Essere o non essere Charlie Hebdo
All’indomani delle stragi parigine dell’7 e 9 gennaio 2015 è stato grande il senso di trasporto e di solidarietà verso le vittime e la nazione colpite dai terribili eventi, e, almeno in quei frangenti, si è voluto aderire senza indugi agli stessi valori simbolici che, per attività e appartenenze, i morti e feriti rappresentavano per i loro carnefici. Il conio dello slogan Je suis Charlie e la sua popolarità e adesione a livello planetario hanno voluto in fondo trasmettere sia l’impeto partecipativo che la distanza dalla bieca violenza dei terroristi – che in questo caso esercitano richiamandosi al radicalismo islamico.
Allo stesso tempo, e per il caso specifico della quasi intera decimazione della redazione di un settimanale satirico, si è voluto stroncare fortissimamente qualunque pretesa folle di poter giustificare le azioni sanguinarie come una possibile e giusta reazione alla libertà di critica, da tempo funzione cardine dei sistemi democratici, particolarmente in Francia.
All’indomani delle dovute reazioni iniziali, sul tema della libertà di espressione e sui nuovi contesti mediali in cui ci stiamo abituando a vivere e operare conviene tornare più approfonditamente per provare a comprendere meglio i termini della nostra convivenza nella nuova realtà globale.
In effetti, non è sfuggita ai più una certa ritrosia da parte di molte persone, a volte intere nazioni — vedi gli Stati Uniti — ad aderire acriticamente a tali manifestazioni. Il motivo è che questo tipo di reazioni, ideologicamente “simpatetiche”, sembrerebbero dimenticare le debolezze di un impianto discorsivo rigido e astorico.
Se vogliamo partire dallo spartiacque di genere relativo alla pubblicazione delle cosiddette vignette blasfeme, esso ci riporta infatti indietro almeno di qualche anno. Il caso danese del 2005 rese evidente il limite del concetto di libertà d’espressione quando si tratta con argomenti sensibili quali quelli religiosi, e il perdurare di questi atteggiamenti vanificano gli sforzi nel frattempo intrapesi per miscelarne l’applicazione con un certo grado di circospezione.
Il necessario upgrade dei principi
In questi ultimi anni e per le stesse riproposizioni abbiamo assistito alla ripetizione di fatti gravi quali attacchi violenti ad ambasciate e manifestazioni di odio generalizzate, eventi da cui continuano a scaturire azioni letali, nate frequentemente da un uso che ormai potremmo giudicare colposamente inconsapevole delle dinamiche comunicative proprie delle nuove tecnologie di rete.
L’amministrazione americana di Barack Obama ha tentato di agire alacremente per raddrizzare una situazione di rischio continuo, appoggiando nel 2011 una risoluzione ad hoc contro l’intolleranza religiosa proposta dalla OIC (Organization of Islamic Cooperation).
Intervenendo presso l’ONU il 25 settembre 2012, lo stesso Obama ha voluto poi suggellare la svolta con un solenne discorso sul tema della libertà d’espressione e della religione, puntellando l’intervento anche con osservazioni di senso comune.
Quando chiunque con un cellulare può diffondere osservazioni offensive in giro per il mondo tramite un click di un pulsante, la nozione di poter controllare il flusso di informazioni è una presunzione obsoleta.
Per Obama è dunque venuta l’ora di un’assunzione di reciproca responsabilità:
il futuro non deve appartenere a coloro che dileggiano il profeta dell’Islam. E tuttavia, per essere credibili, coloro che condannano queste diffamazioni devono anche condannare l’odio che noi vediamo quando le immagini di Gesù Cristo sono dissacrate, le chiese distrutte o l’Olocausto negato (2012).
Non sono quindi rimasto stupito nel vedere che il giorno dopo le stragi la rivista americana MIT Technology Review, con un intento probabilmente polemico, ha fatto uscire in prima pagina, accanto agli aggiornatissimi articoli di taglio economico, scientifico e tecnologico e senza un commento, se non l’associazione al titolo originale dell’immagine di un’arma da fuoco, un vecchio pezzo scritto due anni prima da Jason Pontin, autore che vanta una lunga carriera pubblicistica nel mondo high-tech — nella blasonata rivista Pontin attualmente riveste sia il ruolo di editore capo che di dirigente editoriale.
