Elizabeth Holmes e il tonfo clamoroso di un bluff miliardario
Spesso le storie iniziano ad affascinarci solo dopo che hanno saputo aprire un qualche varco nei nostri interessi. Altre, invece, ci esplodono immediatamente dentro, lasciandoci quasi attoniti per gli scenari rivelati su ambienti conosciuti ma che si presentano tanto difficili da scrutinare quanto abili nell’orchestrare attorno a loro strategie comunicative sofisticate – per molti versi, tanto stupore dipende proprio dal fatto che certe storie, nelle vite sempre più intra media, si sono dipanate letteralmente sotto i nostri occhi, e che a certe cose eravamo propensi a credere.
La vicenda di Elizabeth Holmes ha avuto quest’effetto su un’enorme quantità di persone. Non solo negli Stati Uniti, dove la protagonista è stata – almeno per 12 anni – un astro nascente della new economy della Silicon Valley, ma un po’ in tutto il mondo, tanto che sono innumerevoli i servizi giornalistici ad essa dedicati – sia nell’ascesa che, ora, nel tonfo – per non parlare dei documentari, serie podcast e (in allestimento) serie tv e film.
Quest’ultimo, annunciato dagli studios di Apple Original Films, sarà diretto e interpretato da Adam Mckey e Jennifer Lawrence, rispettivamente regista e attrice dell’acclamato film Don’t look up, anch’esso volto a evidenziare, come un po’ per le istituzioni coinvolte in questa vicenda, sia l’imperante scarso credito al lavoro e rigore scientifico che l’indifferenza ai nostri comuni destini da parte delle sfere politica, economica e informativa, costantemente impegnate nella ricerca dei propri immediati ritorni.
La luce della ribalta del mondo delle startup
La grande notiziabilità è certamente dovuta alla ricchezza mediatica offerta e sfruttata fin dall’inizio della vicenda dai nuovi processi di costruzione di aziende innovative nell’ambito dell’high-tech, un mondo alimentato dalle opportunità che l’irresistibile ascesa delle tecnologie di rete consentivano per l’avvio o la ridefinizione di attività in quasi ogni genere di campo applicativo.
L’allestimento di infrastrutture specifiche – i cosiddetti incubatori di startup – e di fonti di finanziamento immediato – venture capital, angel investor – hanno contato e continuano a contare sulla possibilità che oggi, grazie alle potenzialità e porosità delle tecnologie informatiche e comunicative della rete internet, una valida idea di impresa riesce ad essere implementata se adeguatamente supportata nella suo sviluppo sia dal team interno che da queste strutture fisiche, consulenziali e finanziarie esterne.
In ciò la Silicon Valley rimane un mito e un modello mondiale – su tali tematiche ci siamo intrattenuti diverse volte in questo spazio (Incubare e sviluppare innovazione, Lo scouting impreditoriale in rete, Le tendenze di Mary).
A guardare le storie di successo di tante startup non si può non convenire che questo nuovo tipo di circuito abbia funzionato in moltissimi casi creando opportunità altrimenti irrangiungibili per tante giovani imprese. La formalizzazione di questa ricetta vincente, un po’ dappertutto nel mondo, è sembrata una delle poche strade percorribili per cercare di governare e indirizzare efficacemente il turbinio di creatività e innovazione in essere nella rete internet. Va detto che questa è una strada in cui il rischio di fallimento è comunque altamente contemplato – e in cui, nella tipica mentalità del mondo dello spettacolo hollywoodiano, si è alla ricerca del film blockbuster che ripaga gli altri nove prodotti che non incassano.
Il mestiere catalizzante della fondatrice
Anche qui, il richiamo di Hollywood non è casuale se pensiamo a come la protagonista, nella importante funzione di guida determinata e instancabile – capace di attrarre interesse e fiducia – abbia interpretato scenograficamente con efficace empatia – con la sua voce baritonale e androgena, la sua figura ieratica, la mise invariabilmente nera, occhi grandi e fissi – la sua nobile missione nell’ambito delle cure mediche, in aiuto a persone in difficoltà e contro i grandi interessi economici.
Riguardando tali interventi e seguendo la postura mentale quasi auto-ipnotica della Holmes si leva costante la domanda di quanto il personaggio sia stato plasmato dalla cultura e dai cliché in voga nella Silicon Valley – la sua figura e presenza era ricercata e coccolata per il valore ispirazionale, e la stessa non lesinava di apparire anche nel periodo in cui, come i fatti racconteranno, la sua storia stesse già declinando verso un tragico epilogo di cui non poteva non essere almeno un poco consapevole, mettendo tra l’altro in difficoltà (a posteriori) le personalità che per lei si spesero pubblicamente.
