Paolo Peverini indaga la “forma breve” dell’arte di raccontare una canzone tramite le immagini: uno studio analitico e articolato pubblicato da Meltemi
Nonostante i videoclip si presentino come una forma estrema di espressione filmica, a uno sguardo più attento essi si rivelano come l’occasione per riflettere su diversi aspetti della creazione e fruizione dei prodotti audiovisivi. In effetti, la prima necessità di soddisfare la curiosità circa il grande appeal che queste forme di promozione musicale suscitano, non solo ma soprattutto nel mondo giovanile, lascia presto il posto a considerazioni che coinvolgono le problematiche e i meccanismi più generali del costruire e narrare una storia o degli episodi meno articolati attraverso delle immagini in movimento.
Questa (relativamente) nuova forma di testualità audiovisiva e le sue specificità mediatiche sono analizzate in lungo e in largo, con l’ausilio della semiotica, della musicologia, della sociologia dei consumi e della critica cinematografica, nel bel libro di Paolo Peverini: Il videoclip. Strategie e figure di una forma breve (Meltemi editore, pp. 188).
Il saggio è sicuramente da lodare per la paziente e complessa opera con cui si è cercato di sistematizzare teoricamente un fenomeno che è, per sua natura, frammentato in stili e pratiche che sarebbe riduttivo definire eterogenee, ma l’aspetto che più affascina, e su cui ci soffermeremo, è la capacità di reimpostare, sulle potenzialità comunicative del videoclip, una critica audio-visiva nei termini di una percezione elementare.
Il videoclip: espressione di “contaminazione” fra linguaggi
A differenza dei prodotti consolidati della cinematografia, che vivendo in una piena maturità si presentano più inafferrabili a uno sguardo che intenda rilevare le tecniche e le affabulazioni sensoriali, il videoclip evidenzia delle caratteristiche che, proprio per la sua natura costruttiva e funzionale, mostrano ciò che in altri ambiti è vissuto ormai solo in termini di effetti. Per esseri chiari, i videoclip non sono espressivamente e strutturalmente dei prodotti meno elaborati e seducenti, tanto è vero che spesso riescono a imporre ed esportare con successo la loro estetica in altre forme di spettacolo.
Il fatto importante, invece, è che godono ancora di una larga sperimentalità dovuta alla necessità di trovare soluzioni ai molteplici limiti a cui essi devono sottostare. La subalternità concettuale con cui essi sono spesso accolti rispetto ad altre forme espressive può derivare, in effetti, dalla sensazione di avere a che fare con una certa artigianalità.
Ma è proprio questo intenso e continuo lavorio di miscelazione di esperienze, professionalità, approcci e obiettivi diversi che ha il merito di riattivare la nostra capacità critica: con i videoclip siamo di fronte a un amalgama sempre precario, le cui componenti rischiano di riemergere improvvisamente in superficie, soprattutto le modalità sinergiche attraverso cui lavorano o dovrebbero lavorare il suono e le immagini.
Seducente soluzione espressiva dell’agire quotidiano
Tutti abbiamo notato la natura “esagerata ed eccessiva” del videoclip. È questa una caratteristica, nota l’autore, che assicura al medesimo una visibilità rinnovata nonostante i continui passaggi a cui è sottoposto durante la sua breve ma intensa vita.
Tuttavia, un altro motivo può essere rintracciato nella missione veramente ardua di darsi un’identità “visiva” che ne giustifichi l’esistenza accanto (e con) il prodotto musicale che deve promuovere. La canzone che incorpora, ma forse è meglio dire che accompagna, nasce fondamentalmente in maniera indipendente: essa viene consumata come evento sonoro che gode di una fruibilità “on the air” ricca di futuro per la sua capacità di essere incarnata autonomamente e di risuonare nel corpo e nelle situazioni di vita delle persone.
La natura combinatoria e assemblata del videoclip, la sua qualità “posticcia”, è figlia di questo tentativo di contenimento: il nuovo prodotto deve fondere due dinamiche fenomenologicamente diverse, quella della vista e dell’ascolto, ma la divergenza non può essere del tutto nascosta, così come il gioco e i tentativi di reciproca interazione.
«Un gioco equilibristico» tra segni e suoni
La fenomenologia dei nostri sensi e il modo in cui veniamo affascinati dalle creazioni audio-visive sono una materia ancora ricca di sviluppi tematici. Per certi versi, essa è nel cuore di tutti i “sistemi di significazione” in quanto strutture che tentano di ingabbiare un significato generale fissandolo in forma di segni/suoni che producono un inevitabile scarto tra ciò che si vuole dire e ciò che il prodotto infine esprime, una distanza spesso fatale ai fini del successo di un’opera.
Pensiamo ad esempio a una pubblicità televisiva che ha fatto scrivere e dibattere molto dal punto di vista estetico e di contenuto, quella della Telecom con il personaggio di Gandhi, in cui ci si domanda che mondo sarebbe stato se il messaggio di pace del Mahatma avesse avuto gli attuali mezzi mediatici di diffusione.
Il suo successo, a nostro parere, è stato assicurato dalla scelta di lasciare la possibilità affinché tale scarto non fosse eccessivamente assorbito (danneggiato) dall’opera di significazione realizzata nello spot, compito felicemente coperto dalla struggente voce che canta e produce una misteriosità altamente risonante e drammatica, e per questo molto più ricca di significato rispetto sia alle immagini che alle parole che nel filmato passano – a proposito, la colonna sonora è Sacrifice di Lisa Gerrard e Pieter Burke. Insomma, discorsi di archeologia audio-visiva, ma sempre attuali.
Ecco, in fondo il videoclip ha il potere di disarticolare la nostra sensorialità in quanto affronta da una prospettiva rovesciata quello che ormai consideriamo il normale processo di costruzione e di fruizione di un filmato. Laddove normalmente si parte da una storia ritmata per immagini, al cui dominio si aggiungono gli altri elementi, tra i quali il più importante il suono (musiche, parole, rumori), con il videoclip siamo guidati in un esercizio inverso, meno tranquillizzante e d’incerto successo: partire dall’aleatorietà e vitalità sempre sfuggente del suono musicale per sincronizzare e ritmare delle immagini.
www.scriptamanent.net, anno III, n. 22, luglio 2005