Recensione del libro “The Economics of Attention: Style and Substance in the Age of Information” di Richard A. Lanham
In un’epoca in cui la quantità delle informazioni si incrementa esponenzialmente e le forme della sua creazione, distribuzione e presentazione si innovano continuamente, il tema di un’economia dell’attenzione si affaccia in maniera stabile nelle riflessioni sugli impatti della rivoluzione digitale.
In una società dove l’informazione abbonda e i flussi mediali incalzano è la nostra attenzione a diventare una risorsa scarsa, esageratamente sollecitata da problemi quantitativi, difficoltà a seguire tutto, e qualitativi, capacità di catturare e dare un senso ai contenuti proposti in nuove e varie modalità espressive, spesso ingegnosamente integrate (testi, video, suoni).
A differenza di molti altri approcci, impegnati perlopiù a spiegare come sopravvivere a tale condizione e, casomai, a sfruttarne le logiche, le riflessioni di Lanham hanno il merito di focalizzarsi soprattutto sugli aspetti mediologici. Niente da dire, la cosa è sicuramente provocatoria se pensiamo agli allarmi ciclici nei confronti delle scelte di studio che svantaggiano i corsi universitari di natura più scientifica, mentre qui ci si concentra sulla necessità di aggiornare le nostre competenze in senso “culturale e sociale” per comprenderne le relative problematiche.
Per l’autore, infatti, l’allocazione dell’attenzione è stata sempre governata da dispositivi stilistici. In definitiva, è questo il compito di ciò che chiamiamo stile, quell’insieme di idee, impressioni e immagini che circondano il mondo fisico e che ne governa la creatività, imprimendosi infine nella foggia dei suoi oggetti.
Detto in termini più compiuti, l’attenzione umana è particolarmente sensibile al rapporto tra sostanza e stile o, citando gli altri due sinonimi usati da Lanham, tra gli oggetti (materia, stuff) e le idee che su di essi abbiamo (fluff), un combinato dinamico che produce sintesi diverse in relazione ai differenti periodi storici. Nel momento in cui il livello dell’espressività simbolica cresce e i suoi mezzi mutano, in cui vi è un passaggio e una competizione tra la tradizionale parola scritta su carta e le reti e gli spazi digitali (dove la scrittura sui terminali si integra con i suoni e le immagini), non vi è solo il problema di comprendere come cambiano le forme comunicative, ma anche quello di stabilire come la pervasività dei flussi immateriali incida negli equilibri di tale sintesi.
Ma è possibile affrontare questo problema senza rivedere anche le nostre competenze, riarticolando in esse i tipi di conoscenza? Quando erano i beni materiali (gli oggetti fisici) ad essere al centro dell’economia, le conoscenze relative alla fisica e all’ingegneria godevano di una maggiore considerazione, e gli insegnamenti letterari e delle arti vivevano una condizione periferica.
Ora che i fenomeni simbolici diventano più centrali, l’educazione alle materie che incaselliamo genericamente sotto il termine arti, che da sempre hanno a che fare con i modi in cui l’attenzione umana è allocata, devono acquisire maggiore spazio. Se si vuole comprendere meglio come il capitale culturale è creato e scambiato nelle nostre attuali società, diventa indispensabile produrre un diverso mix di competenze riservando un peso maggiore agli studi che in questo genere di riflessioni hanno il loro fondamento.
Ad esempio, afferma Lanham, che per comodità predilige spesso argomentare con richiami alle proprie materie di insegnamento invece che ad altri campi di studio quali la psicologia sperimentale, la fisiologia della visione o la filosofia, la retorica è nata proprio per educare all’arte dello scrivere, parlare e agire efficacemente in pubblico. Il suo fine è di insegnare a catturare l’attenzione. D’altronde, riflettendo meglio, ogni avanguardia artistica – futurismo, dadaismo, surrealismo, arte pop – ha saputo interpretare e segnalare i cambiamenti nelle modalità e sensibilità espressive elaborando dei dispositivi stilistici specifici per attirare un adeguato interesse.
Insomma, se è ormai indispensabile pensare sia nei termini della materialità che dell’immaterialità (stuff/fluff), e se è vero che siamo in un’economia fondata sull’informazione, non dobbiamo credere che il problema possa essere affrontato solo con un qualche potenziamento – pure automatico! – dei meccanismi di filtraggio informativo. Al contrario, diviene esiziale lo sviluppo delle attitudini atte a cogliere il senso di tali fenomeni poiché l’attenzione umana ha a che fare più con la capacità di “leggere una poesia che un resoconto economico”.
Dobbiamo dunque addentrarci in quella no-man’s land dove si incontrano idee che originano da campi diversi, cosa che l’autore evidenzia evitando di inserire le classiche note a piè di pagina, discutendo invece sulle fonti eterogenee richiamate in maniera meno formale e più intimistica alla fine di ogni capitolo.
Fondamentalmente sono tre le linee argomentative che Lanham percorre per illustrare le sue tesi.
