Origini ed evoluzione
Una delle tesi più interessanti sulle tecniche pubblicitarie e di marketing ci spiega come la loro nascita scaturisca dalla reazione ad uno stato avanzante di crisi di controllo (Beniger, 1986). La forte spinta industriale dell’Ottocento potenziò enormemente una capacità produttiva che, improvvisamente, si trovò nelle condizione di dover e/o poter allargare il raggio della vendita, espandendo gli orizzonti del mercato e del consumo. Il marketing e l’advertising si posero il problema di studiare ed elaborare se e come far incontrare e collimare gli interessi ormai “diffusi” di produttori e consumatori.
A distanza di secoli possiamo dire che il marketing ha guadagnato stima e dignità riguardo al compito originario. Sull’efficacia della pubblicità, invece, i pareri sono meno concordi se ancora oggi vediamo come continui ad imperare il detto spray and pray. Le chance di scrollarsi di dosso questo eterno scetticismo sull’effettiva capacità di agganciare con cognizione e tempismo le puntuali esigenze della potenziale utenza sono però di molto aumentate con la diffusione e utilizzazione della comunicazione online.
Iniziando questa riflessione una considerazione va fatta su ciò che abbiamo nel frattempo sperimentato: dove vi è la possibilità di trovare ambienti/eventi polarizzanti un’umana attenzione vi è ormai certezza di imbattersi in qualche forma di consiglio all’acquisto elaborata dalle strategie del marketing. In effetti, l’attenzione sollecitata dal bisogno informativo e di vario intrattenimento servita per lo più dai media classici quali giornali, radio e televisione si è rivelata un’attrattiva poderosa per gli investimenti pubblicitari, diventati poi per alcuni l’architrave della loro stessa sopravvivenza.
Lo stesso andazzo si sta perpetuando con i nuovi media, soprattutto alla luce della nostra tendenza a dimorarvi abitualmente vivendoli attraverso il largo spettro di dispositivi fissi e mobili utilizzati senza cesure di discontinuità in termini di attività o anche di solo accompagnamento corporeo. E su (e da) questo nuovo contesto di mezzi e abitudini che stanno proliferando ragionamenti e modi di operare che sembrano convincerci che sia ormai giunto il momento di veder avverata l’originaria speranza di poter lavorare sul cortocircuito tra desiderio e soddisfacimento immediato del consumatore.
La storia
Il decollo del web negli anni Novanta del XX secolo ha innescato cambiamenti profondi nella filiera dell’advertising, ovvero nei modi di creare, gestire, comprare o vendere la pubblicità. L’ingresso delle nuove tecnologie mediali in questi segmenti di attività ha immesso così tanta innovazione da richiedere per ognuno di essi specifici approfondimenti. Tuttavia, un riassunto delle tappe fondamentali che la trazione digitale ha innestato nel corpo tradizionale della pubblicità può semplificare la comprensione degli sviluppi e le sue continue e complesse ramificazioni funzionali ed estetiche.
Non considerando la posta elettronica, che rimane ancora uno dei canali più efficaci per agganciare e proporre servizi e prodotti a persone always-on impegnate a controllare dai vari dispositivi i propri messaggi personali (McKinsey, 2014), dobbiamo tornare all’anno 1993 per registrare le prime tecniche di pubblicità online.
Il Global Network Navigator, un sito internet commerciale successivamente acquisito dal grande provider statunitense di servizi internet America On Line (AOL), è il primo editore a offrire sulle proprie pagine web dei clickable ads consistenti in link che rimandavano al sito dello sponsor.
La nascita sistematica del fenomeno è però generalmente attribuita alla nota rivista americana (Hot) Wired che, a partire dal 1994, inizia a vendere sulla propria pagina web uno spazio rettangolare (denominato banner) alla compagnia telefonica AT&T (Kaye, Medoff, 2001). Il prezzo del servizio è commisurato al numero di impression (visioni) a cui sono esposte le persone che visitano la pagina, un modello di misurazione del brand advertising che resiste tuttora in quanto consente una comoda comparazione con il funzionamento e la gestione pubblicitaria in essere nei media più tradizionali.
In termini di evoluzione dei modelli di pagamento, alle visioni pagate a un prezzo unitario per un numero di impression pari a mille – il CPM (Cost Per Mille) – è stato successivamente affiancato il CPC (Cost Per Click).
Nello specifico, fu la Procter & Gamble che per prima (1996) riuscì a negoziare con la società che gestiva il portale Yahoo! il pagamento delle sole effettive interazioni, riuscendo così ad allinearsi con le pratiche garanti di un più diretto riscontro del contatto con il consumatore finale quali il servizio postale e il telefono.
