Nell’ultimo romanzo, il maestro del brivido Stephen King vede il cellulare, in linea con certa tradizione letteraria, come spia di degenerazione umana
Se l’obiettivo di Stephen King è di stupire e atterrire, devo ammettere che con me lo scopo è stato raggiunto già all’atto di sfogliare superficialmente le pagine del suo libro più recente, Cell (Sperling & Kupfer, pp. 544). Quando il mio sguardo è caduto sulle pagine finali non ho saputo trattenere un sobbalzo vedendo inserite le bozze del suo prossimo romanzo, non perché meravigliato della sua peraltro notoria prolificità ma perché trascritte con la sua grafia manuale, che pare essere la modalità con cui l’autore lavora ai suoi lunghi racconti.
Non credo ci sia indizio più preciso, nell’era dei “word processor” e delle memorie digitali, per documentare al meglio la sua resistenza antitecnologica, peraltro ampiamente dispensata nell’opera. A dire il vero, nel mondo in cui viviamo, costruito e mantenuto in precario ma miracoloso (dis)equilibrio da un’infinita quantità di sistemi tecnici, scovare in un qualche artefatto tecnologico la ragione per sollecitare un certo turbamento è uno sport facile e invitante. Nello specifico, nel romanzo sono i cellulari ad agire come agenti di disordine e irrazionalità, diventando latori di misteriosi impulsi che hanno il potere di gettare nella follia omicida gli uomini che lo possiedono.
Il filone “gotico”
Attualmente Stephen King è ritenuto uno dei massimi esponenti di un tipo di letteratura definita “gotica”. In verità, con questo appellativo si indicavano in origine tutta una serie di romanzi che, scritti tra il 1760 e il 1820, si contraddistinguevano per la capacità di enfatizzare il terrificante, le ambientazioni arcaiche, i fenomeni soprannaturali e l’humour nero, il tutto descritto con delle tecniche stilistiche capaci di mantenere il racconto sul filo di una continua tensione.
Con il richiamo al “gotico” si intende accomunare tali caratteristiche al ritorno di alcune tendenze arcaiche e dunque “barbariche”, da qui il riferimento alle abitudini delle tribù del nord Europa al tempo della civilizzazione romana (i goti). Una siffatta letteratura produce storie in cui prevalgono i fenomeni degenerativi e regressivi all’interno di società che si considerano civilizzate e ben ordinate. Il filone ha avuto un enorme seguito nell’epoca moderna dato i grandi processi di trasformazione sociale e culturale che hanno prodotto molteplici e spesso drammatiche contraddizioni, offrendo un’abbondanza di spunti creativi.
Queste storie si sono rivelate spesso dei luoghi interessanti per comprendere le evoluzioni e il ruolo della comunicazione e dei suoi media nelle società contemporanee, così come i motivi dei relativi turbamenti.
In questo ultimo lavoro Stephen King sembra curiosamente ricollegarsi, suppongo in maniera inconsapevole, al testo che viene considerato come capostipite del genere e la distanza ermeneutica tra le due opere si può leggere tutta (altrettanto curiosamente) nel medium-soggetto della trama.
In Wieland o la trasformazione, un racconto del 1798 di Charles Brown Brockden, lo scompiglio nell’ordine sociale era scatenato dalla voce dissociata di un ventriloquo, che suggestionava le persone spingendole ad abbandonarsi ai propri istinti omicidi. In Cell, invece, è lo strano impulso di un telefono cellulare a provocare gli stessi effetti.
Wieland è stato da alcuni interpretato alla luce della composizione delle prime forme di società liberali. In un periodo in cui le collettività si andavano organizzando attorno a delle carte costituzionali che allo stesso tempo dettavano e cercavano di interpretare gli ideali e le regole associative del gioco liberale, si affrontavano due rischi contrapposti.
Quello di ingabbiare in “tecnologie” limitate, quali il linguaggio scritto, la vitalità (le voci) delle persone agenti in una determinata società e, allo stesso tempo, doversi comunque sobbarcare un altro rischio, esporsi al potere delle voci che avrebbero continuato a levarsi, anche solo per condurre il normale dibattito democratico nel nome di quelle regole scritte, richiamando con le qualità vocali quegli istinti primordiali mai completamente “domabili”.
L’abisso della tecnologia
Dopo 200 anni non è più il medium nella versione naturale ma di origine ventriloqua a seminare lo scompiglio, ma uno strumento che la trasporta, moltiplicandone a dismisura la presenza, tramite impulsi e trasduzioni elettromagnetiche.
Siamo ormai parte di un mondo che ha incrementato esponenzialmente il proprio tasso tecnologico e ci vediamo come un corpo i cui ingranaggi vitali sono incardinati ed espansi in strutture complicate che rispondono a flussi informazionali complessi e “misteriosi”, esposti a tutti i possibili rischi che tale mix di “hardware” e “software” comporta.
Sono molte le cose che potrebbero essere dedotte da questa lettura comparata, ma a rimanere centrale sembra essere il timore della fragilità delle nostre forme associative e dunque della forma del nostro stesso corpo, comunque legate a determinate condizioni comunicative e ai diversi generi di “alfabetizzazione”. Ai primordi della democrazia moderna le paure scaturivano dalla difficoltà di confrontarsi su un terreno vincolato da una tecnologia un po’ troppo “statica”, come è la scrittura, per contenere e allo stesso tempo espandere tali forme.
In questi 200 anni, a partire dal telegrafo, si è cercato di affrontare il problema sviluppando dei media di massa sempre più performanti e interattivi grazie alla fluidità e velocità dell’elettricità. Attualmente il gioco è sottomesso a un altro genere di alfabetizzazione, quella digitale o, meglio, telematica, e nel nostro attuale habitat sembrano avanzare altre forme di preoccupazioni.
Il nostro corpo ha ormai una dimensione comunitaria che è allo stesso tempo reale e sfuggente nella sua commistione “umana e macchinica”, articolato com’è nei vari sistemi di comunicazione e di elaborazione collegati perennemente in rete. Un corpo dunque sempre esposto a ricevere, in uno stato di configurazioni rapidamente mutevoli, dei segnali “complessi” che potrebbero, intenzionalmente o inconsapevolmente, sospingerlo di nuovo negli abissi più arcani.
www.scriptamanent.net, anno IV, n. 36, novembre 2006