È tempo che assistiamo quasi disarmati alla crisi dei modelli democratici tradizionali vedendoli incapaci di affrontare e arginare con efficacia i problemi economici e sociali in cui le persone si dibattono, una condizione che ha il potere di alimentare un circolo vizioso in cui le frustrazioni individuali diventano per altri risorsa utile al raggiungimento dei propri fini politici.
In questo la comunicazione, anche nelle sue nuove forme, sembra diventata un’arma centrale nell’organizzare e indirizzare il risentimento. Qualche analista, ad esempio, ci spiega come
il populismo sarebbe una strategia discorsiva, che coincide in realtà con la politica… [e in cui] il dilemma tra popolo ed élites, tra dominanti e dominati, è ubiquo. Su di esso occorre però allestire un’appropriata costruzione ideologica e dunque un ‘claim‘ di rappresentanza, che additi un nemico comune, ricomponendo i dominati, con i loro disparati motivi di risentimento e le loro domande di giustizia: il popolo è un ‘significante vuoto’, da riempire di volta in volta” (Mastropaolo 2023, p. 303; cfr. Laclau 2008).

Alcuni elementi di questo stato di inquietudine li ritroviamo così nel ragionamento che i primi di dicembre del 2024 Paul Krugman, economista e premio Nobel, ha svolto annunciando la fine della sua collaborazione come editorialista del New York Times – suscitando peraltro un certo clamore (Krugman 2024; Angelini 2024; Sole 24 ore 2024; Allegri 2024).
Aveva iniziato a scrivere di economia per il famoso giornale nel 2000, in un periodo in cui, a suo parere, negli Stati Uniti e nel mondo occidentale si respirava un grande ottimismo. Oggi, terminando il suo impegno, lascia evidentemente trasparire la delusione che i liberal americani vivono dopo il risultato delle recenti elezioni presidenziali, sottolineando il dominio nell’attuale mondo di “rabbia e risentimento”. Non che le cose, a suo dire, prima fossero perfette:
tuttavia, quando ho iniziato a scrivere per questo giornale, le persone si sentivano piuttosto bene riguardo al futuro. Perché questo ottimismo si è incrinato? A mio avviso, abbiamo assistito a un crollo della fiducia nelle élite: il pubblico non ha più fiducia che le persone che gestiscono le cose sappiano cosa stanno facendo, o che possiamo presumere che siano oneste…Non sono solo i governi ad aver perso la fiducia del pubblico. È sorprendente guardare al passato e vedere quanto le banche fossero considerate più favorevolmente prima della crisi finanziaria… E non è passato molto tempo da quando i miliardari della tecnologia erano ampiamente ammirati in tutto lo spettro politico, alcuni raggiungendo lo status di eroi popolari. Ma ora loro e alcuni dei loro prodotti affrontano la disillusione e peggio; l’Australia ha persino vietato l’uso dei social media ai bambini sotto i 16 anni. Il che mi riporta al mio punto che alcune delle persone più risentite in America in questo momento sembrano essere i miliardari arrabbiati”.
Indubbiamente, l’impegno giornalistico di Krugman è coinciso con l’enorme cambiamento del sistema mediatico dovuto all’ascesa di internet, e i suoi riferimenti al ruolo che le piattaforme online, e i suoi padroni, si trovano a giocare nei confronti delle dinamiche pubbliche riguardo ai destini della politica e al clima di risentimento risultano abbastanza centrati. Nel suo ultimo lavoro Ted Striphas sottolinea come gli algoritmi culturali della rete riescono sovente a “monetizzare l’odio” e che
se è vero che i social media sono più di un forum al vetriolo, chi può negare l’atmosfera di ‘normalizzazione della cattiveria pubblica’… di cui si sente l’odore persistente, fosse a volte anche solo un flebile sentore, ogni volta che si va online? Senza sminuire i modi in cui la cultura algoritmica ci assiste nel quotidiano, sembra ragionevole concludere che per certi aspetti fondamentali la soluzione è diventata il problema (2024, p. 237).
Negli ultimi decenni i cambiamenti nel modo di comunicare, informarci e intrattenerci sono stati fenomenali e hanno ristrutturato nel profondo le nostre esperienze estetiche ed espressive, con i nuovi media che ne hanno articolato e ampliato le dimensioni, in un processo in cui ritroviamo incluse la gran parte delle persone.
In questo senso viviamo una vera e propria plenitudine digitale che ha smantellato qualunque gerarchia di valore tra quelle che in passato potevamo definire culture alte e basse offrendo ad ognuno la possibilità di ritrovarsi in una qualche comunità elettiva (Bolter 2020). Tuttavia, uno dei lati più problematici di questa nuova condizione/frammentazione – un vero e proprio nervo scoperto – si registra nella difficoltà di tutelare un’informazione di qualità e a progettare spazi in cui tutti riescano a convergere e dibattere.