La perenne ossessione dello spray and pray e le nuove potenzialità di coinvolgimento del consumatore hanno permesso infine di poter pretendere anche una terza e più stringente modalità di pagamento. Con il Cost Per Action o Acquisition (CPA) il prezzo è legato all’esecuzione di quelle specifiche azioni sollecitate dalla pubblicità (call to action) ed è questa l’ulteriore evoluzione introdotta negli ultimi anni (2006). La modalità di pagamento CPA si attaglia perfettamente alle formule denominate lead generation, includenti tutte quelle tecniche (raccolta di informazioni demografiche, referenziali e/o comportamentali) miranti a individuare i potenziali clienti o stabilire contatti con persone realmente interessate.
Ad ogni modo, la pubblicità online basata sulle vision inaugura, per livello di diffusione, un filone importante e di peso denominato display adversting che, oltre al banner, comprende diversi format quali la sponsorship (elementi visivi di branding su spazi editoriali altrui, ad esempio una presenza distintiva nello sfondo di una pagina web), il rich media (messaggi incorporanti animazioni, suoni e interattività di qualunque genere), il digital video (contenuti streaming, soprattutto live, che includono, spesso all’inizio, video clip promozionali).
Nello stesso periodo in cui si afferma il display advertising nasce un’altra tipologia pubblicitaria altrettanto (e in prospettiva molto più) importante, il search advertising – le due categorie si contendono l’egemonia economica dell’intero scenario della pubblicità online, con rapporti di forza variabili ma sempre più favorevoli alla seconda nata.
Il crescente affollamento del web in termini di presenze e contenuti necessita infatti di strumenti di ricerca per navigare i milioni e (poi) miliardi di pagine di cui si compone il world wide web. I contenuti iniziano quindi ad essere scandagliati sistematicamente da aziende tramite (ro)bot software automatizzati che navigano, catturano e catalogano le stringhe di testo delle pagine web creandone indici richiamabili, un lavoro incessante che ha lo scopo di offrire servizi di individuazione e indirizzamento delle informazioni che diventano rintracciabili grazie alla digitazione di parole chiave immesse in appositi portali.
Anche questi portali puntano inizialmente sul display advertising accorgendosi però che, nella loro funzionalità di intermediazione, l’intrattenimento degli eyeball mal si concilia con la fretta dell’utenza di approdare all’agognato contenuto. Il search advertising denota in effetti caratteristiche promettenti a livello di guadagni per la sua capacità di essere vicino all’urgenza e alla puntualità informativa esigiti dal fruitore e in contatto diretto con gli specifici produttori.
Allo stesso tempo, il fornitore del servizio di searching ha il problema di dover articolare velocemente i risultati per essere sperimentato positivamente in termini di efficacia. Partendo dal grande vantaggio di potersi organizzare conoscendo l’intento delle persone, il search advertising cerca di massimizzare le aree espositive vendibili attorno al nucleo essenziale del prodotto dei servizi di ricerca, vale a dire la lista/pagina (Search Engine Result Page, SERP) degli indirizzi web (link) ordinati (rank) per rilevanza contenutistica sulla base della parola chiave ricercata.
I cosiddetti risultati organici, che dovrebbero essere ordinati solo sulla base della loro rilevanza contenutistica, diventano allora una sorta di garanzia del servizio purché scevri dal dubbio che la loro presentazione sia frutto di interessi distorsivi. Nelle aree collaterali e sulla base di un posizionamento visivo più o meno strategico (in alto, a lato, ecc.) sono invece inserite liste di contenuti comunque pertinenti la ricerca, anche in un senso più ampio (contextual search), ma presenti perché paganti (paid listing).
I contenuti sponsorizzati diventano uno strumento di marketing molto utilizzato per promuovere un brand/prodotto o lanciarne di nuovi attraverso campagne pubblicitarie mirate che drenano traffico sulle landing page dei servizi/prodotti. Al contempo, esse richiedono, a chi vuole pubblicizzare i propri prodotti/servizi, sia abilità nell’agganciarsi agli specifici termini di ricerca usati dall’utenza, sia impegno di budget per far prevalere i propri messaggi rispetto a quanto i suoi stessi competitori sono disponibili a pagare per ottenere gli stessi spazi.
