Il grande sogno economico-finanziario dell’inarrestabile sviluppo del nuovo mondo della comunicazione online
Non so quanti siano coloro che si sono soffermati sui cambiamenti vissuti in questi ultimi dieci anni nel mondo della comunicazione mediata. Sicuramente un numero minore di quanti, quotidianamente, ne utilizzano gli strumenti per ragioni di lavoro, informazione e divertimento.
Ancora oggi, mi sembra di poter dire, siamo in linea con quanto lo studioso canadese Marshall McLuhan andava notando fin dagli anni Cinquanta: non è semplice accorgersi dei “media”, dal momento che essi si predispongono subito come ambienti “immersivi”, nei quali noi ci veniamo a trovare nella stessa situazione dei pesci nell’acqua.
Sennonché, pensando ai molti frutti maturati al tempo della “new economy” (e-mail, web, chat, ovvero dialoghi testuali tra personal computer collegati in Internet o gli sms, i più comuni “messaggini” dei cellulari) e al breve periodo della loro affermazione nelle nostre abitudini d’uso, abbiamo in qualche modo la possibilità di comprendere come sia potuto accadere che si formassero delle così forti aspettative economiche intorno al settore delle nuove tecnologie di rete.
Le dinamiche macroeconomiche dell’ultimo decennio nel campo delle tecnologie di rete
Con questo intervento vogliamo esaminare, approfittando anche di un recente documento – «Oecd communications outlook: 2003 edition», elaborato dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, organismo internazionale di studio che raggruppa attualmente i trenta paesi più industrializzati al mondo – le dinamiche macroeconomiche che hanno caratterizzato nell’ultimo decennio il rapporto tra tecnologie di rete ed economia. Una dimensione, quest’ultima, che ne ha determinato il nome (new economy, net economy), ma anche, in un certo senso, i destini, vista l’unilateralità con cui si è misurato l’approccio , che avrebbe dovuto essere invece multidimensionale – sociale, politico e culturale.
Si è, in un certo qual modo, perpetuato un antico vizio: restringere l’ottica in rapporti di causa-effetto lineari. Un meccanismo evidentemente automatico quando ci si accosta al tema della tecnologia, abituata a vivere di un determinismo interpretativo a doppio senso: la tecnologia vista come variabile determinata, disponibile a seguire docilmente i disegni per cui era pensata, oppure la tecnologia come fattore primario ed autonomo, che determina la configurazione dei sistemi di vita e delle abitudini delle persone.
Al contrario, crediamo che per comprendere appieno questi fenomeni vi sia da affrontare una necessità: l’introduzione nelle analisi di un’intellettualità sociotecnica, alla pari di altri saperi, in quanto la tecnologia, come già faceva notare mirabilmente Polanyi (1950), antropologo ed economista, è materia viva e costitutiva delle moderne società complesse, e quindi organicamente interrelata con tutti i loro aspetti.
La tecnologia va dunque indagata per seguirne gli aspetti sociali di costruzione e di governo e potere, nel caso, intervenire sui fattori che ne definiscono caratteristiche e percorsi, sia in fase di produzione che di consumo.
«Stiamo tutti pagando il conto per aver creduto nel mito della crescita continua»
Per focalizzare meglio lo specifico argomento – le dinamiche instauratesi tra circuiti economici e tecnologie di rete nell’ultimo decennio – riprendiamo le considerazioni che Carlo Mario Guerci, professore di Economia presso l’Università statale di Milano, nonché apprezzato consulente di grandi gruppi industriali italiani, espone al giornalista Giuseppe Turani nella rubrica “Affari e finanza” de «la Repubblica» del 18 settembre 2002. L’intervento riguarda la crisi, tuttora in corso, che è seguita al crollo della “new economy” e fa riferimento concisamente ai processi che spiegheremo più approfonditamente in seguito:
In un certo senso stiamo tutti pagando il conto per aver creduto, fine anni Novanta, nel mito della crescita continua. Ci sono cascati studiosi e esperti. Ma anche moltissime aziende, che non hanno badato a spese, che hanno fatto investimenti colossali. Quando la crescita si è interrotta, e quando anche i consumi si sono fermati, abbiamo scoperto che il mondo era pieno di eccessi di capacità produttiva: nelle auto, nei “chips”, negli apparati per telecomunicazioni, nelle telecomunicazioni, ecc. Da qui la crisi che stiamo vivendo […] [Tuttavia] Internet sta benissimo e sta crescendo. Solo che la sua crescita è incrementale. Un pezzettino in più ogni giorno. E quindi non ce ne accorgiamo […] Ma, soprattutto, ormai Internet è intorno a noi. A scuola i ragazzi fanno le ricerche su Internet e imparano un nuovo modo di informarsi e di trovare le cose. Io faccio il professore universitario e senza Internet mi sembrerebbe di essere senza niente. Anche voi, nell’informazione e nella finanza, ormai usate quotidianamente, per tutto il giorno, Internet. Quindi Internet c’è, esiste e cresce.