In questo senso, le attuali architetture comunicative e la loro governance, sottomesse a logiche per lo più commerciali, si stanno rivelando inadeguate ad alimentare un confronto più generale possibile riguardo ai problemi comuni e ai modi di risolverli tramite una necessaria intermediazione politica mentre, contemporaneamente, i tradizionali strumenti di aiuto nella formazione di un’opinione pubblica (stampa giornalistica, tv e radio pubbliche) si ridimensionano e soffrono una profonda crisi economica.
Per esseri chiari, le attuali società vivono problemi reali – economici, sociali, ambientali – che non possono che riflettersi nei contenuti della comunicazione, e le sue nuove forme hanno il merito di non nasconderle. Ma qui, nel ragionamento di Krugman, pare esserci il rammarico di chi si sente deluso per aver creduto, insieme a molti di noi, che proprio la nuova era mediale potesse portare un avanzamento sui modi in cui sarebbe stato possibile gestire meglio queste vicende nell’interesse generale. Invece, le energie necessarie trovano in essa anche il modo di disgregarsi e dirottare in dinamiche in cui si mettono in pericolo le stesse fondamenta su cui stabilire un confronto condiviso.

Per comprendere meglio l’attuale stato d’animo di un liberal americano vale forse la pena di vedere un film che, nel 2023, ha provocato polemiche e grande scalpore negli Stati Uniti. In Civil War il regista Alex Garland immagina il paese in un’imminente guerra civile – un’idea evidentemente stimolata sia dai tragici eventi del 2021, con l’assalto fisico e simbolico a Capitol Hill, che dai toni e dalle accuse di brogli, complotti e corruzione che vanno avanti da anni da parte dei repubblicani trumpiani.
Ad ogni modo, richiamare la condizione di guerra civile come pericolo incombente – che è più o meno un ritorno ad uno stato di natura del tutti contro tutti – potrebbe essere un’esagerazione solo se ignari di ciò che abbiamo già affrontato in un passato forse un po’ troppo remoto da ricordare.
Il tema della tenuta delle architetture e dei poteri istituzionali – dispositivi normativi che dovrebbero accomunarci – è fondamentale se vogliamo andare al cuore delle odierne inquietudini sfocianti in rabbia e risentimenti perché esse sono nate, ai primordi della nostra modernità, proprio per mitigarle e consentire il dispiegarsi di una convivenza pacifica.
Evidentemente le ideologie individualiste in cui siamo sempre più immersi stanno impedendoci di pensarci come persone che vivono in una trama in cui ragione ed emozione sono intimamente connesse e interdipendenti dalle nostre istituzioni politiche, che dovremmo certamente migliorare ma non distruggere. Pur con tutti i limiti che le varie configurazioni possono avere, esse sono state create per affrontare i risvolti tragici conseguenti a una delle nostre caratteristiche antropologiche più insidiose, il desiderio mimetico (Girard 1972; 1999), assicurandoci la possibilità di convivere in comunità sempre più complesse.
Tempo fa, commentando altri problematici avvenimenti, abbiamo richiamato più volte le riflessioni che il filosofo dei media John Durham Peters (2005) ha sviluppato nei confronti di noi occidentali e della nostra caratteristica di continuare a “corteggiare l’abisso” dando per scontati, ideologicamente, gli equilibri su cui abbiamo fin qui fondato le nostre esistenze. Il suo invito è di valutare sempre i nuovi contesti e il loro grado di pericolo scandagliando alle radici i temi e le soluzioni che, in quel determinato ambito problematico, hanno contrassegnato il nostro cammino sociale.

(credits: Wikipedia)
Ed è proprio a questo fine che il sociologo Stefano Tomelleri (2023) si è impegnato a esplorare i presupposti antropologici e sociologici costitutivi del risentimento scoprendo come il filosofo Thomas Hobbes, ai primordi della nostra modernità, riuscì a mettere in relazione il desiderio di vendetta, rivalità e risentimento tra le persone al risultato del confronto reciproco e dei giochi di potere tra gli uomini inseriti in determinati ordinamenti istituzionali.
Il filosofo inglese scrive Il Leviatano (1651) in un periodo in cui l’Inghilterra è in una guerra civile e gli uomini sembrano ricaduti in uno stato di natura:
Hobbes si serve dell’espressione ‘homo homini lupus’ soprattutto per farci capire che la condizione umana senza un ordinamento politico-istituzionale sarebbe insostenibile. La situazione di violenza dell’umanità non è un evento che appartiene solo a un passato remoto e naturale, bensì nasce da una deriva interna e sempre possibile dei rapporti sociali. Qualsiasi ordinamento politico-istituzionale costituito può sempre precipitare nell’insensata guerra di tutti contro tutti (2023).
Nelle stesse parole di Hobbes:
la natura ha fatto gli uomini così uguali nelle facoltà del corpo e della mente che (…) la differenza tra uomo e uomo non è così considerevole, che un uomo possa di conseguenza reclamare per sé qualche beneficio che un altro non possa pretendere, tanto quanto lui (1651).