Per comprendere il clamore di questa storia torneremo indietro nel tempo quando, nel 2003, Elizabeth Holmes – giovane studentessa (19 anni) di ingegneria chimica a Stanford – decide, evidentemente anche ispirata dal comportamento di altri studenti diventati poi famosi imprenditori quali Steve Jobs e Mark Zuchemberg, di interrompere anzitempo (dropout, nel gergo inglese) gli studi universitari ritenendoli non più necessari rispetto all’urgenza – viste le proprie intuizioni imprenditoriali – di fondare una sua società nell’ambito biomedico.
La formidabile ascesa della giovane CEO
L’azienda Real-time cures – ridenominata in seguito Theranos, combinazione dei termini “terapia” e “diagnosi” – riesce nel tempo a raccogliere dagli investitori 700 milioni di dollari arrivando ad essere valutata sul mercato ben 9 miliardi di dollari. Acclamata fin dagli esordi come una promettente e innovatrice star del business, la Holmes viene infine riconosciuta come l’imprenditrice femminile self-made più giovane e ricca nella storia degli Stati Uniti (Forbes, 2014).
In un lembo di territorio così ricco di presenze aziendali high-tech dal respiro internazionale – solo per citare le più nuove, Amazon, Apple, eBay, Facebook, Google, LinkedIn, Netflix, PayPal, Salesforce, Tesla, Yahoo!, Zoom Video Communications – fondate perlopiù da giovani maschi, questa nuova presenza femminile glorifica ancora di più le capacità di questo ecosistema di fare emergere il valore da chiunque dimostri talento e determinazione.
Le due qualità sono sicuramente nelle corde dell’ambiziosa Holmes che, fin da piccola, curiosa e impegnata a progettare scoperte che l’avrebbero di certo arricchita, potè contare sul supporto della sua rispettabile e conosciuta famiglia – cresciuta a Washington, il padre ha rivestito diversi incarichi in varie agenzie governative, dal dipartimento di Stato all’agenzia per lo sviluppo internazionale, mentre la madre, dopo aver lavorato come assistente al Campidoglio, si è ritirata per dedicarsi a lei e al fratello. Seguendo il lavoro del padre alla famiglia toccò di trasferirsi a Houston laddove, dopo un primo periodo di smarrimento, Elizabeth, iscritta nella scuola più prestigiosa della città, diventò una studentessa modello adottando uno stile di comportamento – tanto lavoro e poco sonno – che non abbandonerà più.
Nel momento in cui dovette iniziare a pensare al college pare non aver dubbi sull’indirizzarsi verso Stanford. In effetti, per una ragazza interessata alla scienza e ai computer, e che bramava di diventare imprenditrice, quel college vicino e intrinsecamente legato alla Silicon Valley era una tappa quasi obbligata – sono gli anni del boom di internet, Yahoo, ad esempio, fu fondata in quel campus e proprio in quegli anni si inizia a parlare di due suoi dottorandi che hanno avviato una piccola startup di nome Google.
Tra l’altro, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, Elizabeth e la sua famiglia vissero proprio in California a Palo Alto facendo amicizia con i vicini, la famiglia di Tim Draper, un venture capitalist di terza generazione che sarebbe diventato uno dei più fortunati finanziatori di startup della Valley.
Le idee imprenditoriali
Nel 2002 fu dunque accettata a Stanford dove si fece notare per la capacità di “assimilare e sintetizzare elementi di scienza, ingegneria e tecnologia in modi che non avrei mai immaginato” come dichiarato a posteriori in una deposizione in tribunale dal suo professore Channing Robertson – lo stesso entrerà nel consiglio di amministrazione (come consulente) dell’azienda aperta dalla Holmes.
Ma quali sono le idee imprenditoriali su cui l’imprenditrice in erba puntava così tanto? Tutte vertevano nel campo biomedico, subendo nel tempo evoluzioni e aggiustamenti anche sulla base delle esperienze in cui riusciva ad essere coinvolta a livello di studi, laboratori o corsi esterni. Ad esempio, nel 2003, con i primi casi SARS in Asia, trascorse un periodo di stage estivo – aiutata anche dalla sua conoscenza di base della lingua cinese – al Genome Institute di Singapore testando campioni prelevati dai pazienti con metodi che considerava vecchi e antiquati come siringhe e tamponi nasali.
