Recensione del libro “Courting the abyss. Free Speech and the Liberal Tradition” di John Durham Peters
La concezione della libertà di espressione nella tradizione liberale è il tema dell’ultimo libro di J. D. Peters, una riflessione provocatoria che appare oggi straordinariamente preziosa in un mondo infiammato dai tumulti innescati dalle “vignette blasfeme”. La considerazione critica da cui muove il suo ragionamento è che, mentre facciamo fatica a capire come l’ultima onda digitale stia modificando gli spazi pubblici “planetari”, ci troviamo ad agire quasi acriticamente sulla base di teorie ereditate da un mondo molto diverso da quello attuale, sia per i modi e le forme in cui le idee circolano che per le passioni e gli attori che vi agiscono.
E tuttavia, la gran parte delle analisi e delle difese del principio della libertà di parola sembrano ignorare, o peggio, non conoscere aspetti fondamentali dell’ordine sociale, dell’animo umano o dei mass media.
Chi ha avuto modo di leggere il primo libro di Peters tradotto in Italia (Parlare al vento. Storia dell’idea di comunicazione) può già immaginare la trasversalità, la varietà e la cura delle fonti, il loro aprirsi a un profondo confronto ideale che attinge al meglio del pensiero e delle pratiche che intorno all’argomento la cultura occidentale ha saputo produrre, con il fine di illuminare gli attuali nodi del dibattito e suggerire antidoti.
Nonostante ci siano molti modi per trattare gli ampi problemi politici e morali insiti nel tema, soprattutto riguardo alla comunicazione e ai media, usare dei testi canonici quali le epistole di Paolo di Tarso, l’Areopagitica di Milton o i saggi Teoria dei sentimenti morali e Sulla libertà di Smith e Mill è un modo per far riemergere quel sostrato morale con cui e su cui la teoria liberale sembra dimenticare di essere cresciuta, contribuendo a rinnovarlo.
Il compito allora è di leggere la dialettica tra comunicazione e democrazia “vagliando i media come se la filosofia morale contasse e la filosofia morale come se i media contassero”, misurarsi con le relative dinamiche e valutare soluzioni responsabilmente adeguate. Insieme al precedente lavoro, che aveva come sfondo l’eros e la comunicazione di massa, anche quest’opera si propone di recuperare le profonde tensioni che innervano i new media (“fin dalla cultura greca eros e democrazia viaggiano unite: l’eros è l’assenza mediatizzata di due corpi, la democrazia la presenza mediatizzata di molti corpi”).
Caratteristica peculiare di questo lavoro è la feconda sfaccettatura discorsiva dovuta alle frequenti immersioni in aspetti tematici che sottendono degli snodi teorici morali (“il dibattito non può riguardare solo le migliori argomentazioni ma anche il modo migliore di sistemare gli enigmi morali”). Da questo punto di vista il libro si presenta più come una sorta di iper-testo ricco di spunti e percorsi da leggere anche in maniera indipendente una volta inquadrati nel framework che delinea l’odierna impasse, che l’autore tratteggia con la consueta maestria.
L’accusa che Peters muove alla teoria e alle pratiche della libertà d’espressione nella moderna tradizione liberale, accusa che diventa l’asse critico per articolati approfondimenti, è di non tener conto della nostra preferenza, definita dall’auore satanica in senso miltoniano, a esporci o addirittura sfidare il male. È questo un fatto che consideriamo necessario, in termini di dialettica positiva, per il trionfo finale del bene.
La convinzione di poter “corteggiare l’abisso”, che si ritrova nel pensiero dei teorici liberali, Milton soprattutto, è presente anche in altri intellettuali di epoca più antica, da Peters arruolati alla causa liberale per l’apporto dato alla sua matrice filosofica. Nel loro pensiero, tuttavia, la trasgressione, a differenza di Milton, è più un accidente inevitabile che una scelta sensata in un mondo che è plurale. Caratteristicamente, Peters inserisce tra quest’ultimi la figura di San Paolo definendolo un laboratorio di saggezza per le sue idee di tolleranza e per il ruolo di snodo tra culture, religioni ed esperienze di vita radicalmente diverse. Sono proprio questi forse i motivi per i quali l’enigmatica figura di Paolo di Tarso ha il dono di mettere d’accordo filosofi antichi e moderni appartenenti a settori e idee diverse e così contrastanti.
Oltretutto, lamenta Peters, la convinzione del proficuo scontro tra bene e male non è più ancorata a “un programma morale di circospezione rispetto ai danni potenziali del crimine e delle dottrine nefaste”, cosa presente nei teorici originali, attenti a confrontarsi, mediare o anticipare le insidie reali, lontani quindi da tendenze puramente astratte.
