Christian Laval e Francis Vergne sull’istruzione necessaria nel XXI secolo
Nella ormai montante marea di informazione che ci trapassa quotidianamente la cronaca giornalistica ha sempre posto per parlare di scuola o università. Il loro spettro di notiziabilità si alimenta perlopiù col richiamo a problematiche di degrado – condizioni logistiche precarie, scarsità di risorse, crisi delle iscrizioni, allarmi per comportamenti non consoni (bullismo, molestie, abbigliamento, uso cellulari, maltrattamento professori) – ma anche in occasioni di proposte politiche che lanciano, quasi sempre in maniera estemporanea e slegate da un’analisi più ampia, potenziali idee per migliorarne il funzionamento.
La supeficialità di un quadro frammentato ed episodico
La quantità di persone e la mole di attività che impegna il sistema educativo di certo assicurano attenzione alla stampa, e tuttavia il quadro che ne esce per farsi un’idea sullo stato del sistema educativo rimane – dall’esterno almeno – sempre frammentario ed episodico – mentre la riconduzione dei temi in una cornice più complessiva è materia riservata agli esperti settoriali o a chi ha la pazienza e possibilità di assistere a un qualche convegno.
Rimane il fatto che gli accadimenti in questo mondo stimolano in noi sempre curiosità, non solo perché richiamano un’esperienza comune ma per la consapevolezza generalizzata della posta che in esso vi è in gioco.
Comprendere, guidare e trasformare il mondo
In effetti, l’organizzazione e la gestione dell’educazione scolastica e universitaria sono compiti fondamentali per le società moderne e democratiche poiché gli sviluppi scientifici, tecnici e organizzativi determinano la capacità di guidare i propri destini sociali e politici, così come la via per costruire un qualche futuro economico dignitoso.
Soprattutto, scuole e università sono i luoghi in cui le persone impegnate nei percorsi di formazione gradualmente si confrontano con saperi e pratiche che devono metterli in condizione di comprendere le società e il mondo in cui vivono, e il loro studio critico è allo stesso tempo la base per elaborare idee aggiornate su come rispondere ai continui cambiamenti in cui siamo coinvolti.
Davanti alle enormi sfide delle società del XXI secolo – creazione di lavoro, recupero e cura dell’ambiente, rinnovamento e transizione delle fonti energetiche, connessioni comunicative ed economiche intessute su scale globali, crisi sanitarie – non dovremmo avere più dubbi sul bisogno di estendere e migliorare la qualità della formazione per coltivare persone consapevoli e capaci di affrontarle.
Una risorsa vitale incompresa e maltrattata
Tuttavia, quando su una certa problematica l’opinione pubblica tende a poggiarsi su una visione parziale e fuggevole, vi è il pericolo di favorire involontariamente gli interessi particolari che da tempo, in quasi tutto l’occidente, sono intenti a smantellare le logiche che dovrebbero tutelare l’istruzione come bene pubblico e realmente comune.
Tra l’altro, mentre a guadagnare terreno e ad avvilupparci è sempre più l’incerto, l’inafferabile e l’improbabile, su tanti temi continuano ad affascinarci le semplificazioni, che però hanno il difetto di ingannarci poiché coprono «la complessità dei legami e delle interdipendenze, e che di fatto è piuttosto complicatezza degli interessi e delle manovre di potere» (Ceruti, Bellusci, 2020, p. 10,11).
Senza una riflessione seria e ampia sugli scopi che un sistema educativo deve avere nel contesto attuale in cui viviamo – e ciò implica non nascondere la complessità dei suoi legami e interdipendenze con tutta la realtà sociale vissuta dalle persone in esso coinvolte – rischiamo di perdere l’opportunità di riformare e indirizzare questa risorsa vitale nel verso giusto.
Il tema della meritocrazia – termine coniato nel passato proprio come un incubo da evitare in quanto perpetuazione e legittimazione morale e culturale delle diseguaglianze esistenti (come spiegato nella postfazione del saggio che andremo a illustrare), termine che troviamo ora incredibilmente e incomprensibilmente associato alla missione di scuole e università – è forse, in questi ultimi anni, il segnale più evidente delle difficoltà a comprendere la vera missione e lo stato in cui versa il sistema educativo.
Le interdipendenze tra società e istituzione educativa
Tutti questi rischi sono certamente avvertiti dagli esperti di politiche educative Christian Laval e Francis Vergne che, al fine di rafforzare il volano tra educazione e prospettive di futuro, da tempo provano a ripristinare un quadro di insieme in cui siano evidenti le interdipendenze tra i sistemi sociali e le loro istituzioni nel tentativo di riportare il discorso nell’ottica di ciò che è in gioco, vale a dire gli interessi generali e la qualità del nostro futuro.
