplorazione, dato che sia i dispositivi che le reazioni sono in uno stadio abbastanza primitivo rispetto ad altre situazioni e pratiche mediche.
Accade così che tutte le persone vivano la nuova situazione, che spesso vuol dire aver già avvertito gli shock che li ha fatti resuscitare, con un senso di impersonalità, come si fosse allo stesso tempo dentro e fuori dello stesso corpo. O meglio, in un altro corpo. Un uomo con impiantato un dispositivo ICD si è trovato a dialogare in questo modo con la moglie:
Samuel: “ho qualcosa dentro di me che so che ha cambiato la mia vita per sempre”.
Sarah: “non credo che fosse prevista una cosa diversa. Non puoi essere la vecchia persona”.
Samuel: “non credo che tornerò mai ad essere quella vecchia persona”.
Sarah: “e come me prima e dopo aver avuto i bambini. La chiamano transizione ma non è così, è una vera metamorfosi”.
Samuel: “e non puoi neanche disfarti dei bambini!” (p. 107).
Il lavoro ci ricorda cosa, a metà degli anni ’60, Norbert Wiener, il famoso cibernetico, immaginava riguardo a questo fenomeno. Egli si chiedeva quali problemi sarebbero stati sollevati sul fronte medico una volta che la medicina sarebbe stata in grado di posporre continuamente la morte, con il medico che, nei confronti del malato, assume sia il potere di un dio che il potere del diavolo.
In effetti, sono altri gli scenari che si articolano quando le tecnologie si innestano nei corpi costituendo un nuovo insieme che, a sua volta, presenta un impasto di salvezza e di rischio, trasformandosi infine in un esecutore di morte.
I pazienti ICD sono i messaggeri di questo tempo, in cui a tutti noi sarà chiesto di accettare o rifiutare le tecnologie mediche imperfette, e accettare che abbiano il ruolo dei nostri salvatori o esecutori […]. I cyborg di questo tipo non hanno il tratto trionfalistico di molte sue rappresentazioni ma incorporano in sé il peso della pena, rammentandoci che le macchine che inseriamo nei nostri corpi sono imperfette quanto i nostri stessi corpi” (p. 112).
Interazioni intime: il world wide web e i video games
Al contrario di quello che potrebbe pensare una persona prevenuta o non esperta nella materia, e dunque pronta a veder confermate le proprie idee in merito a un probabile legame tra i cosiddetti mondi virtuali e una certa propensione al disadattamento, sono sempre di più gli psichiatri e terapeuti che, avendo a che fare con queste patologie, si lamentano del persistente atteggiamento negativo verso il computer e le attività associate.
In effetti, i medici impegnati a trattare con giovani considerati disadattati sociali, che soffrono depressioni e tentativi di suicidio, hanno modo di notare come, a dispetto del loro carattere chiuso, riescano a stabilire nel virtuale relazioni e atteggiamenti altamente vitali. Di per sé, già questo è indice di quanto sia importante comprendere le persone nella loro piena interezza non trascurando qualche “pezzo” della loro vita perché a noi estraneo o ostico.
Rimanendo nell’ambito terapeutico, ciò che per lo scettico è possibile motivo di deviazione è per il medico il territorio più serio per esplorare ciò che in una parte del “reale” fa fatica a realizzarsi. Anzi, ormai è una delle vie privilegiate del contatto e, in questi casi particolari, la sola porta di accesso alla persona.
In generale, gli adolescenti passano molto tempo su web, blog, chat e social network e un qualsiasi analista della sfera umana deve ormai conoscere e saper navigare in tali spazi se vuole comunicare con i giovani. Inoltre, quale miglior posto per avere indizi sui loro processi di identificazione e di transfert, così importanti per giovani che spesso mancano delle figure cardine (madre, padri)? Data le varietà e ricchezza delle possibilità selezionabili, è facile che in questi ambienti “sintetici” i giovani vi trovino situazioni a loro particolarmente congeniali, capaci di convogliare energie e problematiche psicologiche.
Nel passato la psicoterapia si è trovata a focalizzarsi prevalentemente su quei soggetti che si appassionano ai supereroi, persone che giocano con personaggi che agiscono da soli, a cui piace combattere e mostrare potere, aventi corpi forti e muscolarmente scolpiti, pronti a rischiare e intrattenere avventure sessuali in cui però manca il coinvolgimento emotivo. Tali caratteristiche hanno fatto pensare che ci siano delle nette differenze con le pratiche degli adolescenti impegnati in azioni non virtuali, dove sembra trionfare collaborazione, condivisione di esperienze, comprensione e associazione reciproca, tutte abilità che il super-eroe maschio non coltiva. Ma è proprio così?