Come si è arrivati a questa specie di schizofrenia, con un fronte che comunque cresce e richiede nuove professionalità, offrendo sempre più possibilità di applicazioni primarie, ed un altro che, contemporaneamente, crea forti aree di disagio economico?
Ricordiamo che la crisi nel settore delle telecomunicazioni italiane ha messo a rischio (licenziamenti, mobilità, cassa integrazione) circa 20.000 posti di lavoro, soprattutto a carico del segmento manifatturiero e impiantistico. Qual è stata la commistione di fattori che ha potuto alimentare un sogno economico trasformatosi per alcuni in incubo, spiazzando le previsioni degli esperti e impegnando improvvisamente così grandi risorse nel settore delle telecomunicazioni?
Le telecomunicazioni: un’apertura completa dei mercati nazionali
In questi ultimi anni si è assistito, nei paesi più industrializzati, ad una spinta costante verso un’apertura completa dei mercati nazionali sul fronte dei servizi di telecomunicazione, sollecitata sia dagli sviluppi tecnologici che dalla necessità di allineare e alimentare la competizione per migliorare i servizi e renderli economicamente più accessibili, vivacizzando per altro direttamente la promettente economia dell’informazione (informatica e comunicazione) e, indirettamente, tutti gli altri settori, affidandosi a servizi di collegamento ed elaborazione più efficienti e dai contenuti ricchi e flessibili.
Tale azione propulsiva, iniziata nel 1989 e fluidificata dagli organismi transnazionali nell’intento di armonizzare mercati sempre più interconnessi, ha ormai completamente abbattuto gli ostacoli legislativi in difesa dei monopoli nazionali nell’ambito dei trenta paesi appartenenti all’Ocse.
Nell’arco di questo periodo, assieme alla nascita della competizione sono cresciute dunque le attese a livello di “business” nazionale e, viste le tipologie di servizi e la ricerca di sinergie ed economie di scala tipiche del settore, internazionale: in questo specifico segmento di mercato nel 1996 erano 470 le società presenti nel mondo, 1470 nel 1999.
Gli stessi analisti finanziari, di fronte alle improvvise impennate dei traffici – in particolare Internet, ma anche nella telefonia mobile –, prevedevano un futuro roseo, consigliando l’acquisto delle azioni delle relative società “high-tech”.
La crescita tumultuosa alla fine degli anni Novanta
In effetti, nei primi anni – soprattutto il 1995-1996 – si verificarono degli incrementi eccezionali sul fronte del traffico dati, quasi un raddoppio di volumi ogni 3 mesi.
Negli anni successivi – ma dal 2001 gli incrementi si attesteranno intorno al 40% – il traffico dei dati continuerà a raddoppiare, ma non con cadenza trimestrale bensì annuale. Non è una differenza da poco, visto che in questo caso abbiamo tassi di crescita annuali oscillanti tra il 70-150%, nell’altro di circa il 1.000%. Ricordiamo che alla base della filiera delle telecomunicazioni vi è la costruzione e manutenzione delle infrastrutture di connessione, le famose “autostrade informatiche”, i canali su cui convogliare e distribuire i traffici, ed è la funzione propedeutica a tutti gli altri servizi.
