Da Lollipop agli oggetti incantati
Nonostante risulti alquanto sfuggente, e per questo forse altrettanto affascinante, con il lancio dell’iPhone nel 2007 anche chi si occupa di tecnologie della comunicazione si è trovato (giocoforza) a trattare il tema del design.
Nel frattempo, grazie all’esplosione centrifuga dei media digitali nella vita sociale e personale e al moltiplicarsi delle interfacce digitali adoperate, l’argomento è diventato (industrialmente) materia sensibile in termini di differenziazione e capacità attrattiva per rincorrere o anche anticipare i desideri e le necessità delle persone.
Nei fatti, vi è oggi un maggiore stimolo a riflettere sui cambiamenti che le elaborazioni del design digitale ci propongono, partendo anche, come nel nostro caso, da indizi secondari ma significativi nel segnalare quanto velocemente e (quasi) inconsapevolmente, varcando quotidianamente e per centinaia di volte questi portali, ci abituiamo ad abitare e cambiare le nostre realtà esistenziali e sociali.
In realtà, ha buon gioco chi, rammentando i classici spazi umani dell’abitare — casa, lavoro e luoghi pubblici —, parla ormai degli schermi dei dispositivi mobili come del vero terzo spazio in perenne occupazione. Insomma, è veramente difficile trovare cesure spaziali o attività che ci allontanano da un qualche terminale digitale.
Volendo dare un quadro d’insieme, è giusto pensare al design digitale come parte del lavoro più generale a cui il design si dedica, ovvero individuare soluzioni che fluidificano/semplificano, in un dato contesto temporale, le mediazioni/interazioni fra persone e dispositivi/oggetti, all’interno di un gioco in cui l’adattamento e la stimolazione funzionano circolarmente.
Si tratta dunque di gestire e arricchire l’incontro tra esseri umani (dominati da un’alchimia di sentimenti, sensi e razionalità) e artefatti umani (che siano oggetti materiali, meccanismi/procedure di natura diversa ovvero meccanica, elettrica, programmatica) o un mix degli stessi.
Non dovremmo sbagliare ad affermare che una delle chiavi di volta per avere successo in questo ambito di attività, e dunque una delle maggiori difficoltà da superare, riguardi la conoscenza degli elementi da intermediare ma, soprattutto, quello che si condensa dinamicamente (al tempo) come contesto della intermediazione.
Credo sia proprio questo l’aspetto a cui l’esperto di marketing globale e brand della Procter & Gamble, Marc Pritchard, sottintenda dichiarando che “la creatività senza approfondimento non vale nulla” (2014 Logo Trends, 2014).
L’affermazione è inserita in un ragionamento scaturito attorno alla valutazione di creazioni o restyling di loghi aziendali da parte di alcuni designer effettuati nel corso del 2014 e ospitati dal sito specializzato LogoLounge.
LogoLounge è un archivio online in cui i professionisti possono depositare e presentare i propri lavori aggiungendoli a un database di marchi che è alimentato fin dal 2003. In tale sito ogni singolo contributore realizza così una propria vetrina personale che è allo stesso tempo espressione di uno stile che si innesta e confronta sincronicamente con tutti gli altri stili elaborati da designer di ogni parte del mondo.
L’opportunità di raccogliere i lavori con cui diversi creatori provano a trasmettere visivamente mission/valori dei brand associati ai servizi/prodotti proposti dai loro committenti (per lo più aziende), mette il sito nella condizione di poter effettuare annualmente una disamina sull’evoluzioni delle tendenze stilistiche.
Ovviamente, il restyling dei loghi non è estraneo alle tendenze estetiche che influenzano anche il lavoro di elaborazione delle interfacce visuali con cui i sopravanzanti ambienti digitali ci stanno nel frattempo abituando a interagire.