Le loro riflessioni sull’argomento sono contenute nel libro, ora edito anche in Italia, dal titolo Educazione democratica. La rivoluzione dell’istruzione che verrà (Novalgos, 2022). Rimandando al testo per godere dell’ampia e chiara analisi, così come della loro generosa militanza ideale, proverò qui a illustrarne l’impostazione e richiamare alcune argomentazioni.
In questo saggio Laval e Vergne si muovono su due piani intrecciati: quello di un’indagine storica, politica e sociale che analizza aspirazioni ed esperienze educative trasversali a diversi paesi occidentali, e quello di laboratorio in grado di lanciare proposte specifiche tese a tenere insieme principi primari come uguaglianza, democrazia, educazione poiché «chi non collega il problema scolastico, o piuttosto il problema dell’educazione, all’insieme dei problemi sociali si condanna a sforzi o a sogni senza frutti» (p. 39).
L’impossibile separazione tra realtà sociale e insegnamento, e la deriva economicista
Per gli autori, innanzitutto, i processi formativi non accadono in un vuoto esistenziale: non è possibile, ad esempio, non accorgersi che le disuguaglianze economiche e sociali, la valorizzazione del solo successo economico e della competizione tra individui, lo sfruttamento illimitato delle risorse comuni, e dunque lo scarto esperito tra morale ufficiale e realtà vissuta, non producano conflitti valoriali nelle persone che transitano negli ambienti educativi, minando alle basi l’accoglimento di insegnamenti di segno diverso, «avere riguardo dei più elementari principi di civiltà, della dignità umana e del rispetto degli ecosistemi significa andare contro corrente rispetto alle tendenze più intollerabili delle nostre società e contrastare le politiche che le accelerano» (p. 32).
Tra queste spinte vi è senz’altro quella di un passaggio da un’idea di un’istruzione dal carattere pubblico a un servizio privato che deve plasmarsi con l’idealizzazione dello «spirito di Impresa» – guidato prevalentemente dai concetti di produttività e competitività – seguire insomma i principi neoliberisti dell’economia che privilegiano una retorica manageriale nei sistemi educativi cosicché per uno studente è «sempre meno una questione di “spirito critico” o di “formazione del cittadino” e sempre più di “capitale umano” e di “cultura d’impresa”» (p. 33).
Tornano qui alla mente le parole della filosofa canadese Flora Michaels, vincitrice nel 2011 del NCTE George Orwell Award per il rilevante contributo all’analisi critica del discorso pubblico. Nel suo libro Monoculture. How One Story is Changing Everything, focalizzato sulla deriva ideologica economicista e i suoi effetti sociali e individuali, riguardo all’istruzione notava:
una volta l’educazione era pensata come servizio all’umanità, come pietra angolare della democrazia. Attraverso l’istruzione siete arrivati a una comprensione illuminata del mondo, siete diventati qualcuno che poteva pensare in modo critico, qualcuno che sapeva come partecipare efficacemente alla società e come ritenere responsabili i leader democratici. L’istruzione era un bene pubblico, un investimento sociale nella nostra convivenza come società. Credevamo che l’istruzione ci migliorasse collettivamente, indipendentemente dal fatto che fossimo personalmente quelli che venivano istruiti o meno. Abbiamo usato l’istruzione per ridistribuire le opportunità. L’istruzione avrebbe ridotto il divario tra ricchi e poveri rendendo più equo l’accesso a una vita migliore. Se avete iniziato in condizioni di svantaggio, attraverso l’istruzione avreste avuto la possibilità di migliorare la vostra vita….
Con l’avvento dell’ideologia economicista l’istruzione è collocata nel mondo dei mercati e diventa una merce. Gli studenti diventano acquirenti. Le scuole diventano venditori, i fornitori di servizi competono per gli affari nel settore dei servizi educativi. L’ideologia economicista afferma che l’istruzione è un bene privato, non pubblico. L’istruzione è qualcosa che ti aiuta ad andare avanti nella vita come individuo. L’istruzione è importante, non perché ti aiuterà a diventare un cittadino pienamente formato e informato in grado di partecipare efficacemente alla società, ma perché ti aiuterà a ottenere un lavoro migliore, guadagnare di più e migliorare la qualità della tua vita (2011).
Questa constatazione disincantata e amara sulla fine di un progetto che aveva senso in una prospettiva solidaristica e con un obiettivo di miglioramento comune porta in luce le ragioni di tanta disaffezione e demoralizzazione che troviamo oggi nelle persone impegnate nel settore formativo.
Scuola per tutti ma non di tutti
L’allargamento dell’istruzione avvenuto con la scuola di massa, se non accompagnato da politiche capaci di livellare anche i disagi patiti dalle persone in termini di diseguaglianze sociali – dipendenti ad esempio dalla sfera famigliare e ambientale, con i loro risvolti economici e culturali – ha rivelato come uno scollamento così netto renda inefficienti i percorsi educativi.