La lettera a John Stuart Mill e il principo del danno
Il pezzo scritto 2 anni prima è una lunga lettera sul tema della libertà di espressione indirizzata al filosofo John Stuart Mill (1806-1873), uno dei padri delle teorie liberali, le cui tesi sono a fondamento delle moderne società liberali e del diritto alla libera espressione che troviamo tutelato in molte carte costituzionali, in particolare nel Primo emendamento della Costituzione americana.
Nella missiva l’autore rammenta al filosofo come infine le sue idee abbiamo trionfato in quasi tutto il mondo, anche se rimangono problemi nel conciliare libertà individuali e collettive, soprattutto in campo economico, dove i benefici non appaiono proprio ben distribuiti.
Ciò che rimane invece difficilmente descrivibile per le differenze epocali con il suo mondo sono i cambiamenti tecnologici. I nostri ambienti pullulano ormai di computer – sofisticati congegni che incorporano e rispondono idealmente a quelle macchine su cui ipotizzava il suo contemporaneo Charles Babbage,dispositivi comunicanti tra loro con un meccanismo molto più efficiente e flessibile di quello telegrafico.
In questa sorta di interlocuzione con l’illustre filosofo, Pontin si concentra sul fatto che l’unico limite previsto da Mill alle libertà individuali sia il cosiddetto “principio del danno”, che era stato così decodificato:
l’unica ragione per cui a un uomo è consentito, individualmente o collettivamente, d’interferire con la libertà di azione di qualsiasi altro uomo risiede nell’autodifesa. […] L’unico scopo per cui il potere può venire legittimamente esercitato su qualunque membro di una comunità civile, contro la sua volontà, è per evitare un danno ad altri (1859).
Il problema per Potin è non aver definito bene la nozione di “danno”, per cui esso è facilmente interpretabile in un senso fisico o commerciale, mentre rende più arduo includervi offese personali, religiose o ideologiche.
Il tuo principio, declinato in senso ingegneristico, è riuscito a tenere il passo con il crescere delle dimensioni di scala permesse dall’apparire delle nuove tecnologie e dalle nuove circostanze storiche, con la società globale che si affollava di nuove persone. I critici hanno notato che non è stato mai definito chiaramente il significato di “danno” ma che esso pareva riferirsi ad aspetti fisici. La cosa fu chiaramente insufficiente per gli scopi pratici e “danno” fu ovunque esteso per includervi i danni commerciali, ragione per cui la legge del copyright circostanzia acutamente ciò che può essere citato o estratto senza il permesso dell’autore e dell’editore. In ogni caso, la tua unica verità ha tenuto. Tutto ciò ha funzionato, finora (2013).
Nel frattempo, ricorda Potin, lo spazio di espressione si espande a tutto il mondo soprattutto grazie alle infrastrutture e tecnologie messe a disposizione da aziende americane. Fondamentalmente queste continuano ad applicare gli stessi principi liberali, modulandoli spesso in accordo agli affari, ma anche seguendo, a volte, impostazioni ancora più libertarie per tradizioni culturali quali quelle californiane.
Tuttavia, al riguardo, danno e male non hanno lo stesso significato per tutti: ad esempio, per le femministe la pornografia è violenza contro le donne mentre la libertà di espressione in alcuni paesi è sovversione pura. Ciò accade, ad esempio, mettendo in discussione il partito in Cina o il re in alcuni paesi oppure, per i mussulmani, dilettandosi a rappresentare Allah, che per loro è pura blasfemia.
A tutto ciò le aziende high-tech provano a rispondere facendo attenzione a rispettare le leggi locali o filtrando i contenuti a posteriori nei casi di acclamato dileggio, barcamenandosi difficoltosamente in analisi e interpretazioni rispetto ai principi, stato delle relazioni interstatali, interessi economici, ecc.