Realtà off e on line: il corpo delle figure, dalla mimesi all’osmosi
Nello specifico, esaminando le tendenze stilistiche dei loghi realizzati nel 2014, ci si fa notare come una delle caratteristiche su cui i designer vanno ingegnandosi riguarda gli aspetti dimensionali che trasmettono più o meno profondità (spessore), come l’aggiunta o meno di orpelli decorativi, e ciò porta, ad esempio, a semplificare le forme o togliere/inserire nelle rappresentazioni visuali ombre producendo figure più o meno piatte (flat).
La considerazione che si fa su questo genere di scelte è che
come con tutte le cose, è una questione di equilibrio. Quando le persone sono spinte troppo verso una certa via, vi è una reazione naturale a ritrarsi. I designer sensibili saranno sempre capaci di apprendere guardando il pendolo che si muove tra desideri/esigenze delle persone e vincoli/possibilità delle tecnologie (LogoLounge, 2014).
In effetti, recentemente si è aperto un dibattito serio e combattivo sulle filosofie implementative che, a livello di design delle interfacce digitali, hanno portato a predilire figure piatte (flat) rispetto alle passate rappresentazioni, esaltanti le dimensione fisiche (profondità), una tecnica denominata scheuromorfica perché richiamanti le forme materiali degli oggetti reali. Per inciso, la parola scheuromorfismo deriva dai termini greci σκεùος (strumento) e μορφή (aspetto) – riportare in digitale elementi propri del mondo reale ha l’intento di facilitarne il riconoscimento.
L’allentamento di questo vincolo sta infine snellendo l’estetiche delle interfacce che, confortate da un utente più cosciente e smaliziato riguardo alle possibilità arricchenti dei nuovi spazi d’interazione, sperimentano sviluppi innovativi.
Nell’ambito di una presentazione sull’ubiquitous media, ho provato a impostare un ragionamento per illustrare come le compenetrazioni tra mondi fisici e realtà online possano essere messe in evidenza proprio attraverso le evoluzioni delle interfacce di interazione digitali, web e altro.
In effetti, è possibile individuare una linea evolutiva in cui le interfacce uomo-macchina sono passate dalle righe di comando al simbolismo della grafica, per poi svoltare verso l’attuale stadio, tendente a gestire experience.
L’attuale abbraccio dei designer della filosofia flat, a scapito di quel continuo rimando alle forme fisiche di una materialità conosciuta, evidenzia dunque sia la familiarità sia l’attesa che le persone ormai hanno verso le esperienze abilitate dalle ibridazioni digitali, quali ad esempio quelle della realtà aumentata.
Tali approcci segnano una cesura rispetto ai richiami mimetici e puntano invece ad attivare un rapporto dinamico e osmotico tra “realtà” fisica analogica e “realtà” digitale. Come ho premesso ed esaminato in un precedente lavoro – che mi permetto di riprendere per comodità – i prodotti della Apple hanno saputo interpretare bene questi passaggi:
[il teorico dei media] Lev Manovich indica come esempio il lavoro svolto dalla Apple nel campo delle interfacce software con il passaggio sempre più spinto nell’elaborare estetiche che fanno appello e stimolano esplicitamente i sensi, piuttosto che solo i processi cognitivi. Al contempo, Manovich richiama il concetto di teatralizzazione e di interazione come esperienza elaborato dalla ricercatrice e designer Brenda Laurel (1991). I computer ci impegnano, richiedono la nostra attività in prima persona e, come nel teatro, ci invitano a rappresentare l’azione e la situazione, in un’opera in cui mente, sensazioni e sentimenti si estendono. Lo studioso amplia il senso dell’estetizzazione dei prodotti informatici inquadrandolo nella più ampia tendenza di una «economia dell’esperienza. (…) Come altre forme di interazione, quella con i dispositivi informatici diviene un’esperienza estetizzata. In effetti, si può dire che ci sono stati tre stadi nello sviluppo delle Graphic User Interface (GUI) – le linee testo dei comandi, le classiche GUI degli anni ’70-’90 e le più sensuali e divertenti interfacce dell’era post OS X possono essere correlate a tre stadi dell’economia consumistica: quella delle merci, dei servizi e delle esperienze. Le interfacce a comandi di linea “forniscono le merci”, vale a dire sono focalizzate sull’utilità e le funzionalità pure. Le GUI aggiungono alle interfacce i “servizi”. Ora, invece, le interfacce diventano “esperienze” (Petullà, 2008).