La teoria liberale moderna, in particolare, sembra poter fare a meno delle sue radici religiose o comunque del senso del sacro, come se al mondo la religione o il sacro stessero sul punto di svanire e non un’opzione possibile e viva tra le persone. Questa mancanza di “circospezione morale”, come si diceva, è affiancata da un generale ottundimento rispetto al contesto in cui il libero “mercato delle idee” e la libertà di espressione opera nell’odierno mondo globalizzato: “le condizioni comunicative dei nostri tempi offrono un accesso senza precedenti a rappresentazioni di cose che sono culturalmente contenute nella maggior parte della storia umana: qualunque impegno ad astrarre i diritti non dovrebbe trattenerci dal pensare intelligentemente a queste condizioni”.
In questo mondo globalizzato, infatti, alla posizione liberale, che si rifà al dubbio illuminista proprio della modernità, con la fede nel costante perfezionamento dell’esistenza umana attraverso l’opera della scienza, si affianca il pluralismo culturale. Vista la molteplicità delle scelte e visioni sul modo di condurre una vita più giusta, esso vuole fare a meno della fede nella garanzia di progresso e di emancipazione, introducendo il relativismo delle posizioni intellettuali e morali.
Se con la prima opzione individuiamo la modernità, con il pluralismo culturale siamo nel post-moderno. Il fondamentalismo, non necessariamente religioso, completa infine la gamma opzionale, caratterizzandosi con un anti-modernismo che rassicura le persone trovando un argine alle incertezze nelle varie fonti (rivelazioni, scritture, autorità tradizionali).
Tra queste opzioni, dice Peters, si instaura una complessa interazione. Tutte possono rivendicare delle proprie specificità: i punti di vista moderno e post-moderno evidenziano la chiusura mentale del fondamentalismo; quello moderno e quello antimoderno il rifiuto dei post-moderni di affrontare la questione della verità; i post-moderni e gli anti-moderni imputano invece ai sostenitori della modernità una distruttiva alterigia e la sicurezza di sé.
Al contempo, ogni punto di vista ha una meta-analisi riguardo al pluralismo e alla politica di scelta delle opzioni. La scienza moderna ci esorta a testare empiricamente le idee e non ha dubbi di riuscire a provare, tra le dottrine che si affrontano, le più fruttuose. La visione post-moderna nega che si possa raggiungere una posizione finale in un tale gioco ideologico, e non ha nessuna risposta su come decidere il destino, la volontà, il gusto. L’anti-modernismo vede invece in queste forme aperte di decidibilità solo una scusa per non affrontare il meraviglioso richiamo del sacro.
Come nota Peters è che a trionfare nel mondo per popolosità, particolare non trascurabile, è il fondamentalismo, vale a dire un fenomeno che sembra esprimere, più che un pre-modernismo, un incontro traumatico con la modernità. Ma, soprattutto, anche se attualmente solo certi protestanti americani si definiscono così, il fondamentalismo non va identificato solo con la religione, e solo con una determinata religione, essendo presente, ad esempio, nell’Ebraismo, nel Cristianesimo e nell’Islam. Esso, dunque, non è proprio interpretabile in termini di scontro tra credenti e non credenti, ma tra le diverse credenze.
In tale contesto, si affaccia spesso l’idea di proporre una sorta di mediazione tra posizioni indicandola come la scelta più giusta. Tuttavia, dice Peters, a un esame più attento essa si rivela una soluzione non risolutiva visto che spesso siamo in presenza di scelte aprioristiche, quali assumere che un criterio valutativo sia possibile e che ogni cosa, anche Dio, la passione o la devozione possa essere soggetta a indagine.
Da un punto di vista razionale, il relativismo culturale sembra obbedire a una sorta di meccanismo auto-delegittimante: se tutto è relativo lo è anche questa affermazione. Dire, come sembrano fare i postmodernisti, che le grandi narrazioni sono terminate significa mettere in discussione anche questa specie di meta-narrazione su tale nuova tendenza storica, lo stesso genere di privilegio epistemologico che si vuole negare.
Per un punto di vista razionale il fondamentalismo mostra una cecità tenace, un continuo rifiuto a essere in qualche modo ragionevole. Il sacro è inconcepibile per gli scienziati moderni quanto il dibattito aperto per i fedeli di un credo religioso. A seguire la razionalità critica queste opzioni alternative risulterebbero dunque visioni contraddittorie o insufficienti. Ovviamente, i tre attori di questo dramma sociale non sono tra di loro in equilibrio in quanto i primi due, da lungo tempo, si ritrovano alleati: i liberali preferiscono chi relativizza, più che assolutizzare, il sacro.