Tralasciando le azioni pubblicistiche consapevolmente deliberate, sono invece frequenti i casi in cui utenti delle rete postano un qualcosa che nasce come espressione critica verso certe aspetti e che, destinato a una ristretta cerchia di persone, viene poi ripreso e fatto rimbalzare in altri lidi, acquisendo una rilevanza internazionale che scatena reazioni violente e letali – è il caso del video The Innocence of Muslims rilasciato su youtube nel 2012, che dipingeva il profeta Maometto come un donnaiolo, un omosessuale e anche pedofilo.
Pontin illustra poi altri due esempi recenti di espressività relativi ai servizi Twitter e Reddit che hanno scatenato pericolose controversie, riguardanti, rispettivamente, sia azioni di antisemitismo che pubblicazioni infamanti prendenti di mira adolescenti. Insomma, la sua tesi è che, con i media che adoperiamo, sia impossibile pretendere di dire pubblicamente tutto ciò che individualmente pensiamo senza che vi sia qualcun altro che, allo stesso tempo, non solo non ascolti ma che non rischi (giustamente) di offendersi.
Corteggiare l’abisso
Oltre la ripresa da parte del MIT di un vecchio articolo per illustrare l’impasse dell’attualità, a stimolare il mio intervento ha contribuito anche un commento avanzato da Sami Mahroum, accademico e ricercatore di origine araba operante in Europa.
Aggiungendo la sua voce alla marea degli articoli dedicati agli eventi francesi, ha richiamato la condizione di abisso verso cui rischiamo di declinare.
Se chiudiamo i nostri occhi possiamo pensare che gli attacchi di Parigi hanno mostrato una contraddizione tra Islam e libertà di espressione – e tra mussulmani ed europei. Se li apriamo e iniziamo a guardare alla causa ed effetto, possiamo evitare l’abisso al quale questa ostinata cecità ci invita. Gli attacchi di Parigi hanno preso di mira le persone innocenti di qualsiasi luogo e l’opinione pubblica merita risposte da coloro il cui lavoro è di prevenire che questi incidenti accadano (2015).
Ebbene, questo continuo corteggiamento dell’abisso sembra essere una caratteristica che, noi occidentali, amiamo esercitare e su cui è venuto il tempo di riflettere responsabilmente.
Una delle analisi più poderosa e ficcante su tale aspetto la dobbiamo al filosofo dei media John Durham Peters. Sul tema egli ha pubblicato un libro a mio parere perfettamente centrato, lungimirante e profondo, che riesce ad andare con successo oltre i limiti degli attuali dibattiti e avanzare sagaci suggerimenti (Courting the abyss. Free Speech and the Liberal Tradition, 2005).
Al pari della rivista del MIT, ma ovviamente con molta più modestia, vorrei allora riproporre quanto scrissi alla sua uscita recensendolo, anche perché il libro, purtroppo, non è stato ancora pubblicato in Italia. Conoscere le tesi di questo fine studioso della cultura mediale non può che aiutare a diradare le nebbie e scansare l’abisso.
[Il libro di John Durham Peters è] una riflessione provocatoria che appare oggi straordinariamente preziosa in un mondo infiammato dai tumulti innescati dalle “vignette blasfeme”.
La considerazione critica da cui muove il suo ragionamento è che, mentre facciamo fatica a capire come l’ultima onda digitale stia modificando gli spazi pubblici “planetari”, ci troviamo ad agire quasi acriticamente sulla base di teorie ereditate da un mondo molto diverso da quello attuale, sia per i modi e le forme in cui le idee circolano che per le passioni e gli attori che vi agiscono.
E tuttavia, la gran parte delle analisi e delle difese del principio della libertà di parola sembrano ignorare, o peggio, non conoscere aspetti fondamentali dell’ordine sociale, dell’animo umano o dei mass media.
Chi ha avuto modo di leggere il primo libro di Peters tradotto in Italia (Parlare al vento. Storia dell’idea di comunicazione) può già immaginare la trasversalità, la varietà e la cura delle fonti, il loro aprirsi a un profondo confronto ideale che attinge al meglio del pensiero e delle pratiche che intorno all’argomento la cultura occidentale ha saputo produrre, con il fine di illuminare gli attuali nodi del dibattito e suggerire antidoti.
