La disseminazione del video-streaming a 100 anni dalla nascita di Marshall McLuhan
In questo anno ricorre il centenario della nascita di Marshall McLuhan. Oltre che in convegni l’anniversario è stato ampiamente ricordato nella stampa quotidiana, particolarmente agevolata nel redigere articoli impreziositi dai famosi aforismi con cui il geniale studioso ha saputo preconizzare gli effetti che i media elettronici stavano apportando alle nostre vite.
Come si evince dagli innumerevoli tributi e dalla trasversalità culturale delle fonti, dovremmo dare per chiusa la lunga stagione dei distinguo sulla sua figura e centralità nell’ambito delle scienze della comunicazione, di cui, in verità, è stato il primo (in)discusso ispiratore.
L’epoca di McLuhan fu indubbiamente caratterizzata dall’avvento tele-visivo: la diffusione della tv e della comunicazione video rappresentò un evidente spartiacque per ragionare in termini di nuove forme culturali e di una differente civilizzazione rispetto al mondo simbolico organizzato attraverso le pur sofisticate tecniche espressive/informative della tipografia.
La potenza e pulsione dei flussi audiovisivi irradiati quotidianamente da antenne, cavi locali e transnazionali e la rapida diffusione degli schermi video nelle case scardinavano i precedenti dispositivi (statici e lineari) della registrazione/trasmissione di simboli e immagini innovando, ma anche riorganizzando, i modi di esperire emozioni, informazione, politica, divertimento, conoscenza.
Nell’arco di alcuni decenni gli schermi delle tv hanno invaso le residenze di miliardi di famiglie in ogni angolo del pianeta raggiungendo, in termini assoluti per numero di abitanti, i più alti indici di penetrazione di un medium di telecomunicazione.
Solo i cellulari telefonici hanno saputo far meglio in termini temporali e diffusivi, e anche loro nel frattempo sono divenuti degli schermi capaci di diffondere suoni e immagini ad alta definizione.
Nel frattempo, lo stesso traffico dati della rete internet è dominato dai contenuti audiovisivi consumati in maniera crescente in modalità real time, vale a dire così come arrivano. I circuiti dati e le tecniche di compressione e di rilancio dei segnali digitali complessi ne rendono possibile e affidabile il trasporto a prezzi contenuti.
L’ubiquità e la molteplicità dei canali così come la personalizzazione dei dispositivi dalle mille funzioni stanno portando una rivoluzione profonda nei circuiti della distribuzione degli audiovisivi – sul fronte della produzione il cambiamento, legato a modalità di finanziamento e a qualità e tipologia dei contenuti ricercati, è, come vedremo, molto più lento.
L’evento McLuhan coincide dunque con un altro forte scarto nelle possibilità di espressione e comunicazione basate sulle tecnologie visuali dell’elettronica. Può essere questa un’ulteriore occasione per ri-attualizzare le sue analisi sul tema ragionandovi in termini differenziali rispetto alle nuove dimensioni sociali e culturali introdotte dalle attuali tecnologie di rete?
Il medium e l’incantamento dei media
In effetti, McLuhan può dare ancora il meglio di sé sul versante più oscuro e inafferrabile del cambiamento del nostro profilo antropologico, nella comprensione della densa inter-penetrazione di dispositivi comunicativi, azioni, pensieri e immaginazione così come illustrato “plasticamente” dal regista (anche esso canadese) David Cronenberg con il suo lungometraggio Videodrome.
Realizzato nel 1983 ma ancora estremamente attuale – vi recitava non casualmente un personaggio che richiamava direttamente McLuhan (professor O’Blivion) – il film ha per tema la “nuova carne” formatasi dalla contaminazione tra elettronica e mondo organico, il tutto contestualizzato nella (cupa) politica e società del tempo.
Tuttavia, per quanto filosoficamente e praticamente utile – come dimostra l’esteriorizzazione massiccia delle nostre vite in rete – conviene qui seguire un altro genere di indicazioni provenienti dallo studioso sulla scorta dell’eredità intellettuale (ampiamente riconosciuta) lasciategli dal suo maestro e connazionale Harold Innis. Vale a dire indirizzarci a comprendere cosa è cambiato nelle condizioni e strutture della comunicazione.
L’attuale video-frenesia è figlia infatti delle possibilità messe a disposizione dalle nuove architetture di rete e dalle dinamiche generative dell’epoca post-internet. Dal punto di vista tecnologico vi è stato un concorso di cause: la potenza locale dei dispositivi personali in termini di memorizzazione e calcolo, che consentono ai software di trattare la grande mole di dati necessaria a rappresentare con dinamicità e accuratezza i materiali video-sonori. Soprattutto, queste apparecchiature non sono più confinate nelle mani di poche entità facoltose ma ormai comunemente accessibili e ben distribuite. Inoltre, sono collegate tra di loro in rete.