Da ciò, nota Tommeleri, nasce la convinzione che vi è un’eguaglianza di diritto, per cui, rispetto all’altro, è possibile avere uguali pretese riguardo a una medesima cosa. Vedendo la condotta degli altri ci si sente legittimati a rivendicare ciò che gli altri desiderano, un comportamento che apre a logiche processuali socialmente rischiose: “gli uomini si battono, dapprima, per una proprietà, per un bene materiale, e poi per la paura di perderlo, e in seguito per un’inezia, anche solo per vanagloria” (2023).
Per Hobbes questa spirale di violenza rischia anche di incrementarsi perché alla presunta eguaglianza di diritto può affiancarsi un’eguaglianza di desideri: “da questa eguaglianza di abilità sorge l’eguaglianza nella speranza di conseguire i nostri fini. E perciò, se due uomini desiderano la stessa cosa, e tuttavia non possono entrambi goderla, diventano nemici” (1651).
È tale combinato disposto a spiegare come l’esperienza sociale umana si caratterizzi per essere allo stesso tempo cognitiva ed emotiva:
A questa guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo, consegue anche questo, che niente può essere ingiusto. Le nozioni di ciò che è retto e di ciò che è torto, della giustizia e dell’ingiustizia non hanno luogo qui. Dove non c’è potere comune, non c’è legge … uno chiama ‘saggezza‘, quel che un altro chiama ‘timore‘, uno ‘crudeltà‘, quel che un altro ‘giustizia‘, uno ‘prodigalità‘, quel che un altro ‘magnanimità‘, ed uno ‘gravità‘, quel che un altro ‘stupidità‘ ecc… I desideri e le altre passioni dell’uomo, in se stessi, non sono peccato. Neppure lo sono le azioni che procedono da quelle passioni, finché non si conosce una legge che le vieta” (1651).
In definitiva, gli ordinamenti politico-istituzionali, spesso così maltrattati e vissuti individualmente come cose distanti e fredde, si rivelano per il vivere in comune collanti e linfe vitali. Come evidenzia Tommelieri, l’analisi hobbesiana della condizione di eguaglianza nello stato di natura ha il pregio di cogliere la pregnanza del rapporto tra emozioni e ordine politico-istituzionale (ordine normativo):
Questo rapporto è all’inizio incerto e indeterminato. Infatti, per Hobbes, non solo senza un potere comune non esiste uomo che possa stabilire ciò che è giusto o ciò che non lo è, ma soprattutto è anche impossibile essere in accordo su ciò che noi stessi percepiamo, sentiamo, proviamo. Senza un potere comune non siamo in grado di giudicare in modo reciproco e unanime le nostre emozioni… Questo aspetto della teoria hobbesiana delle emozioni non è un tratto accessorio rispetto al tema centrale, per cui senza un potere comune non potrebbe esserci un ordine normativo (gli individui, infatti, tendono ad agire l’uno contro l’altro). È in questo legame profondo tra emozioni e ordine normativo che si comprende perché la condizione umana sarebbe intollerabile senza un ordinamento politico-istituzionale (2023).
Riferimenti
Allegri, A., 2024, “Viviamo nell’era del risentimento”, Il giornale.it, 12/12.
Angelini, L., 2024, “Krugman lascia il New York Times dopo 25 anni: l’ultimo editoriale, dall’età dell’ottimismo a quella del risentimento”, Corriere.it, 11/12.
Bolter, J. D., 2020, Plenitudine digitale. Il declino della cultura d’élite e lo scenario contemporaneo dei media, Roma, Minumum Fax.
Garland, A., 2023, Civil War, DNA Films.
Girard, R., 1976, La violenza e il sacro, Milano, Adelphi.
Girard, R., 1999, Il risentimento. Lo scacco del desiderio nell’uomo contemporaneo, Milano, Raffaello Cortina editore.
Hobbes, T., 1651, Il Leviatano, Milano, Bur Rizzoli, edizione digitale 2011.
Krugman, P., 2024, “My Last Column: Finding Hope in an Age of Resentment”, New York Times, 9/12.
Laclau, E., 2008, La ragione populista, Bari, Laterza.
Mastropaolo, A., 2023, Fare la guerra con altri mezzi. Sociologia storica del governo democratico, Bologna, il mulino.
Peters, J. D., 2005, Courting the abyss. Free Speech and the Liberal Tradition, Chicago, University Of Chicago Press.
Sole 24 ore, 2024, Trovare speranza nell’epoca del risentimento: l’ultimo messaggio di Krugman per l’addio al New York Times, 10/12.
Striphas, T., 2024, La cultura algoritmica prima di Internet, Milano-Udine, Mimesis.
Tomelleri, S., 2023, La società del risentimento. Alle origini del malessere contemporaneo, Milano, Meltemi, edizione digitale.