Il miraggio delle Silicon Valley
Accade spesso a chi è avvezzo a seguire lo sviluppo dei prodotti digitali di imbattersi in commenti e riflessioni sulla vitalità e abilità di trovare soluzioni e fondare aziende high-tech di successo da parte di alcuni distretti produttivi del globo.
D’altra parte, l’attuale periodo di crisi economica e il continuo posticipo della sua fine stanno certificando la durezza del passaggio nell’era post-industriale, con tutti i suoi effetti di “turbolent environment” sulle economie. La flessibilità e trasversalità delle applicazioni dell’elettronica, del software e delle telecomunicazioni sono allora caratteristiche apprezzate per affrontare con una certa prontezza i cambiamenti e le prospettive, sia nella produzione che nel consumo.
Lo scopo di questo breve intervento sarà quello di contrastare problematicamente le vulgate intorno al fenomeno delle start-up prendendo spunto da due interessanti contributi. Per inciso, sono quelli che ho incontrato, personalmente e casualmente, nelle sole ultime due settimane, e dimostrano probabilmente la forte presenza di una domanda montante e globale per inserirsi nel novero delle nazioni che possono contare su tali munizioni per affrontare un futuro meno travagliato in termini di lavoro e crescita. In gergo, se non problematizzate adeguatamente, si definiscono le strategie semplicistiche del “me too”.
Dunque, anche nell’era di Internet — anzi, ora ancora di più — l’oggetto del desiderio sembra rimanere la Silicon Valley!
In effetti, la bramosia ha origini antiche se pensiamo al viaggio che il presidente francese Charles de Gaulle dedicò negli anni ’60 del XIX secolo ai parchi tecnologici di ricerca e alle fabbriche a sud di S. Francisco; già allora — anche agli occhi dei veri statisti — le filiere dell’elettronica denotavano positivamente le fortune di un paese.
A dirla tutta, il successo del mix di competenze, aziende, istituzioni private e pubbliche di questa area produttiva meravigliò anche gli stessi statunitensi, che provarono a replicare (inutilmente) l’esperienza nelle altre zone del loro sterminato paese. La storia di questi tentativi è stata ben documentata in un articolo del 1966 scritto da Stuart W. Leslie e Robert H. Kargon titolato significativamente Selling Silicon Valley.
Nella continua riproposizione di un tale genere di iniziative nel corso degli anni si consolidò anche una “formula” metodologica dell’esportazione: selezione di un industria “hot”, costruzione di un campus scientifico accanto ad un centro universitario di ricerca, fornitura di sussidi e incentivi per le industrie da localizzare e, ovviamente, creazione di un pool di venture capital…
Per brevità e parzialità avanzerò nell’argomento selezionando due soli aspetti, comunque utili a misurare le chance realizzative, che hanno a che fare con le considerazioni dell’economia classica riguardo a un’adeguata copertura delle iniziative imprenditoriali in termini di capitale umano e di infrastrutture.
Il capitale umano
Il primo flash, che ha risvolti di natura più culturale, è sulla centralità che assume la disponibilità di risorse lavorative preparate per le nuove economie del digitale, così come di ambienti che ne garantiscano la piena agibilità, che nel lessico del sociologo del lavoro Richard Florida, famoso per gli approfondimenti dedicati alle classi creative, significa fornire contesti di vita in cui si sappiano combinare e gestire Tecnologia, Talento e Tolleranza.
In un articolo sulla rivista Technology Review un noto cittadino statunitense di origine indiana che opera sia come imprenditore high-tech che accademico in California, Vivek Wadhwa, prova a spiegare attraverso la sua diretta esperienza l’importanza della combinazione/connessione persone-culture.