Nonostante ci siano molti modi per trattare gli ampi problemi politici e morali insiti nel tema, soprattutto riguardo alla comunicazione e ai media, usare dei testi canonici quali le epistole di Paolo di Tarso, l’Areopagitica di Milton o i saggi Teoria dei sentimenti morali e Sulla libertà di Smith e Mill, è un modo per far riemergere quel sostrato morale con cui e su cui la teoria liberale sembra dimenticare di essere cresciuta, contribuendo a rinnovarlo.
Il compito è di leggere la dialettica tra comunicazione e democrazia “vagliando i media come se la filosofia morale contasse e la filosofia morale come se i media contassero”, misurarsi con le relative dinamiche e valutare soluzioni responsabilmente adeguate.
Insieme al precedente lavoro, che aveva come sfondo l’eros e la comunicazione di massa, anche quest’opera si propone di recuperare le profonde tensioni che innervano i new media (“fin dalla cultura greca eros e democrazia viaggiano unite: l’eros è l’assenza mediatizzata di due corpi, la democrazia la presenza mediatizzata di molti corpi”).
[…] L’accusa che Peters muove alla teoria e alle pratiche della libertà d’espressione nella moderna tradizione liberale, accusa che diventa l’asse critico per articolati approfondimenti, è di non tener conto della nostra preferenza – definita satanica in senso miltoniano – a esporci o addirittura sfidare il male, un fatto che consideriamo necessario, in termini di dialettica positiva, per il trionfo finale del bene.
La convinzione di poter “corteggiare l’abisso”, che si ritrova nel pensiero dei teorici liberali, Milton soprattutto, è presente anche in altri pensatori di epoca più antica, da Peters arruolati alla causa liberale per l’apporto dato alla sua matrice filosofica. Nel loro pensiero, tuttavia, la trasgressione, a differenza di Milton, è più un accidente inevitabile che una scelta sensata in un mondo plurale.
Caratteristicamente, Peters inserisce tra quest’ultimi la figura di San Paolo definendolo un laboratorio di saggezza per le sue idee di tolleranza e per il ruolo di snodo tra culture, religioni ed esperienze di vita radicalmente diverse. Forse, sono proprio questi i motivi per i quali l’enigmatica figura di Paolo di Tarso ha il dono di mettere d’accordo filosofi antichi e moderni appartenenti a settori e idee diverse e così contrastanti.
Oltretutto, lamenta Peters, la convinzione del proficuo scontro tra bene e male non è più ancorata a “un programma morale di circospezione rispetto ai danni potenziali del crimine e delle dottrine nefaste”, cosa presente nei teorici originali, attenti a confrontarsi, mediare o anticipare le insidie reali, lontani quindi da tendenze puramente astratte.
La teoria liberale moderna, in particolare, sembra poter fare a meno delle sue radici religiose o comunque del senso del sacro, come se al mondo la religione o il sacro stessero sul punto di svanire e non un’opzione possibile e viva tra le persone.
Questa mancanza di “circospezione morale”, come si diceva, è affiancata da un generale ottundimento rispetto al contesto in cui il libero “mercato delle idee” e la libertà di espressione opera nell’odierno mondo globalizzato (“le condizioni comunicative dei nostri tempi offrono un accesso senza precedenti a rappresentazioni di cose che sono culturalmente contenute nella maggior parte della storia umana: qualunque impegno ad astrarre i diritti non dovrebbe trattenerci dal pensare intelligentemente a queste condizioni”).
In questo mondo globalizzato, infatti, alla posizione liberale, che si rifà al dubbio illuminista proprio della modernità, con la fede nel costante perfezionamento dell’esistenza umana attraverso l’opera della scienza, si affianca il pluralismo culturale.
Vista la molteplicità delle scelte e visioni sul modo di condurre una vita più giusta, esso invece fa a meno della fede nella garanzia di progresso e di emancipazione introducendo il relativismo delle posizioni intellettuali e morali. Se con la prima opzione individuiamo la modernità, con il pluralismo culturale siamo nel post-moderno.
Il fondamentalismo, non necessariamente religioso, completa infine la gamma opzionale, caratterizzandosi con un anti-modernismo che rassicura le persone trovando un argine alle incertezze nelle varie fonti (rivelazioni, scritture, autorità tradizionali).