Una delle prime idee, proposta per un brevetto da trasformare poi in prodotto, fu un cerotto dotato di microaghi che avrebbe allo stesso tempo diagnosticato e curato le condizioni patologiche. Tuttavia, la difficoltà di creare questo strumento la dirottarono poi nell’ambito delle analisi cliniche. L’idea era di costruire una macchina che fungesse da micro-laboratorio – della grandezza di una stampante domestica chiamata Edison, dal cognome del famoso inventore americano Thomas Alva – da poter collocare nei luoghi in cui fosse utile – infine nelle stesse case dei pazienti, oltre che in ospedali da campo militari o elicotteri di trasporto malati – cosicché, estraendo delle micro gocce di sangue tramite una punturina nel dito, queste potessero essere immesse nel micro-laboratorio per essere analizzate all’istante ed ottenere decine e decine di tipi di analisi (70 il primo target, per arrivare a regime a circa 240).
L’impresa avrebbe certamente semplificato il processo e la vita di tutte le persone facilitando la prevenzione e la routine per quelle malate, abbattendo contemporaneamente i costi – la macchina avrebbe direttamente comunicato i risultati anche al medico curante.
Dunque la missione era quella di “democratizzare” la sanità, semplificando e innovandone processi e strumenti per renderli più vicini alle persone e alleviarne le paure – un obiettivo sensibile soprattutto per le limitazioni vissute dalla popolazione americana sottoposta perlopiù alle leggi della sanità privata.
Con tale piglio imprenditoriale fondò così la sua startup. I primi capitali raccolti per finanziarsi provennero da conoscenze di famiglia – l’amico di famiglia Tim Draper fu tra i primi ad aiutarla, e la sua notorietà come investitore di punta nella Silicon Valley giovò parecchio alla causa.
Nelle presentazioni aziendali agli investitori ci si presentava come coloro che applicano al campo della diagnostica i principi della nano- e della micro tecnologia. Come si diceva, nei primi incontri si descrisse il cerotto che avrebbe prelevato il sangue attraverso la pelle del braccio in maniera indolore tramite dei microaghi. A questo era stato dato il nome di TheraPatch e conteneva un microchip capace di analizzare il sangue assumendo – come affermato con una certa vaghezza nella presentazione – una “decisione di controllo del processo” sul dosaggio del farmaco da somministrare al paziente mentre, allo stesso tempo, si accingeva a comunicare in modalità wireless i risultati al medico curante.
La schermatura dei segreti industriali
Non tutti gli investitori incontrati, soprattutto quelli specializzati in campo medico, si dimostrarono entusiasti di quei possibili prodotti senza poter entrare più specificatamente nel loro merito, e spesso la loro insistenza per conoscere i dettagli funzionali e le resistenze ad avere risposte esaurienti li facevano desistere – d’altronde, i processi di valutazione delle startup, per quanto selettivi e critici, vivono su delicati equilibri tra il rischio del finanziamento e la probabilità di investire per primi su imprese che potrebbero moltiplicare a dismisura il loro valore economico.
A posteriori, lo schermo della necessaria protezione dei propri segreti industriali ha giocato un ruolo importante per allungare la vita alla startup – certo, i potenziali investitori, almeno quelli più scientifici e pignoli, avrebbero potuto desistere senza elementi importanti di valutazione, ma il fatto di tenere celati i segreti è comunque uno standard in questo settore e ciò avrebbe potuto dare un vantaggio nella effettiva messa a punto di prodotti ancora non pronti.
E pare essere stata proprio questa una scelta deliberata – vi è un mantra celebrato nel mondo delle startup per spiegare tale strategia Fake it till you make it (Fingi fino a quando non lo ottieni). Certo, una cosa è guadagnare tempo per work-around su prodotti software informativi e comunicativi, altra cosa è per ingegnerizzare apparecchiature che sfidano i più ardui limiti di processi fisici e chimici – per dire, la quantità di sangue umano da analizzare è proporzionale al numero degli esami che si vuole effettuare dato che lo stesso deve avere a che fare con reagenti diversi per cui una volta mischiata quella determinata porzione diviene inutilizzabile. Inoltre, il sangue da estrazione capillare ha delle componenti aggiuntive rispetto a quello venoso, considerato in generale uno standard più puro per la maggior parte delle analisi.
Mentre si guadagnava tempo l’azienda riuscì comunque a migliorare la sua presentabilità all’esterno aggiungendo nel proprio board varie personalità note e influenti quali gli ex segretari di Stato americani Henry Kissinger e George Schultz, l’ex segretario alla Difesa Richard Perry e il generale Jim Mattis, diventato in seguito segretario alla Difesa di Donald Trump – non è difficile comprendere come, con un tale supporto, le persone si convinsero del fatto che i microlaboratori Edison della Theranos già fossero in funzione nelle zone di guerra dell’Iraq e Afganisthan, sulla scia di informazioni fatte artatamente circolare ma mai ufficialmente confermate dall’azienda stessa.