È qui che, per un insieme di fattori, si è creata una forte forbice tra domanda e offerta. Interconnettere il mondo vuol dire estendere e rendere le reti sufficientemente capienti, progettandole cioè, dato lo sforzo tecnico-economico richiesto, in proiezione. Tra il 1995 e il 2002 si sono sviluppate reti che, solo in termini di capacità trans-oceanica – relativa ai delicati e costosi cavi che negli oceani trasportano la porzione dei traffici che le diverse regioni mondiali si scambiano –, sono cresciute ogni anno del 133%, 100 volte la capacità iniziale. Si calcola attualmenteche che di tale capacità siano utilizzate solo delle piccole frazioni: nel 2003 circa l’11-12 %.
Tuttavia, sulla distanza creatasi tra offerta e domanda non ha influito solamente la differenza nei tassi di crescita (reali e previsti), così come le sovrapposizioni geografiche e funzionali delle reti delle società che competono in tale “business”. Un ruolo fondamentale è stato svolto dal miglioramento delle tecnologie di trasmissione nelle reti di trasporto: le fibre ottiche, con le relative apparecchiature trasmissive, sono immensamente capienti rispetto le precedenti in rame, e assicurano al contempo delle economie di scala più efficienti.
Stendere oggi una fibra significa predisporsi a trasportare un traffico pressoché infinito che però può essere attivato gradualmente. La fibra stesa nelle condutture rimane in parte “dark”, ovvero spenta; si “illumina” solo quando vi è l’esigenza di incrementarne la capacità di trasporto. Si calcola che al 10-15% del costo originale del sistema è così possibile ottenere il raddoppio della capacità. Attualmente si stima che la fibra effettivamente illuminata sia, a livello di singole nazioni, solo il 2,7%.
Il “boom and bust cycle”
Uno dei fenomeni più evidenti cui abbiamo assistito, spesso grazie a investitori forse un po’ troppo “ignari”, è stato dunque il ciclo di investimenti che ha permesso alle società di telecomunicazioni di mettere in atto i propri piani. È stato definito come “boom and bust cycle” in quanto, alle iniezioni dei capitali resisi disponibili per lo sviluppo di nuovi servizi e nuove tecnologie – la fase appunto di “boom” –, è seguita una brusca restrizione causata dalle inevitabili crisi di fiducia allorché si constatò che l’offerta infine sviluppata superava di molto la capacità della domanda – appunto la fase di “sgonfiamento”.
Nonostante i ricavi nel settore siano cresciuti – dal 1996 al 2001 del 7,2% ogni anno, per scendere all’1,6 nel 2001 – non si erano però materializzati quei guadagni a doppia cifra che potevano portare beneficio a tutti i competitori. Nel frattempo i bilanci di quasi tutte le società si sono appesantiti dei debiti provocati dai prestiti per i capitali ottenuti e dalle spese forsennate per acquisire le specifiche esperienze tecnologiche – indispensabili per innovare e gestire i servizi di telecomunicazioni.
Questa operazione è avvenuta spesso incorporando altre aziende, pagate a peso d’oro in quanto supervalutate grazie all’euforia esistente nel settore e alla scarsità delle alternative disponibili nel ristretto ambito dell’“high-tech”. Non solo, l’euforia era così generalizzata che si riuscì a caricare il fardello anche delle ingenti spese di acquisizione delle frequenze radio per la terza generazione di telefonia mobile – l’Umts – vendute da uno Stato “finalmente” imprenditore: nel 2000, furono in totale ben 120 i miliardi di euro pagati per tali oneri.
Un inarrestabile declino
Alla fine, gli ambiziosi piani di sviluppo si sono rispecchiati in bilanci societari che faticavano a reggere ad analisi più critiche: rapporto costi/ricavi, stato patrimoniale delle attività/passività, rapporti di indebitamento… la cosiddetta ricerca dei “fondamentali”.
D’altro canto, nel momento in cui le prospettive nel settore si delineavano più chiare, la sfiducia era prontamente registrata dai mercati finanziari, veloci a capovolgere il “trend” da un segno altamente positivo ad uno fortemente negativo. I valori delle azioni delle società ICT (Information & communication technology) hanno subito un inarrestabile declino e persino le più grandi compagnie mondiali di telecomunicazioni hanno rischiato di scomparire, affrontando in ogni caso procedure di bancarotta (WorldCom, Global Crossing).