In effetti, i provider dei servizi di searching instaurano da subito meccanismi programmatici di selezione delle pubblicità proposte basati su logiche d’asta. Inoltre, pagare il fornitore di servizi di ricerca per avere la garanzia che i propri contenuti/negozi/servizi, annegati nel mare magnum di internet, siano comunque indicizzati e presenti nel loro data base – i cosiddetti servizi di paid inclusion – diventa un’ulteriore fonte di guadagno non essendoci sicurezza che tutti i contenuti su internet, nel lavoro routinario dei software automatizzati (web crawler), riescano ad essere scandagliati.
L’ascesa e la competizione dei filoni display e search sono comunque materia controversa a livello di analisi e riscontri sull’attribuzione dell’efficacia quando si pretende di tener conto dell’intero corso del processo decisionale del consumatore. Le pratiche di ricerca online sono ormai il prezzemolo di ogni attività, ma le scelte accadono anche per l’influenza di stimoli precedenti per cui, in definitiva, vi è sempre la possibilità che le due modalità pubblicitarie si aiutino reciprocamente (Kireyef et al, 2013).
Per completezza, chiuderemo riportando il formato pubblicitario derivante dai tradizionali sistemi degli annunci definito classifieds and auctions. In molti casi, questo tipo di pubblicità diventa il vero e proprio contenuto editoriale di un sito – il più famoso in assoluto è il frequentatissimo sito Craigslist (USA) ma ciò accade, ad esempio, anche nei servizi online di comparazione di prodotti/prezzi o liste di offerte/servizi (lavoro, case, automobili, elettronica di consumo, aste, pagine gialle, ecc.).
In ogni caso, tale tipologia di annunci pubblicitari hanno rappresentato nel tempo anche il 40% delle entrate per i media della stampa e, da questo punto di vista, internet – con la prontezza e disponibilità delle sue applicazioni e le sue dinamiche interattive, espositive ed aggregative orizzontali con cui rende facile l’incontro tra curiosità e informazioni – ne ha prosciugato rapidamente le fonti. In fondo, questa è l’unica tipologia di pubblicità che le persone attivamente cercano, mentre generalmente è la pubblicità che si impegna a cercare le persone (Fletcher, 2010).
Il potere degli algoritmi
La complessità dovuta alla natura poliedrica degli esseri umani, soprattutto in termini di caratteristiche sociali, culturali e psicologiche, ha sempre reso il lavoro della pubblicità difficile e, al contempo, affascinante. In effetti, la sollecitazione o finalizzazione di relazioni commerciali sono diventate un mestiere proprio in ragione della possibilità di poter contare su una gamma di esigenze vitali che, nelle intensificate esperienzialità e rimodulazioni valoriali delle società moderne, rivendicano una presa tanto nelle categorie dell’utile che in quelle del cosiddetto superfluo.
Alla luce di ciò appare chiaro come anche l’advertising online diventi un tassello di un movimento più grande in cui (e con cui) operare in ragione delle sue peculiarità. L’espansione dell’individualismo di rete, inteso come libertà delle persone di gestire o attivare contatti con gli altri soggetti, gruppi o interessi presenti negli ambienti online, così come di potersi immergere direttamente in quasi ogni genere di attività, rappresenta una novità rilevante.
Da una parte vi è la speranza del brand di stabilire relazioni dirette più significative con persone distanti che, potenziate nei mezzi di scelta e confronto, sono già o si avviano ad essere degli abili consum-attori (Fabris, 2008). Tra le nuove opportunità possiamo anche includere le possibilità di estendere i relativi storytelling ravvivandoli attraverso la cross-medialità ma, ancor di più, basandosi sulle qualità native di coinvolgimento interattivo che è proprio degli ambienti digitali, reimmaginandoli con le tecniche peculiare della trans-medialità (Giovagnoli, 2013).
E tuttavia, per altro verso, è proprio sull’abilità ingegneristiche di controllo dei dialoghi in corso tra le parti e sulle proceduralità software ad essi associabili, garantite dalle tecniche digitali del medium rete, che si vanno a focalizzare primariamente gli sforzi dell’industria pubblicitaria.
La pubblicità legata al web, ma ancor di più al searching, segna indubbiamente un cambio di passo in tutto l’ecosistema del marketing data la sua natura profondamente programmatica in quanto la fa evolvere tecnicamente in parallelo ai progressi più generali del software e delle tecnologie di rete, di cui sono alfieri primari gli stessi fornitori di servizi di ricerca.