Le inter-connessioni dati standardizzate e basate sul protocollo IP sono diventate un corredo personale indispensabile, un “must” per poter agire e comunicare nelle società del XXI secolo tanto da essere già un diritto basilare del cittadino da fissare nella legislazione nazionale. In continuità con l’idea originaria dei pionieri di internet, ovvero di poter trasportare sulle reti aperte qualunque tipo di traffico, sono stati incessanti gli sviluppi tesi a fluidificarne i transiti così da agevolare qualunque tipo di comunicazione.
Il trasporto dei traffici voce su internet fu una pietra miliare di queste possibilità e della fattibilità di estendere comunicazione complesse e sincroniche, normalmente limitate a una cerchia di computer collegati in ambienti limitrofi, a un livello geografico esteso.
L’affinamento delle tecniche di compressione dei contenuti e il rilancio degli stessi secondo servizi intelligenti di geolocalizzazione che attivano lo streaming dei dati dal punto fisico più vicino all’utenza richiedente (caching geografico) hanno infine ultimato l’opera.
In ogni caso, più che indicare dei singoli elementi, avremmo bisogno di abbozzare un’analisi che tenga conto di come sia tutta un’ecologia sistemica a doversi riadattare, un insieme che ha nella produzione dei contenuti, nei canali di diffusione e nel supporto pubblicitario più o meno diretto i suoi capitoli più importanti.
Per iniziare, di fronte alla proliferazione delle forme espressive e di consumo dei prodotti audiovisivi possiamo delineare due campi diversi di sviluppo. Il primo è quello amatoriale, chiaramente alimentato e sospinto dalla Rete. Il travaso e la trasmissione di filmati ripresi dalle persone con i loro molti apparecchi – soprattutto videocamere e telefonini, ma anche web cam – non è più un lavoro da super-esperti e abbondano i software free/shareware ma anche professionali con prezzi contenuti che permettono di trattare con una certa facilità l’editing dei formati video. Per non parlare poi dell’hardware/software disponibile a registrare/catturare filmati e trasmissioni video predisponendoli alla successiva collocazione nelle librerie dei tanti siti di video-sharing o di social networking.
L’esempio più clamoroso del cosiddetto User Generated Content (UGC) video è youtube, la creatura tecnologica fagocitata per tempo da Google. Queste realtà si stanno dimostrando in grande ascesa per la loro capacità di attirare attenzione e dunque di intrattenere audience, che significa introiti pubblicitari, il più grande filone di sostentamento per la maggior parte dei contenuti mediali.
Come è ormai diventato evidente a tutti i frequentatori della Rete, in questi ambienti così interattivi l’advertising online ha pochi rivali per grado di efficacia e modelli di offerta al fine di pubblicizzare prodotti o collezionare feedback da parte degli utenti – purtroppo, e sono i più, anche feedback inconsapevoli. Ma attività del genere consentono di garantirsi investimenti e dunque continuità operativa. Solo per dare un’idea di questa realtà veramente magmatica, che possiamo pensare semi-organizzata per canali ma che è soprattutto guidata dal searching sulla base dei metadati (tags, oggetto, autore, titolo, contenuto, ecc.) associati ai video, sono oltre 2 miliardi i video che youtube visualizza ogni giorno inglobando contenuti di ogni sorta e per gli scopi più eterogenei!
L’altro grande campo di sviluppo interessa i media classici e la sua evoluzione deriva strettamente dal fenomeno precedente per almeno tre ordini di motivi. Il primo è la frammentazione dell’audience, sempre più distratta da “altri” device – pc, tablet, videofonini – e dunque sempre più disposta a organizzare un proprio personale palinsesto.
Ciò comporta, come accennavamo, un grande pericolo in termini di remunerazione delle attività e dei contenuti visto che l’attenzione degli utenti è una risorsa limitata paventando così il rischio concreto di una perdita di controllo che metterebbe in crisi una filiera lunga e complessa che, tra l’altro, ha uno dei suoi perni proprio sui ritorni pubblicitari.
Per farsi un’idea sulle possibilità di espansione – e dunque di minaccia – rammentiamo che la pubblicità che passa sui contenuti video assomma su scala globale il valore di 160 miliardi di dollari e che solo il 3,3% è quella attualmente investita negli ambienti online (dati 2011).
Il secondo motivo è la creatività dei “prodotti” amatoriali e la loro speciale qualità di intercettare per tempo gli umori dei gruppi sociali. Il terzo è l’insieme delle possibilità che il continuo dialogo, i commenti e la conoscenza condivisa apporta arricchendo e indirizzando le scelte di consumo.
I media classici devono così velocemente riposizionarsi e inglobare tutto ciò che nasce e vive sulle piattaforme innovative e collaborative di internet. Gli schermi ultrapiatti ed enormi degli attuali televisori si vendono ormai nella versione “interconnected”, vale a dire muniti anche di una presa su cui far transitare i dati e il traffico video della Rete, che concorre agli altri streaming di visione – satellitare o digitali terrestri.