Preoccupavano soprattutto i debiti che, in una fase di sfiducia, divenivano sempre meno negoziabili, contribuendo ad abbassare sia il valore potenziale delle società che il valore reale delle infrastrutture sviluppate. In più, quello che prima era stato un esercizio semplice – reperire capitali per finanziare le iniziative di sviluppo – ora diveniva un’impresa titanica se non impossibile di fronte al rischio concreto di non poter rispettare gli impegni con i precedenti creditori.
Basti pensare che il mercato delle obbligazioni del settore delle telecomunicazioni ha segnato il suo punto massimo di crisi dagli anni Trenta. L’impossibilità a pagare i debiti (“default”) ha raggiunto nel 2002, a livello globale, la cifra di 163 miliardi di dollari, e ben il 56,4% nel settore delle telecomunicazioni.
È in questo scenario che vanno inquadrati alcuni tentativi di ricorso a pratiche illecite in termini di presentazione dei conti e bilanci, un ritocco “estetico” per nascondere i reali problemi economici e finanziari che ha prodotto negli Stati Uniti scandali come quelli Enron e WorldCom, minando i termini di effettiva trasparenza nella gestione (“corporate governance”) e di reale affidabilità di società quotate in borsa, a volte oggetto di anticipate spoliazioni da parte di coloro che conoscevano la situazione dal di dentro (“insider trading”).
Una fase di ristrutturazione e ridimensionamento
Questo ciclo economico depressivo ha spinto e spinge le compagnie di telecomunicazione verso una profonda fase di ristrutturazione e ridimensionamento, pur in presenza di una domanda che continua a crescere, fase necessaria per tornare ad essere economicamente “appetibili” in termini di redditività e di sostenibilità finanziaria. In questo settore è infatti fondamentale riuscire ad attrarre i capitali, dati gli enormi investimenti richiesti, ormai reperiti perlopiù sul mercato finanziario.
Ecco dunque spiegato l’attuale stato di contrazione che le società di telecomunicazioni, e tutto l’indotto, stanno subendo: energiche strategie di riduzione dei costi, rinegoziazione dei debiti e stretto controllo dei flussi di cassa (il “cash-flow” come fonte interna di finanziamento) e degli investimenti, scesi anche del 50% tra il 2000 e il 2002, con evidenti effetti nel campo della fornitura delle apparecchiature “high-tech” e, in misura minore, nel settore che fornisce i servizi, che comunque mantiene nei paesi sviluppati un giro d’affari dell’ordine del 2-4% del Pil, ma che si riverbera inevitabilmente sulla valutazione delle stesse società.
Come accennato, a volte i meccanismi di tali processi riorganizzativi prendono pieghe più drammatiche, concretizzandosi in fallimenti più o meno pilotati – vedi i famosi “Chapter 11” degli Stati Uniti, un insieme di meccanismi legislativi che cercano, spesso vanamente se non cambiano le condizioni del mercato, di rimettere in corsa le società, dopo averle “sforbiciate” dai debiti.
I servizi a banda larga
A fronte di questo quadro vi sono continui richiami alle autorità pubbliche per concertare delle politiche di sostegno e, contemporaneamente, degli allentamenti sui regolamenti di rilascio delle licenze (ad esempio, nella telefonia mobile si chiede di poterle vendere ad altri nel caso l’azienda licenziataria versi in condizione di difficoltà economica). Voci preoccupate si levano anche per arginare un fenomeno, la sparizione di piccole e grandi aziende, che rischia di restringere o eliminare la competizione nel settore a favore di un consolidamento degli operatori storici, cosa che può rallentare la diffusione di servizi più innovativi ed economici.
E si fa l’esempio dei servizi a banda larga (tipicamente i servizi di connessione veloce ad Internet quali l’Adsl, attualmente utilizzati da solo il 4% dell’utenza europea), cioè quei servizi che potrebbero dare l’impulso definitivo al settore in quanto garantiscono dei collegamenti per lo scambio veloce di grandi quantità di dati (audio, video, testi, ecc.), un servizio che è più semplice fornire in modalità “flat” – ovvero con pagamento del solo canone mensile, svincolandone il prezzo dal tempo di utilizzo – in quanto costruiti su linee dedicate allo scopo.
Scriptamanent.net. Anno I, n. 8, dicembre 2003