Con la prima cerca di spiegare l’attuale paradosso per cui, pur annegando le società sempre di più in una crassa materialità, siano poi i fenomeni immateriali (simbolici) ad acquisire una maggiore centralità. Ad esempio, più che i prodotti a contare oggi sembra essere la nostra relazione con essi, più che la sostanza (stuff) la loro identità e storia, vale a dire quello che di essi pensiamo (fluff). Quanto sia cambiato il rapporto tra questi due termini lo dimostra il valore del design per il consumo o, altrimenti, il modo in cui questi oggetti sono creati, e cioè dando la massima priorità alla loro progettazione e simulazione grazie alle informazioni e conoscenze che di essi abbiamo, che i sistemi computerizzati ci aiutano a elaborare. Per essere chiari, anche prima si poteva produrre seguendo tali criteri, ma solo ora, in una società dell’informazione, ciò non è più una scelta ma un obbligo.
La seconda linea di riflessione è quindi relativa al modo di acquisire la preparazione che ci permette di vivere in questo genere di economia. Se frequenti sono gli ammonimenti a far proprie “le regole e le abitudini, le competenze e i talenti necessari a scoprire, catturare, produrre, preservare e sfruttare le informazioni”, l’istituzione che dovremmo meglio organizzare a tale fine sono le università perché da sempre luoghi deputati a trasformare le informazioni in conoscenza. Esse stesse “creano strutture di attenzione che chiamiamo curricolo, corsi di studio” che provano a dare un senso alla complessità del mondo.
In generale, esse hanno educato avendo come fine sia la creazione delle cose materiali che la riflessione su di esse. Non è mai stato un compito semplice organizzarle tenendo in considerazione l’oscillazione che, a livello di importanza, nel tempo si produce tra stuff e fluff, così da miscelare finemente le scienze “dure” con quelle relative alle arti e alla letteratura. In ogni caso, in una società industriale sono state le prime, senza dubbio, ad essere privilegiate.
Ma in questo nuovo mondo dove il disegno dell’oggetto conta quanto l’oggetto, dove il posizionamento nel mercato è non meno importante del prodotto “lo studio dell’arte e della letteratura, che insegna a come fare attenzione al mondo, è sicuramente più centrale”.
Il terzo percorso muove infine al cuore del problema chiedendosi chi sono, in un’economia dell’attenzione, i veri economisti.
Nel XX secolo i veri economisti dell’attenzione sono stati gli artisti della visione. Il locus dell’arte per loro divenne non l’oggetto fisico che occasionava la risposta estetica, ma la risposta stessa. Il centro dell’arte migrò dall’oggetto all’attenzione che esso richiedeva…. Il cubismo ci chiedeva di guardare al nostro modo di vedere, così come al panorama visto, e di passare tra le due visioni in un singolo dipinto. I futuristi italiani crearono i loro collage chiedendoci di considerare le lettere come oggetti fisici, materia grezza piuttosto che agenti di informazione, di invertire in qualche modo le nostre assunzioni nei confronti del materiale/immateriale.
Marcel Duchamp si affermò con autorità manipolando la nostra attenzione attorno a un modesto numero di oggetti che organizzava in quanto creazione. Josef Albers nei suoi dipinti di colori geometrici ci chiedeva di guardare ai colori piuttosto che, attraverso di essi, all’informazione che veicolavano. Robert Irwin creò una serie di dipinti e di sipari che aiutavano a mostrarci il modo in cui vediamo.
Gli artisti pop manipolarono continuamente i fattori di scala per farci riconoscere il ruolo che essi giocano nel modo in cui apprendiamo il mondo… E potremmo scrivere la stessa storia con la musica, lo sforzo di John Cage nel farci prestare attenzione ai suoni del sottofondo quotidiano, che egli metteva in primo piano presentandoli come musica. Egli voleva che ascoltassimo noi stessi ascoltare.
In definitiva, l’autore ci indica un esercizio che insegna a comprendere l’oscillazione tra la sfera materiale e immateriale, tra gli oggetti e quello-che-degli-oggetti-pensiamo, una pratica utile in una società dove l’economia dell’attenzione è crescente. Non esiste l’informazione pura. Essa è sempre filtrata e a questo servono i dispositivi stilistici.
Se si vuole veramente entrare nel merito di un’economia dell’attenzione e ragionare con maggior cognizione su quei nuovi territori telematici dove essa si presenta nello stato più puro, dobbiamo comprendere la comunicazione umana nella sua piena accezione, come fenomeno che rispecchia un vasto campo di scopi. È su questa base, per Lanham, che si potrà superare la stessa dicotomia delle categorie di sostanza e stile.
Sempre più frequentemente esse tendono ormai a sostituirsi, definendo una matrice interpretativa più complessa in cui dover tenere conto, ad esempio, della nostra consapevolezza circa la qualità del medium espressivo e della specifica attitudine del percettore a vedere in un certo modo, anche perché pressato daigli obiettivi più contingenti.
Titolo: The Economics of Attention: Style and Substance in the Age of Information
Autore: Richard A. Lanham
Editore:University of Chicago Press
Pagg.: 326
Anno: 2006
Richard A. Lanham è Professor Emeritus alla University of California, Los Angeles e presidente dell’azienda di consulenza Rhetorica, Inc.. Tra i vari libri ha pubblicato nel 1995 The Electronic Word: Democracy, Technology, and the Arts.