Incredibilmente, di fronte a tale fallimento il ragionamento proposto è di abbandonare il progetto progressista, «poiché è impossibile elevare il livello scolastico di molti studenti di bassa estrazione sociale, attraverso saperi che sarebbero troppo astratti o lontani dalla “vita vera” (ovvero dalla vita professionale), sarebbe opportuno fondare gli apprendimenti sull’acquisizione di competenze utili alla società, il più possibile legate al mondo dell’impresa… detto altrimenti, la concezione utilitaristica degli studi indirizzati all’occupabilità costituirebbe la via democratica per eccellenza» ( p. 38).
Una questione politica, non tecnica
La scuola si è dunque trasformata in funzione degli imperativi economici e la questione scolastica sottomessa ai soli processi di tecnicizzazione in termini di problemi e improbabili soluzioni, invece «la questione scolastica è una questione politica, che riguarda l’organizzazione complessiva della società, che impatta sulla divisione del lavoro, sulla redistribuzione delle ricchezze, sui rapporti tra le generazioni e tra i generi, sulla distribuzione dei gruppi sociali ed etnici nel territorio» (p. 34).
Per Laval e Vergne ciò non significa sovrastimare il ruolo della portata dell’educazione nella società, che vorrebbe dire, come spesso avviene, peccare di “scuolacentrismo”. La sua riforma è certamente una delle condizioni ma «per cambiare realmente una società non è sufficiente introdurre modifiche in una sola istituzione…. [è possibile avere un’educazione per la democrazia quando] il principio di autogoverno è esteso a tutte le istituzioni territoriali e produttive, a tutte le attività collettive, che siano economiche, culturali, educative [e ciò] presuppone la capacità dei cittadini di riflettere sulla desiderabilità delle istituzioni, e di modificarle collettivamente se non le ritengono più adatte… il che implica autoriflessività in seno a tutte le istituzioni della società, siano esse politiche o economiche» (p. 40).
Educazione democratica perché partecipante e responsabilizzante
Gli autori insistono sul valore di una «educazione democratica» perché considerano il processo virtuoso tra accoglimento e introiezione critica degli insegnamenti e rigenerazione creativa dei saperi e delle pratiche in un quadro sociale e democratico più ampio possibile. «Scopo dell’educazione democratica non è solo far sentire a ogni individuo che è membro di un gruppo verso il quale ha degli obblighi, ma anche insegnargli a diventare partecipante attivo alla determinazione collettiva delle regole della vita comune e, più in generale, partecipante attivo della vita sociale e culturale, al suo rinnovamento e alla sua creatività. Possiamo aggiungere: un essere pienamente responsabile del mondo in cui vivrà. L’originalità di un’educazione democratica, di conseguenza, è di permettere agli studenti di fare esperienza dell’autonomia individuale e dell’autogoverno collettivo» (p. 42).
L’obiettivo dei cambiamenti suggeriti dai due studiosi in termini di educazione democratica, sociale ed ecologica potrebbe sembrare ambizioso e comunque, rispetto all’attualità, molto futuribile.
Eppure, rispetto agli accadimenti e alle condizioni di vita che stiamo vivendo in questi inizi del XXI secolo, non è possibile rimanere ancorati agli orizzonti riformisti che erano ritagliati per una società industriale e non riformulare un’architettura di società in cui i cittadini ridefiniscono «le scelte che condizionano il benessere collettivo, stabiliscono i limiti alle attività e ai consumi dannosi per l’ambiente.. [e per ciò] la trasformazione dovrà riguardare anche i contenuti educativi e soprattutto “lo spirito” dell’educazione: decostruire l’immaginario industrialista e produttivista che ci ha convinti che gli uomini potessero essere “padroni e proprietari della natura” senza conseguenze sugli ecosistemi», insomma pensare all’educazione come fucina per formare persone in grado di elaborare nuovi spazi antropologici per l’umano (p. 43, 44).
Prendere in mano un futuro problematico
Nelle loro riflessioni Laval e Vergne non nascondono l’adesione a un pensiero profondamente progressista, e tuttavia le considerazioni che escono da fonti che si richiamano a impostazioni ideali molto diverse – parliamo del World Economic Forum – non si discostano molto dalle loro analisi proponendo anch’essi un deciso cambio di paradigma.