Lollipop e il material design
Se vi è una cosa su cui è possibile concordare riguardo alle tecnologie digitali nate con internet è la facilità con cui riescono a coinvolgerci in quelli che, per certi versi, possiamo considerare dei veri e propri esperimenti sociali di massa.
Il rilascio del nuovo aggiornamento del sistema operativo Android, versione denominata Lollipop, è appena iniziato e andrà via via a interessare, almeno teoricamente se non vi sono limiti nei singoli dispositivi da aggiornare, l’80% degli smartphone/tablet venduti nel mondo.
Dal punto di vista estetico Lollipop ha l’ambizione di dare una netta sterzata e una ventata innovativa a livello di grafica e interazione per facilitare e dare senso alle nostre esperienze d’uso. L’azienda software che sta dietro ad Android, Google, parla di “material design” per descrivere i principi che ispirano il cambiamento delle sue interfacce per ogni dispositivo utilizzato (smartphone, tablet, pc).
Ma il termine “material”, in questo caso, è tutto pensato all’interno di una realtà digitale diventata ormai carne viva della nostra esistenza per cui l’intenzione è di dare corpo alla malleabilità dei pixel per trattare lo spazio degli schermi con figure stratificate (layer) ben evidenziate (colore, profondità) quando in rilievo sulla superfice in quanto probabile oggetto della prossima interazione, figure vivide che fanno da traino e accompagnano il tocco e azione dell’utente con l’energia/magia di movimenti grafici.
La svolta anti-scheuromorfica è suggellata in varie interviste dal responsabile del progetto, Matias Duarte, ed è evidente già dai 3 tasti che comandano la navigazione o il richiamo delle schermate nella home page del telefono, simboli già minimalisti prima ma che ora diventano delle pure figure geometriche disancorate da un qualche riferimento funzionale.
Per comprendere meglio le fondamenta di ciò che a volte percepiamo come scelte ardite da parte dei designer dobbiamo tornare a indagare le potenzialità che nascono dalle ibridazioni di queste protesi tecniche sensibili e la immaginazione e il corpo della persona. Come ci spiega lo studioso di estetica Pietro Montani, questa specie di amalgama è già inscritta nello statuto fondante della nostra immaginazione e, più specificamente:
nella sua spontanea attitudine a farsi rappresentare e indirizzare dalle protesi tecniche nelle quali la sensibilità umana si prolunga in modo altrettanto spontaneo e costitutivo … La nostra immaginazione ha la tendenza a esternalizzarsi in una tecnica (o in diverse tecniche) e farsi potentemente istruire e guidare nella sua interazione col mondo reale da questi processi di esternalizzazione tecnica senza perdere la sua attitudine creativa, anzi incrementandola. La nostra immaginazione, infatti, è allo stesso titolo riproduttiva (un dispositivo che conserva e richiama ciò che ha conservato), produttiva (un dispositivo che ricombina, integra, progetta e configura) e interattiva (un dispositivo che incide sulla modificazione dell’ambiente facendosi guidare da ciò che trova o da ciò che vi scorge e vi proietta) (2014, p. 12).