In ogni opzione Peters intravede un sistema morale-intellettuale di regole utili ad affermare le manchevolezze altrui. Il dubbio illuminista può rivelarsi arrogante, come il fondamentalismo, e forse solo il relativismo culturale, se inteso come un programma positivo di apprezzamento delle differenze e come propensione a confrontarsi anche con programmi che prevedono a priori determinate finalità, è abbastanza ospitevole per trattenere la piena babele delle alternative.
Tuttavia, il prezzo del postmodernismo è di rimuovere sia il privilegio della ragione che la forza dei tabù, degradandoli a due rivali tra gli altri. La scienza diviene uno tra i molti sistemi culturali e la devozione una tra le varietà dell’esperienza umana. Per i fondamentalisti la razionalità critica è una verità altera e sciocca nella mente umana e il relativismo culturale un modo di trascurare i giudizi morali.
È dunque l’intera triade di opzioni, a dire il vero già poco omogenea al suo stesso interno, a segnare i contorni ideologici dei dibattiti sulla libertà di espressione: “la tolleranza liberale, la trasgressione culturale e l’offensiva conservatrice: sembra essere questa la dinamica ripetitiva della libertà di espressione nel nostro tempo”.
Se questa è la mappa, afferma Peters, allora ci si deve rendere disponibili a comprendere le opzioni sia come logica di argomentazione che come modi di essere o di vedere: esse hanno “sia un impatto cognitivo che morale dal momento che un ordine non è solamente visto ma impregna tale visione con una nuova verità”.
Per Peters gli ideali liberali vanno difesi ma “in maniera più aggiornata: con una filosofia tragica della storia (invece che ottimistica o miglioristica); con delle basi sociali di solidarietà o compassione (invece che con veli d’ignoranza, norme di deliberazione o altri espedienti equalizzanti); e con una norma comunicativa di ricettività (invece di interattività o dialogo)”.
Questi adeguamenti si spiegano rendendo esplicite, in maniera critica, le condizioni su cui la teoria liberale della libertà d’espressione conta per alimentare e orchestrare il confronto democratico.
Per Peters il progetto liberale attiva delle dinamiche stridenti tra razionalità e trasgressione, offesa e redenzione, insensibilità della tolleranza e sensibilità allo shock, sado-masochismo intellettuale e sua decodifica ironica, libera circolazione delle idee e pretesa della loro non aggressività.
Un qualche livello di ricomposizione presume un particolare tipo di uomo sociale, dotato di determinati requisiti politico-esistenziali. (Gli stessi requisiti sono parte essenziali del contesto ideologico e operativo delle scienze sociali, per Peters progetto gemello di quello liberale). Così, ad esempio, la teoria liberale richiede particolari attitudini di freddezza; vive sulla convinzione che la conoscenza sia il migliore metodo per affrontare il male, sulla pubblicità o la luce vivida senza fine della ragione critica, sulla giustezza dell’auto-sospensione etica, sull’impersonalità dello spazio pubblico così come sulla virtù della passività di fronte alle offese.
Insomma, attitudini e atteggiamenti che, nell’odierno groviglio della sfera pubblica conflittuale, potrebbero non essere alla portata di tutti, oltre che poco condivisibili o incomprensibili. Per trovare degli antidoti alle tendenze illiberali del liberalismo abbiamo bisogno di riaprirci ad altre considerazioni. Al senso pragmatico che le collisioni degli interessi devono inevitabilmente venire a compromesso con le ambizioni di modellare il mondo; a dubitare che la conoscenza sia necessariamente la via migliore di affrontare il male; a effettuare la (non semplice) demarcazione delle zone di neutralità religiosa; a considerare prioritario lo spettatore e la comprensione dell’altro (il privilegio del ricevente); a chiedere a chi sa di piegarsi verso l’ignorante, piuttosto che a questo di venire alla conoscenza, rispettando coloro che non sanno o scelgono di non sapere; a celebrare l’impersonalità dell’universale e allo stesso tempo le rivendicazioni personali del particolare; a insistere sull’impersonalità dell’identità; a sentire il privilegio e l’onere della conoscenza applicando delle clausole di auto-limitazione.
Sono alcune delle cose che Paolo di Tarso, colui che “è oltre (o prima) dell’impasse della razionalità critica, del relativismo culturale e del fondamentalismo” si impegnava a fare. L’insegnamento che da lui ereditiamo, afferma Peters, è che tutto deve essere vagliato agli occhi del presente, perché “il passato è solido, il futuro è gassoso ma il presente è liquido”.
Titolo: Courting the abyss. Free Speech and the Liberal Tradition
Autore: John Durham Peters
Editore: University Of Chicago Press
Pagg. 316
Anno : 2005