Innanzitutto, oggi sembra essere l’ambito relazionale a trainare gli sforzi e l’attenzione terapeutica nel senso che gli specialisti riscontrano come, rispetto ai rapporti faccia-a-faccia che si tentano di stabilire con i piccoli pazienti, è nella comunicazione mediata che gli adolescenti da taciturni e sfuggenti diventano espansivi. E una volta stabilito, il contatto si rivela propedeutico alla creazione di un ponte che ricollega i due diversi atteggiamenti, con rapporti che diventano più aperti.
Un altro aspetto positivo è nella struttura degli ambienti virtuali, che sono particolarmente confacenti ai processi psicodinamici degli adolescenti in quanto danno corda alla realtà immaginativa che, in questa fase, predilige le tecniche della visualizzazione. Internet aiuta sia a immaginare che a giocare con un sé futuribile in maniera molto più espressiva, e la psicoterapia non può che giovarsi di un coinvolgimento nel loro uso significativo dei media.
Lo spazio/scambio terapeutico si presta a essere il luogo dove “l’immaginario diviene reale”, dove questo nuovo sé si pratica. L’adolescenza ha connaturato un senso del sé instabile: i giovani cambiano sia dentro che fuori ed hanno l’esigenza di riassicurarsi su chi sono una volta che le trasformazioni hanno inizio. In questo periodo e in questi processi internet e i video games sono ormai elementi di costante presenza. I medici dunque possono andare online con loro o, al minimo, parlarne.
Oggi il terreno fecondo individuato dal pediatra e psicanalista D. W. Winnicott nella pratica terapeutica degli spazi creativi e transizionali del gioco, che accompagnano gli sviluppi del bambino, si concretizza ed è esplorabile nell’uso e nelle esperienze che gli adolescenti fanno di internet e dei video games. Sicuramente i ragazzi li usano per dare senso a un mondo che, allo stesso tempo, rifuggono e, intrecciando fortemente realtà e immaginazione, provano a giocare a ciò che si sta diventando. In questo modo ci si appropria delle caratteristiche utili a interpretare un ruolo che li soddisfi o che sfidi una situazione a cui ci si vuole opporre.
La terapia può quindi approfittare del processo di maturazione tentando di stimolare dei giudizi circa la complessità del mondo inducendo una ridefinizione delle possibilità del divenire. D’altronde, il gioco è anche in se stesso una forma di terapia, come spiegato da alcune teorie. Nel gioco ci si può impegnare nel rivivere un trauma che era stato soffocato o anche pienamente vissuto ma a cui, in ogni caso, si vorrebbe dare una soluzione diversa o in cui si sarebbe voluto avere un ruolo più soddisfacente. E tutto ciò, in accordo alla teoria funzionale, evidenzia come vi sia la possibilità di acquisire delle caratteristiche (per lo più intellettuali, ma anche emotive) che, nei confronti di quel genere di trauma, possono preparaci meglio.
* Pur apprezzando la scelta del padre, la studiosa dei media Luisa Valeriani annota l’asimmetricità di un confronto così giocato. “E’ purtroppo inutile che ci oscuriamo per protesta, se i media di massa non se ne accorgono neppure… e figuriamoci se se ne accorgono quelle che dovrebbero essere le nostre rappresentanze parlamentari! Forse nella cecità guidata dei media e nella invisibilità di massa della protesta è la nostra tragedia”. NIM, Newsletter Italiana di Mediologia, commento del 3/6/2009 all’articolo “Eluana immagine” di G. Fiorentino.
Bibliografia
Mauss, N., 1934, “Body Techniques” in Brewster, B., a cura, 1979, Sociology and Psychology. Essays by Marcel Mauss, London, Routledge and Kegan Paul, pp. 97-135.
Pessina, A., 2006, Bioetica. L’uomo sperimentale, Milano, Bruno Mondadori.
Turkle, S., 2008, The Inner History of Devices, Cambridge, Ma., MIT.
Zylinska, J., 2009, Bioethics in the Age of New Media, Cambridge, Ma., MIT.