L’internet of things e gli oggetti incantati
Ma questo lavoro di approfondimento sul radicamento umano delle protesi tecnologiche interessa i designer anche per trattare con la sopravanzante marea degli oggetti intelligenti e iperconessi della cosiddetta internet delle cose (IoT), la diffusione ubiquiotus negli ambienti e nei corpi di applicazioni e dispositivi computing-supported descritta negli anni ’90 dal tecnologo Mark Weiser, di cui troviamo sempre più esempi concreti in prodotti weareable, health, home, automotive. Ed anche in questo caso possiamo trovare degli spunti per i problemi d’interfacciamento nelle trame dello sviluppo ed evoluzione dei dispositivi mobili.
L’appeal dell’iPhone, che interfaccia il mondo dei dati tramite una presa fisica tattile – e il touch-screen è diventato rapidamente uno standard per tutto il settore dei personal media – ci riporta dunque a considerare i termini e la circolarità del rapporto persone-media/tecnologie-società.
Ritorniamo così alle origini delle riflessioni di Weiser e ai suoi dilemmi estetici sulla relazione tra il mondo separato degli esseri umani, dotati di una loro specifica intelligenza e sensorialità, e quello delle cose a loro esterne ormai munite di intelligenza e sensibilità, una relazione indirizzata verso un rapporto funzionale ed emotivo profondo, che ci apre a nuove dimensioni di vita.
A dire tutta la verità, anche a esperienze che pensavamo superate come l’animismo o l’antropomorfismo, intuizioni proprie delle società primitive, dove vi era la credenza di essere in comunità con l’intero universo. Il ritorno a un mondo concepito come pieno di entità dotate di volontà, intelligenza e memoria, che interagiscono e influenzano le nostre vite, anche, come si pensava originariamente, in maniera deliberata, è dunque una prospettiva che oggi potremmo trovare molto più pertinente (Petullà, 2013).
David Rose, autore del libro Enchanted objects, è un imprenditore, ricercatore e professore del MIT che sta provando a delineare le giuste strategie per affrontare con successo questi nuovi sviluppi.
Seguendolo nei ragionamenti durante le presentazioni del suo ultimo lavoro si sente direttamente la eco di alcuni concetti elaborati da Weiser riguardo alla necessità, da parte del designer, di rendere il rapporto tra oggetti e utente fluido, abbassando al massimo la tensione normalmente richiesta alla gestione dell’interazione.
Il suo consiglio principale per ottenere la migliore sintonizzazione è però di natura prettamente antropologica, ovvero indirizzare designer e imprenditori a creare prodotti e servizi che si focalizzino su desideri ed esigenze umane profonde quali l’onniscenza (desiderio di conoscere tutto), la telepatia (desiderio per la connessione umana diretta e istantanea), salvaguardia (proteggere ed essere protetti), immortalità (essere in salute e vitali), teletrasporto (muoversi senza sforzi), espressività (ideare, creare, giocare).
“Se riuscite a inventare cose che siano in sintonia con impulsi, forze, desideri e fantasie esistenti – quelle che abbiamo avuto per un millennio e che si rivelano attraverso le fiabe, il folklore e la musica popolare – si avranno molte probablità di successo. Io incoraggio imprenditori e inventori ad assicurarsi che siano sintonizzati su una di queste frequenze, e a parlare dei loro prodotti nei termini della soddisfazione di una di queste esigenze” (Radar.oreilly, 2014).
Riferimenti
“2014 Logo Trends”, in LogoLounge.com, 9/5/2014.
“Designing the enchanted future. David Rose on the IoT’s impact on our relationship with technology”, in Radar.oreilly.com, 2/11/2014.
Montani, P., 2014, Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva, Milano, Raffaello Cortina Editore.
Petullà, L., 2008, Media e computer liquidi. Le dimensioni dell’ubiquitous computing e la ricattura del mondo, Milano, Lampi di stampa.
Petullà, L., 2013, “Ubiquitous media. Il futuro che viviamo” in Borrelli, D., Gravila, M. (a cura), Media che cambiano, parole che restano, Milano, Franco Angeli.
Rose, D., 2014, Enchanted Objects. Design, Human Desire, and the Internet of Things, New York, Scribner.