L’azzardata uscita nel mercato dei servizi
Uno dei passaggi chiave della storia di Theranos è comunque l’accordo sottoscritto con una delle più grandi catene di farmacie degli Stati Uniti, Walgreen, accordo che prevedeva la possibilità di poter effettuare esami del sangue con le sue tecnologie presso le farmacie della catena. L’accordo in esclusiva fu firmato nel 2010 ma è solo nel 2013 che si iniziano ad attrezzare i siti – il primo presso Walgreen in Palo Alto, a cui seguiranno i rimanenti 40 in Arizona (2015).
Come è possibile immaginare, una volta costretti a scendere effettivamente in campo – il rispetto dell’accordo fu necessario per poter continuare ad alimentare economicamente l’operatività aziendale – ci si invola su una strada delicata e pericolosa visto che i risultati delle analisi diagnostiche andavano ad incidere sulle cure in atto del paziente. E in effetti, l’impresa inizia a incrinarsi davanti a una serie di preoccupanti discrepanze.
Intanto, non solo i pazienti non potranno perlopiù effettuare le analisi con la tecnica della punturina sul dito, dovendo eseguire il prelievo venoso, ma i risultati delle analisi sono in vari casi contraddittori – le persone che più si lamentano sono quelle costrette a effettuarle ciclicamente dovendo tenere sotto controllo determinati parametri e che, allarmati dalle incongruenze, si vedono costrette, per verificarle, a ripeterle presso altri centri clinici.
La situazione diviene così critica e pericolosa per le implicazioni sanitarie che nella stessa Theranos cominciano a levarsi voci preoccupate e comunque prontamente zittite dalla dirigenza. Per mantenere il controllo si studieranno procedure di segregazione tra reparti diversi, così come ferree regole di non divulgazione o violazione di informazioni aziendali applicate ai contratti di lavoro – il cloma aziendale sarà descritto a posteriori dagli impiegati come paranoico.
La discesa in campo del giornalismo d’inchiesta
Chi effettivamente si prende la pena di lacerare la cortina di silenzio su quanto effettivamente accadeva nei laboratori Walgreen-Theranos è il giornalista d’inchiesta John Carreyrou che, già vincitore di diversi Pulitzer, inizia nel 2015 a scrivere sull’argomento diversi articoli sul Wall Street Journal. Imbeccato da diverse fonti la sua inchiesta rivela come le analisi fossero prodotte da macchine di laboratorio tradizionali (Siemens, Diasorin) acquisite e messe in funzione presso lo stesso laboratorio di Theranos – l’azienda è stata costretta a usarle per far fronte all’accordo con Walgreen visto che non riusciva a far funzionare le sue, e dovette anche modificarle, cosa non consentita, per renderle compatibili con i kit di prelievo predisposti per il micro-laboratorio Edison.
Nonostante i pesanti tentativi di intimidazione – sia verso i testimoni interni, sia verso il giornalista – da parte degli uffici legali di Theranos, guidati nientemeno che da uno dei più noti avvocati statunitensi, Boies Schiller, lo stesso che ha assistito Al Gore durante il riconteggio dei voti della sua elezione presidenziale contro Bush davanti alla Corte Suprema americana, lo scoop andò avanti rivelandosi l’inizio della valanga che ha infine portato alla chiusura definitiva dell’azienda nel 2018.
Nonostante le evidenze e il divieto delle autorità americane di esercitare attività di diagnosi clinica, Elizabeth Holmes ha comunque provato a reagire dicendo di aspettarsi questo genere di attacchi da parte dei poteri forti contrari ai cambiamenti. Tuttavia, avendo dilapidato interamente le risorse degli investitori – si parla di circa un miliardo di dollari – non è riuscita ad evitare la denuncia degli stessi per truffa aprendo di fatto tutta una serie di riflessioni su come sia stato possibile arrivare, nella tanto decantata Silicon Valley, a questa sconcertante epic fail.
Sottomessa a un processo che ha catalizzato i media per mesi, il 26 settembre 2022 la Holmes è stata infine condannata a 20 anni di prigione per frode agli investitori.
Riferimenti
Carreyrou, J., 2019, Una sola goccia di sangue. Segreti e bugie di una startup nella Silicon Valley, Milano, Mondadori.
Alex Gibney, 2019, The Inventor. Out for Blood in Silicon Valley, HBO Documentary.
#435 Elizabeth Holmes, Forbes profile.
The dropout podcast. Elizabeth Holmes on trial, ABC Audio.