In un volume pubblicato da Meltemi viene analizzata la genesi del percorso comunicativo congiungendo le dinamiche sociali, storiche e anche culturali
Nell’ambito dell’interazione umana la comunicazione di massa non gode della stessa considerazione del dialogo. Anche se viviamo in società complesse di per sé inconcepibili senza il pieno dispiegamento delle capacità disseminative, le concezioni che abbiamo sull’argomento, maturate all’interno di una lunga tradizione di visioni e dibattiti contrastanti, stentano a comprendere i limiti e le possibilità delle dinamiche comunicative in relazione alle condizioni materiali e culturali, divenendo spesso, pregiudizialmente, dei veri e propri modelli normativi.
Nel libro Parlare al vento. Storia dell’idea di comunicazione (Meltemi, pp. 478), lo studioso statunitense John Durham Peters ne ripercorre la storia con sguardo disincantato ma eticamente impegnato e, visto che la comunicazione ha un campo di accezione notoriamente esteso, decide di farci intraprendere un approfondito “scavo archeologico” nella sua genealogia.
L’Occidente comunicativo: da Platone alla rivoluzione digitale
A considerare i compagni di viaggio o i temi scelti per tale indagine si potrebbero avanzare delle perplessità sul fatto che il saggio possa avere una così grande presa sui nostri attuali enigmi. Gente abbastanza insolita, se escludiamo tutta la serie dei teorici – filosofi, psicologi, semiologi, sociologi – comunemente presente nei trattati dedicati all’argomento.
In effetti, per cogliere in maniera sintetica e chiara i fondamenti delle idee sulla comunicazione nel mondo occidentale, Peters ci invita a seguire soprattutto Platone, Socrate, il Gesù raccontato dai Vangeli, i pensatori S. Agostino, Emerson, Hegel, James, Kierkegaard, Locke e Marx, ma anche medici e scienziati (Maxwell, Turing), medium e spiritualisti, poeti, romanzieri e via, fino ai ricercatori di intelligenza extraterrestre.
L’incontro fa così emergere uno scenario ben congegnato di intellettualità “nobile” e “prosaica”, di acute riflessioni e filosofie tra vecchio e nuovo mondo sui modi di produrre i significati e alimentare i contatti umani e non, commisto, come sempre è, con le pratiche, le rappresentazioni, le paure e le credenze di senso più comune.
In fondo, il richiamo calza con l’attuale, spesso confuso, dibattito sulle nuove forme di comunicazione, a cui però contribuisce con ben altra articolazione argomentativa grazie alla riapertura degli orizzonti socioculturali che nell’idea di comunicazione si sono nel tempo depositati, dandoci modo di ritrovare e ricomprendere criticamente il nostro “eterno presente”, anche, in particolare, l’attualità della cosiddetta rivoluzione digitale, in cui tutto pare convergere e riproporsi in modalità frastagliate.
Il fatto è che queste concezioni hanno subito nel tempo un’evoluzione strettamente condizionata dai progressi delle tecnologie comunicative e dei loro usi, innestandosi comunque in problematiche che, in quanto “animali simbolici”, ci risultano antiche e perenni –per riprendere una riflessione dell’autore, anche inquietanti:
«per sopravvivere nel mondo moderno – scrive l’autore –, gli uomini e le donne devono divenire indovini di altri imperscrutabili, interpretare gli umori delle segretarie, le parole dei capi del dipartimento, le decisioni dei presidi e degli amministratori delegati e i movimenti di funzionari nelle organizzazioni del Cremlino, della Casa Bianca o del Vaticano come se essi fossero il linguaggio di un qualche dio nascosto, oscuro e remoto, contento di parlare solo nel buio e nei sogni».