Klaus Schwab, fondatore e presidente del World Economic Forum, e Thierry Malleret, fondatore del Global Risk Network presso lo stesso istituto – considerando che gli avvenimenti che coinvolgono le vicende umane nel XXI secolo si sviluppano ormai in base a matrici dinamiche che associano interdipendenza, velocità e complessità – prendono spunto dalla pandemia di covid-19 per affermare che essa
sta portando uno sconvolgimento economico di proporzioni monumentali, creando un periodo pericoloso e volatile su più fronti – politicamente, socialmente, geopoliticamente – sollevando profonde preoccupazioni per l’ambiente ed estendendo anche la portata (perniciosa o meno) della tecnologia nelle nostre vite…
Le linee di faglia del mondo – in particolare le divisioni sociali, la mancanza di equità, l’assenza di cooperazione, il fallimento della governance e della leadership globale – sono ora esposte come mai prima d’ora e le persone sentono che è arrivato il momento di reinventarsi. Emergerà un nuovo mondo, i cui contorni sta a noi immaginare e disegnare…
Non si tornerà mai al senso di normalità “spezzata” che prevaleva prima della crisi, perché la pandemia di coronavirus segna un punto di inflessione fondamentale nella nostra traiettoria globale… In realtà, la pandemia sta drammaticamente aggravando pericoli preesistenti che per troppo tempo non abbiamo affrontato adeguatamente. Inoltre, accelererà tendenze preoccupanti che si sono sviluppate per un periodo di tempo prolungato…
Il punto è che dovremmo approfittare di questa opportunità senza precedenti per reimmaginare il nostro mondo, nel tentativo di renderlo migliore e più resiliente quando emergerà dall’altra parte della crisi (Schwab, Malleret, 2020, p. 6, 9, 12).
La trasformazione dell’istruzione e i cinque principi che possono avviarla
Su tutti questi temi Laval e Vergne, come anticipato, hanno proposte da mettere in campo per rendere concreto quanto auspicato, prima di tutto nella difesa dell’idea di istruzione come bene comune e non ambito merciologico.
Sono percorsi impegnativi e che richiederanno tempo ma bisogna «scommettere su pratiche trasformatrici condotte o sostenute da collettivi critici di insegnanti e ricercatori, in collegamento con i principali sindacati dei docenti e delle associazioni di studenti e di genitori. Detto altrimenti, niente accadrà senza lotta politica contro i sostenitori di uno stato autoritario, di destra o di sinistra… È una trasformazione che deve riguardare simultaneamente le relazioni tra istituzioni educative, i poteri nella società, i rapporti pedagogici, i contenuti culturali, l’organizzazione dei poteri interni» (p. 46).
Gli autori sono pienamente coscienti delle difficoltà e degli sforzi per preparare l’educazione democratica di domani e a tal fine, nel corso del loro libro, sottopongono alla discussione i cinque principi che – attraverso l’individuazione e la spiegazione di molte pratiche trasformatrici che li ispirano – possono avviarla.
In ogni capitolo del libro è riservato così lo spazio per illustrare, dibattere criticamente e fare proposte concrete per realizzare ognuno dei cinque principi.
Il primo riguarda la condizione primordiale dell’educazione democratica: la libertà di pensiero la cui traduzione istituzionale si richiama alle libertà accademiche.
Il secondo principio è la ricerca di uguaglianza nell’accesso alla cultura e alla conoscenza. Non basta dichiarare quest’obiettivo. Si tratta di pensarne le condizioni e allestirne effettivamente i mezzi.
Il terzo principio tratta della realizzazione di una cultura comune – una cultura che sia veramente comune per tutti.
Il quarto principio ha a che fare con la definizione di una pedagogia istituente «[non è sufficiente] la critica dei vecchi metodi disciplinari e oppressivi della scuola tradizionale … una pedagogia democratica non può essere isolata dagli obiettivi di uguaglianza sociale e dagli obiettivi culturali della scuola, essa … richiama all’autonomia individuale e alla libera attività collettiva, che devono essere sperimentate e apprese all’interno dell’istituzione educativa» (p. 47)
Il quinto principio concerne l’autogoverno delle istituzioni del sapere. «Ogni istituzione educativa deve essere retta da principi realmente democratici, al contrario dell’attuale rafforzamento della gerarchia e burocrazia centrale… Nel quadro di leggi generali e di una politica generale che mirino alla realizzazione dei principi precedenti, il governo delle scuole dovrà essere affidato a una struttura collegiale del personale, degli utenti e dei cittadini interessati alle questioni educative» (p. 48).
Riferimenti
Ceruti, M., Belusci, F., 2020, Abitare la complessità. La sfida di un destino comune, Milano, Mimesis,
Laval, C., Vergne, F., 2022, Educazione democratica. La rivoluzione dell’istruzione che verrà, Roma, Novalgos.
Michaels, F. S., 2011, Monoculture. How One Story is Changing Everything, Ottawa, Red clover.
Schwab, K., Malleret, T., 2020, Covid-19. The great reset, Zurich, ISBN Agentur Schweiz; trad. it. La grande narrazione. Per un futuro migliore, Milano, Franco Angeli, 2022.