Si noti che tra il 1995 e il 2005 il 52,4% delle start-up high-tech nate nella Silicon Valley hanno avuto come fondatori uno o più persone nate fuori dagli Stati Uniti. È un tasso doppio rispetto agli USA visti come unico insieme. Immigrati come me venuti nella Silicon Valley hanno trovato semplice adattarsi e fondersi nella comunità. Siamo riusciti a imparare le regole d’ingaggio, creare delle nostre reti sociali e partecipare come eguali. Ai nostri giorni, i campus di aziende quali Google assomigliano alle Nazioni Unite. Nei loro caffè non si servono hot-dogs ma piatti cinesi e messicani, e troviamo sia il curry del nord che del sud dell’india. Vi è una diversità – in effetti, una sorta di libertà – in cui l’innovazione si sviluppa. La comprensione dei mercati globali che gli immigrati portano con loro, la conoscenza che hanno di discipline diverse e i collegamenti che essi forniscono con i propri paesi di origine hanno dato alla Valley un vantaggio competitivo incontrastabile lungo la sua evoluzione dalla fabbricazione di microcircuiti per la radio e i computer alla produzione di motori di ricerca, social media, dispositivi medicali e tecnologie per l’energia pulita.
Si noti che quando Vivek Wadhwa accenna di passaggio a “una sorta di libertà” ci ricorda implicitamente come non sia tutto codificabile in progetti di “business” e come si aprano dinamiche e tensioni delicate tra competizione e cooperazione in una continua rimodulazione ed estensione del possibile.
La vision statale
Se queste questioni affondano nella capacità statunitense di saper alimentare e gestire il “soft power” di cui il “dreaming California” è sicuramente espressione, un altro importante aspetto è però legato alla iniezione di capitali statali in progetti strategici che generano una domanda “garantita”. Come spiega Edward Jung, fondatore di una delle più importanti aziende di venture capital statunitensi,
i pianificatori economici e i policy-maker che hanno nel mirino i fanalini posteriori della Silicon Valley stanno imparando che non riescono sempre a replicare la cultura imprenditoriale e i meccanismi finanziari che si sviluppano ora con successo da quelle parti. E tuttavia essi hanno dimenticato come l’intero sistema è partito, vale a dire da una domanda garantita, che stimola il genere più ambizioso di innovazione.
Mentre la domanda di innovazione in aree tecnologiche specifiche risponde a bisogni percepiti da una grande quantità di persone,
i progetti governativi quale quello del programma Apollo – che intendeva portare l’uomo sulla luna – guida la domanda verso tecnologie più basilari (che sono semplici invenzioni di cui nessuno fa ancora richiesta) … La stessa Silicon Valley fu costruita su un tale genere di domanda. Il Dipartimento della Difesa mise nel piatto decine di milioni di dollari in contratti per la microelettronica, un impegno che ripagava il rischio degli innovatori e creava infrastrutture che avrebbero supportato la crescita delle start-up … la domanda sponsorizzata dallo Stato … crea un ambiente in cui le diverse soluzioni a problemi tecnici possono proliferare e coesistere … alcuni di questi sforzi di ricerca non portarono alcuna implementazione, ma molti trovarono una via realizzativa in dispositivi specializzati. La diversità di opzione permise un’adozione diffusa preparando la strada alla rivoluzione digitale.
E se nel 1962 vi era un solo cliente di circuiti microelettronici, alla fine di quella decade milioni di consumatori compravano “radio a transistor e calcolatori tascabili” A proposito di “vision”, lo Stato intelligente si prefigge dei fini ma è interessato ad aprire un cammino in cui premia gli sforzi e le ricadute intermedie. Ecco perché, nota maliziosamente Jung “inviare nello spazio una scimmia non poteva essere uno degli ottenimenti più eccitanti”.
Riferimenti
Florida, R., 2003, L’ ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita, valori e professioni, Milano, Mondadori.
“Selling Silicon Valley: Frederick Terman’s Model for Regional Advantage“, Business History Review, Volume 70, Issue 04, Winter 1996, pp 435-472.
“Silicon Valley or Demand Mountain?“, Project Syndicate, 24/7/2013.
“Silicon Valley Can’t Be Copied“, Technology Review, 3/7/2013.