Essendo ancora al centro della casa come schermo preferito per le visioni lunghe, in essi si installano software “smart” che gestiscono le nuove possibilità di programmazione e condivisione, allargatesi smisuratamente con le offerte video-on-demand dei provider web della rete. Ovviamente, tra questi ritroviamo anche i broadcaster presenti nell’etere o via satellite, così come le tv via cavo, pronte sia a non farsi sfuggire abbonati (cord cutting) che a far valere competenze e prodotti.
E così il fronte dell’offerta distributiva va popolandosi velocemente di operatori che provano a sfidare le realtà storiche quali le tv o i negozi di affitto/vendita dvd organizzando magazzini (cyber-locker) capaci di attivare servizi di streaming online – vedi Netflix, Hulu, Apple, Amazon. Come si può immaginare, non è semplice prevedere gli sviluppi di uno scenario così articolato, soprattutto se teniamo conto che la confezione di prodotti video capaci di attrarre l’interesse delle persone e farsi remunerare richiede un’organizzazione e un impegno economico considerevole, sia in termini di infrastruttura tecnica che editoriale.
Se pensiamo alla storia dei media, alla loro evoluzione tra aneliti libertari e consolidamenti monopolistici, si rimane dubbiosi circa un reale rovesciamento dei valori in campo nel settore “chiuso” dei contenuti video, almeno di quelli di lungo intrattenimento – film, serie tv ma anche inchieste e documentari. Nonostante gli indubbi riflessi sui settori limitrofi rimandiamo per ora gli approfondimenti sul grande successo dei videoclip su base amatoriale o anche professionale: questo fenomeno, che scandisce la nostra presenza in rete in ogni ambito di visione, innova forme espressive ed editoriali e merita, nel suo carattere quasi anarchico, delle riflessioni a parte.
Soffermiamoci invece sul settore più professionalizzato, quello dei formati di intrattenimento più affermati per avanzare alcune considerazioni che possono spiegare gli aspetti meno immediati e più conservativi della sua nuova evoluzione streaming. Ad esempio, possiamo ragionevolmente ipotizzare che con la versione streaming la distribuzione dei prodotti si amplierà non solo perché a semplice portata di “click” ma anche per la concomitante azione di omogeneizzazione/differenziazione dei gusti del pubblico su base globale e l’abbattimento dei costi di distribuzione del canale online.
E tuttavia, non si possono non notare i timori ad abbracciare il video on demand da parte dei detentori dei diritti dei contenuti per il pericolo di perderne il controllo una volta che la distribuzione è su reti aperte. Per non parlare poi del problematico snodo dei rapporti tra produttori e intermediari (distributori, tv) e dell’eventuale indebolimento nella collaborazione in termini di co-finanziamenti, lavoro di doppiaggio o promozione nei vari paesi.
La macchinosità di questo universo e le difficoltà di trasferire diritti, ribaltare posizioni o scardinare alleanze hanno origini note. I prodotti audiovisivi fanno parte della categoria dei beni esperienziali (experience good): i lungometraggi sono le opere preferite dal grande pubblico nel momento in cui decidono di immergersi in una storia e la valenza/potenza dell’arte cinematografica è commisurata alla capacità di renderli partecipi di un qualcosa che abbia per loro senso. I linguaggi e gli alvei culturali sottesi ai progetti rimangono dunque caratteristiche fondamentali. La territorialità di un progetto è una buona base di partenza per ridurre i rischi e coinvolgere soggetti “coesi” atti ad affrontare una lunga serie di passaggi in cui si validano e finanziano idee.
Il produttore dei prodotti audio-visivi elabora dunque una sintesi che deve accontentare i molti soggetti partecipanti predisponendo i ritorni economici/culturali sulla base di visioni del pubblico scadenzate in finestre temporali – mostre, cinema, canali tv, uscite dvd – legate prevalentemente ai territori di origine dell’opera, nella speranza di poterli comunque espandere trovando altri distributori interessati.
In questo tipo di contesto la popolosità e omogeneità linguistico-culturale, così come la forza derivante da specifiche egemonie culturali in termini di idee e immaginario – il cosiddetto soft-power, così utile per aprire prospettive di sviluppo in quasi ogni altro campo di attività – condizionano le possibilità di creare opere filmiche che riescono a circolare e rifinanziare i circuiti. Non è dunque casuale che ben il 60% dei prodotti filmici mondiali nasce negli Stati Uniti ed è prodotto da pochi gruppi editoriali, il cui successo continua ad attrarre chi decide di vivere questa professione, mentre tutto il resto del mondo si deve accontentare di conquistare il rimanente spazio.
In definitiva, navighiamo in un contesto in cui l’innovazione in un particolare segmento deve fare i conti con assetti e ragioni economiche, culturali ed estetiche di lungo corso, in cui l’incantamento dei media – in termini spettacolari e di riproposizione di contenuti sempre nuovi, stimolanti e piacevoli – gioca un ruolo determinante per assicurarsi il seguito di pubblico.
Come questo possa essere garantito, in linea o meno con le pratiche e i sistemi consolidati, è un puzzle niente affatto semplice da comporre.