Tra queste opzioni, dice Peters, si instaura una complessa interazione. Tutte possono rivendicare delle proprie specificità: il punto di vista moderno e post-moderno evidenziano la chiusura mentale del fondamentalismo; quello moderno e quello antimoderno il rifiuto dei post-moderni di affrontare la questione della verità; i post-moderni e gli anti-moderni imputano invece ai sostenitori della modernità la distruttiva alterigia e la sicurezza di sé.
Al contempo, ogni punto di vista ha una meta-analisi riguardo al pluralismo e alla politica di scelta delle opzioni. La scienza moderna ci esorta a testare empiricamente le idee e non ha dubbi di riuscire a provare, tra le dottrine che si affrontano, le più fruttuose.
La visione post-moderna nega che si possa raggiungere una posizione finale in un tale gioco ideologico, e non ha nessuna risposta su come decidere il destino, la volontà, il gusto.
L’anti-modernismo vede in queste forme aperte di decidibilità solo una scusa per non affrontare il meraviglioso richiamo del sacro. Particolare non trascurabile è che a trionfare nel mondo per popolosità, nota Peters, è proprio il fondamentalismo, un fenomeno che sembra esprimere, più che un pre-modernismo, un incontro traumatico con la modernità e che, soprattutto, non va identificato solo con la religione – e solo con una determinata religione essendo presente, ad esempio, nell’Ebraismo, nel Cristianesimo e nell’Islam (attualmente solo certi protestanti americani si definiscono così).
Il fondamentalismo, dunque, non è proprio interpretabile in termini di scontro tra credenti e non credenti, ma tra le diverse credenze.
In tale contesto, si affaccia spesso l’idea di proporre una sorta di mediazione tra posizioni come la scelta più giusta. Tuttavia, dice Peters, ad un esame più attento essa si rivela una soluzione non risolutiva visto che spesso siamo in presenza di scelte a priori, quali assumere che un criterio valutativo sia possibile e che ogni cosa, anche Dio, la passione o la devozione possa essere soggetta ad indagine.
Da un punto di vista razionale, il relativismo culturale sembra obbedire a una sorta di meccanismo auto-delegittimante: se tutto è relativo lo è anche questa affermazione. Affermare, come sembrano fare i postmodernisti, che le grandi narrazioni sono terminate significa mettere in discussione anche questa specie di meta-narrazione su tale nuova tendenza storica, lo stesso genere di privilegio epistemologico che si vuole negare.
Per un punto di vista razionale il fondamentalismo mostra una cecità tenace, un continuo rifiuto a essere in qualche modo ragionevole.
Il sacro è invece inconcepibile per gli scienziati moderni quanto il dibattito aperto per i fedeli di un credo religioso.
A seguire la razionalità critica queste opzioni alternative risulterebbero dunque visioni contraddittorie o insufficienti.
Ovviamente, i tre attori di questo dramma sociale non sono tra di loro in equilibrio in quanto i primi due, da lungo tempo, si ritrovano alleati – i liberali preferiscono chi relativizza, più che assolutizzare, il sacro.
In ogni opzione Peters intravede un sistema morale-intellettuale di regole utili ad affermare le manchevolezze altrui. Il dubbio illuminista può rivelarsi arrogante, come il fondamentalismo, e forse solo il relativismo culturale, se inteso come un programma positivo di apprezzamento delle differenze e come propensione a confrontarsi anche con programmi che prevedono a priori determinate finalità, è abbastanza ospitevole per trattenere la piena babele delle alternative.
Tuttavia, il prezzo del postmodernismo è di rimuovere sia il privilegio della ragione che la forza dei tabù, degradandoli a due rivali tra gli altri. La scienza diviene uno tra i molti sistemi culturali, e la devozione una tra le varietà dell’esperienza umana.
Per i fondamentalisti la razionalità critica è una verità altera e sciocca nella mente umana e il relativismo culturale un modo di trascurare i giudizi morali. E’ dunque l’intera triade di opzioni, a dire il vero già poco omogenea al suo stesso interno, a segnare i contorni ideologici dei dibattiti sulla libertà di espressione: “la tolleranza liberale, la trasgressione culturale e l’offensiva conservatrice: sembra essere questa la dinamica ripetitiva della libertà di espressione nel nostro tempo”.