Il semplice richiamo di Google e dei suoi diversi ruoli nell’ecosistema pubblicitario (raccolta, vendita diretta e indiretta, partnership di distribuzione, gestore di ad platform, ecc.), così come nella standardizzazione applicativa dei più diversi servizi e ambienti in cui si spinge internet1, spiega bene il concetto. In sintesi, vi è il rafforzamento reciproco e a spirale tra la centralità dell’advertising nei propri modelli di business e gli sforzi di sviluppo nel miglioramento e nella diffusione delle tecnologie e piattaforme di rete.
A questo proposito, non è superfluo ricordare che Google trae oltre il 90% dei suoi profitti dalla pubblicità. A dire il vero, il business model dell’advertising è il modello di riferimento per quasi tutte quelle realtà della rete, vecchie e nuove, in cui si offrono “gratuitamente” i servizi per guadagnare rapidamente utenza e dunque peso specifico in termini di esternalità di rete.
Questo profondo connubio agevola il circolo virtuoso per cui le competenze ingegneristiche sono messe a disposizione per implementare tecnologie sofisticate che consentono, ad esempio, di allestire, nei pochi millisecondi che passano prima di esporre i risultati di ricerca, un’asta automatica online tra tutti gli inserzionisti interessati a proporre i propri servizi per quel particolare segmento di attività richiamato dall’oggetto della ricerca. L’abilità di gestire e far avanzare il medium in accordo alle possibilità evolutive delle interazioni tra web, utenza, inserzionisti e publisher genera così piattaforme tecnologiche di servizio sempre più specifiche ed efficaci.
Il mondo della pubblicità online è intensamente popolato da sistemi informatizzati e (fondamentalmente) automatizzati. Essi, per dirla con i sociologi Luhman e Giddens, si comportano come sistemi esperti – insiemi di tecniche, competenze, saperi e routine proceduralizzati attraverso tecnologie hardware e software in grado di gestire processi di creazione, acquisizione, aggregazione, vendita e pubblicazione dei messaggi pubblicitari, pre-ordinati per essere immediatamente disponibili negli spazi editoriali considerati al momento, per un qualche criterio prestabilito, i più adatti.
I sistemi e le piattaforme inserite all’interno delle cosiddette ad server networks interpretano alla perfezione i ruoli di intermediazione giocabili nei vari segmenti di attività, modulando incessantemente la loro opera sulle opportunità offerte dal continuo dialogo tra contenuti e utenti finali, ma anche dall’adeguamento che le rapide evoluzioni tecnologiche o di business richiedono.
In un recente intervento lo studioso e imprenditore pubblicitario John Battelle, autore del libro Google e gli altri, ha definito questo insieme come un immenso artefatto (Adtech) che sembra essere ormai dotato, sospinto da interessi e investimenti economici enormi, di vita autonoma. La distanza che separa i marketer – gli originatori di una qualche campagna pubblicitaria – e i consumer delle applicazioni online è zeppa di piattaforme automatiche di intermediazione e targeting che, a seconda le funzioni2, gestiscono tutti i processi relativi al ciclo di vita dei messaggi, rendendo i passaggi il più possibile precisi, fluidi ed efficaci.
Riferimenti
Battelle, J., 2006, Google e gli altri. Come hanno trasformato la nostra cultura e riscritto le regole del business, Milano, Cortina Raffaello.
Fabris, G. P., 2008, Societing. Il marketing della società postmoderna, Milano, Egea.
Fletcher, W., 2010, Advertising. A very short introduction, Oxford, Oxford University Press.
Giovagnoli, M., 2013, Transmedia. Storytelling e comunicazione, Milano, Apogeo.
Kaye, B. K., Medoff, N., 2001, Just A Click Away. Advertising on the Internet, Massachusetts, Allyn and Bacon.
Kireyev, Pavel, Koen Pauwels, Sunil Gupta, 2013, “Do Display Ads Influence Search? Attribution and Dynamics in Online Advertising” Harvard Business School Working Paper, No. 13-070, February.
Mckinsey, 2014, “Why marketers should keep sending you e-mails”, mckinsey.com.
1 Un esempio ancora più chiaro di queste strategie espansive e dei suoi potenti effetti è l’entrata di Google nell’ambito delle tecnologie mobile con la messa a disposizione gratuita della piattaforma open source Android che, come software-enabler di base per gli smart-phone, in pochi anni ha sparigliato il business consolidato di vendor storici e combattivi quali Nokia, infiltrandosi negli ambienti di vita di miliardi di persone.
2 Di alcune accenneremo in seguito, ma una mappa indicativa si trova nel blog di Terry Kawaja (Display Lumascape).