Una serie di infinite domande
La comunicazione va ponendosi sempre più come un fulcro delicato delle nostre vite, ma si stenta a percepire, se non negli effetti, la criticità di questa condizione. Tesi centrale del libro è che essa, con i suoi sogni e i suoi media, apra più interrogativi di quelli a cui potrà mai rispondere, creando aspettative che hanno spesso la capacità di fuorviare dalle altre forme di contatto e comprensione, prima di tutto dall’amore e dalla cura reciproca tra gli tutti esseri, nelle loro condizione di alterità e di esistenza comune e concreta.
Le idee sull’interazione umana sono nate fondamentalmente da queste esigenze, così come descritte dalle prime robuste teorie della comunicazione – riepilogate nel confronto tra i legami stretti del dialogo platoniano e le relazioni aperte della disseminazione dei Vangeli, i poli ideali che attireranno e orienteranno le concezioni e i dibattiti nei secoli seguenti.
Tutte le complicazioni successive nel modo di organizzare e tenere unite in maniera accettabile le nostre vite, soprattutto nella modernità – una difficoltà rispecchiata in qualche modo nell’esplosione degli apparati mediatici e dalle relative teorie, spesso propinate in versione terapeutica o tecnica come “cura stessa della malattia” – sembrano averci per lo più distratto da questo bisogno originario, specialmente quando gli ideali della comunicazione tentano di scansare quei reali problemi di potere, di risorse o di adattamento che impediscono le giuste condizioni per una vita comune solidale.
Dicevamo dell’altro ambizioso obiettivo dell’autore: esaminare le forme della comunicazione depurandole dai pregiudizi che impediscono di vedere la valenza positiva di configurazioni che meglio si adattano alle società complesse, ad esempio la comunicazione di massa. La sua è una posizione impopolare e ne accetta esplicitamente i rischi. Non è stata comunque l’empatia per la difficoltà dell’impresa a farci aderire alle sue tesi, piuttosto la grazia e l’arguzia con cui riesce a dimostrare quanto inique possano rivelarsi le forme d’interazione che reputiamo più pure e genuine, così come il richiamo alla fondatezza di tutte quelle modalità relazionali che possono farci fare esperienza dell’immensa e inesauribile vita e “intelligenza” del mondo.
Potenzialità, ambiguità e limiti
D’altronde, la questione è di evidenziare la criticità e la tensione reale tra i diversi generi di contatto: la stretta e amorevole vicinanza del dialogo o l’aperta e feconda disseminazione della parola (legame), che è il motivo su cui si moltiplicano i temi e i problemi della comunicazione via via che le distanze d’interazione, nello spazio così come nel tempo, divengono una variabile dipendente dai mezzi di comunicazione, dal loro potere di immagazzinare, trasmettere o rappresentare forme e linguaggi significativi.
Ciò è anche una delle chiavi per capire come stiamo cambiando poiché volendo affrontare responsabilmente i temi cari alla società dell’informazione e della comunicazione – clonazione, cyborg, realtà virtuale, reti globali – non possiamo non seguire il viaggio tracciato da Peters: quello che il nostro corpo (politico e individuale) ha effettuato nella sua progressiva ibridazione prostetica con i media, così come nel suo desiderio di contatto (l’eros) con gli “altri” della società mediale, rivivendo sia lo sforzo iniziale di far scomparire il corpo (il segno) per ottenere una comunicazione perfetta, ma incorporando nuove tecnologie, fino ad aver infestato il mondo con i fantasmi umani, che quello inverso, di far materializzare un corpo diventato mere effigi per renderne credibile la comunicazione nel contenuto.
Il lavoro di Peters si rivela dunque un saggio coinvolgente e chiaro che, con soavità discorsiva ed eleganza immaginativa, ci conduce nelle molteplici e profonde pieghe della comunicazione illustrandone potenzialità, ambiguità e limiti in relazione a questioni quali il valore dei significati interpersonali, le barriere individuali, la gestione dell’opinione pubblica, la scoperta dell’alterità, l’orchestrazione dell’azione, gli aspetti tecnici e terapeutici, le nuove forme della comunanza e della condizione umana.
www.scriptamanent.net, anno IV, n. 30, aprile 2006