Se questa è la mappa allora ci si deve rendere disponibili, afferma Peters, a comprendere le opzioni sia come logica di argomentazione che come modi di essere o di vedere (esse hanno “sia un impatto cognitivo che morale dal momento che un ordine non è solamente visto ma impregna tale visione con una nuova verità”).
Per Peters gli ideali liberali vanno difesi ma “in maniera più aggiornata: con una filosofia tragica della storia (invece che ottimistica o miglioristica); con delle basi sociali di solidarietà o compassione (invece che con veli d’ignoranza, norme di deliberazione o altri espedienti equalizzanti); e con una norma comunicativa di ricettività (invece di interattività o dialogo)”.
Questi adeguamenti si spiegano rendendo esplicite, in maniera critica, le condizioni su cui la teoria liberale della libertà d’espressione conta per alimentare e orchestrare il confronto democratico.
Per Peters il progetto liberale attiva delle dinamiche stridenti (tra razionalità e trasgressione, offesa e redenzione, insensibilità della tolleranza e sensibilità allo shock, sado-masochismo intellettuale e sua decodifica ironica, libera circolazione delle idee e pretesa della loro non aggressività) la cui ricomposizione presume un particolare tipo di uomo sociale, dotato di determinati requisiti politico-esistenziali. (Gli stessi requisiti sono parte essenziali del contesto ideologico e operativo delle scienze sociali, per Peters progetto gemello di quello liberale).
Così, ad esempio, la teoria liberale richiede particolari attitudini di freddezza; vive sulla convinzione che la conoscenza sia il migliore metodo per affrontare il male, sulla pubblicità o la luce vivida senza fine della ragione critica, sulla giustezza dell’auto-sospensione etica, sull’impersonalità dello spazio pubblico così come sulla virtù della passività di fronte alle offese.
Insomma, cose che, nell’odierno groviglio della sfera pubblica conflittuale, potrebbero non essere alla portata di tutti, oltre che poco condivisibili o incomprensibili. Per trovare degli antidoti alle tendenze illiberali del liberalismo abbiamo bisogno di riaprirci ad altre considerazioni.
Al senso pragmatico che le collisioni degli interessi devono inevitabilmente venire a compromesso con le ambizioni di modellare il mondo; a dubitare che la conoscenza sia necessariamente la via migliore di affrontare il male; a effettuare la (non semplice) demarcazione delle zone di neutralità religiosa; a considerare prioritario lo spettatore e la comprensione dell’altro (il privilegio del ricevente); a chiedere a chi sa di piegarsi verso l’ignorante, piuttosto che a questo di venire alla conoscenza, rispettando coloro che non sanno o scelgono di non sapere; a celebrare l’impersonalità dell’universale e allo stesso tempo le rivendicazioni personali del particolare; a insistere sull’impersonalità dell’identità; a sentire il privilegio e l’onere della conoscenza applicando delle clausole di auto-limitazione.
Sono alcune delle cose che Paolo di Tarso, colui che “è oltre (o prima) dell’impasse della razionalità critica, del relativismo culturale e del fondamentalismo” si impegnava a fare.
L’insegnamento che da lui ereditiamo, afferma Peters, è che tutto deve essere vagliato agli occhi del presente, perché “il passato è solido, il futuro è gassoso ma il presente è liquido”.
Riferimenti
“Free specch in the era of its technological amplification. A letter to John Stuart Mill about the limits of what may be shown or said on the Web”, MIT Technology Review Magazine, 20/2/2013.
“Charlie and the Anti-Muslim Media Factory“, Project Syndicate.org, 17/1/2015.
Mill, J. S., 1859, Saggio sulla libertà, Milano, Il saggiatore, 2009.
Obama, B., Remarks by the President to the UN General Assembly, 25/9/2012.
Peters, J. D., 2005, Courting the abyss. Free Speech and the Liberal Tradition, Chicago, University Of Chicago Press.
Petullà, L., 2005, L’impasse del dibattito ideale nel nuovo orizzonte mediale.
Wikipedia, Defamation of religion and the United Nations.