Il sex appeal dei cyborg
Nel pensare il rapporto tra uomo e tecnologia ricorriamo spesso a immagini e paragoni che vorremmo esemplificassero meglio la difficoltà a intenderli come mondi nettamente separabili.
Capita pure, all’interno di uno stesso ragionamento, di dover modulare i paralleli in un crescendo di esempi perché i confini per una possibile divisione funzionale o materiale diventano sempre più indefinibili in ragione della natura coevolutiva — biologica, psicologica, sensoriale e sociale — di ogni essere umano con ogni tipo di presenza che abita gli ambienti da lui stesso abitati.
Per fare un esempio, nell’interessante libro L’anima delle macchine l’esperto di robotica Paolo Gallina esemplifica questa fusione partendo dall’immagine di una chiocciola che vive saldamente attaccata al suo guscio, per passare poi a una zattera esistenziale su cui appoggiamo e incorporiamo, durante il nostro viaggio terreno, tutta quella panoplia di oggetti, strumenti, esperienze ed emozioni che ci rende allo stesso tempo unici e solidali con il resto del consorzio partecipato (umano, animale, ambientale). E chiude infine con le immagini più vive e interattive proposte nell’ambito della filmografia attraverso personaggi che mostrano i poteri dati dalla interpenetrazione della vita discendente dal carbonio con la vita che evolve dal silicio — sulla scia dei tumultuosi sviluppi tecnologici di questi ultimi anni.
Per inciso, sul tema della naturalità ibridativa dell’essere umano la posizione dell’autore è chiara e ce lo indica già la scelta dell’immagine di copertina, una macchina robotica con incorporata una suadente maschera femminile, un modo immediato per sollecitare empatia verso queste nuove forme di vita enfatizzando quello che, in altri contesti, è stato efficacemente definito il “sex-appeal dell’inorganico” (Benjamin, 1935, Perniola, 2004).
Il sentimento del wetware
Curiosamente, in questo periodo di lettura ho ritrovato lo stesso tipo di immagine nella locandina di un lungometraggio altrettanto interessante, Ex Machina (2015).
Il film, ideato e diretto dallo scrittore e regista inglese Alex Garland, parla di Intelligenza Artificiale o, meglio, del suo obiettivo più ambito, ovvero la produzione di una macchina che incarni a tutti gli effetti le abilità cognitive e sensorie di un vero essere umano.
Giudicandolo solo dall’originalità, avremmo difficoltà a giustificare l’apprezzamento che il film sta guadagnando presso il pubblico. In effetti, nella trama ritroviamo spunti narrativi e snodi scientifici scontati come la verifica del test di Touring per discriminare l’avvenuta mutazione umana della macchina, o l’epilogo ribelle della nuova creatura al proprio creatore.
In realtà, inserendo piccole ma efficaci variazioni che intercettano e amplificano le domande e le osservazioni che quotidianamente albergano nelle nostre menti durante le comuni pratiche di vita mixate ormai digitalmente, il regista si dimostra abile nel cogliere e contestualizzare le odierne inquietudini di persone ormai intrinsecamente avviluppate in sistemi tecnologici sofisticati.
Domande o paure che accomunano gli esperti, ad esempio Nick Bostrom, direttore a Oxford del Future of Humanity Institute e ricercatore presso il Machine Intelligence Research Institute — si veda il suo ultimo libro Superintelligence; oppure, più prosaicamente, gli utenti tecnologici che tutti ormai siamo.
E così, il compito di condurre il test di Touring fatta da Nathan (Oscar Isaac) al protagonista del film, il giovane e taletuoso programmatore software Caleb (Domhnall Gleeson), prevede, al contrario della completa separazione fisica tra esaminatore ed esaminato, un confronto ravvicinato faccia a faccia e addirittura intimistico con la affascinate cyborg Ava — nella versione completamente in carne, l’attrice Alicia Vikander.
Per dirla tutta, un confronto sovraccarico di emotività dal momento che Ava, nelle rare situazioni di non sorveglianza – black-out improvvisi di energia che rendono inoperativo il circuito di videosorveglianza utlizzato da Nathan – implora segretamente l’aiuto di Caleb caricandolo della responsabilità di salvargli la vita poiché una mancata idoneità risultante dal test provocherebbe la sua dismissione con il conseguente smembramento fisico — le parti saranno riutilizzate come pezzi di ricambio per i successivi esperimenti.
Caleb, ma anche noi spettatori, rimarremo nell’ambiguità nel non sapere se anche questi black-out elettrici e le suppliche di Ava facciano parte della subdola programmazione ingannatrice di Nathan. Da questo punto di vista, sembrerebbero del tutto superate alcune critiche rivolte al test di Turing, ovvero di occultare, in un test puramente intellettuale, fattori importanti quali quelli relativi agli effetti di presenza scaturenti dalla dimensione corporea ed emozionale, così centrali per gli esseri umani (Peters, 1999).
Lo stesso Nathan, capo azienda di Caleb e ideatore e produttore del sofisticato cyborg, si premura su questo fronte comunicando a Caleb che l’androide è anche dotato di un sofisticato apparato sessuale. In effetti il regista vuole far evolvere la sfida su un terreno che sia il più reale possibile essendo già oggi la nostra realtà non più separabile dal computing – si pensi al ruolo dei social network per l’ambito affettivo ed emozionale.
Per certi versi, questa rappresentazione filmica è un altro esercizio futuristico che ci appare così poco distante perché già tracimiamo di futuro, una sensazione già vissuta vedendo il film Her di Spike Jonze.
D’altronde, il geniale Nathan è per il regista un giovane miliardario che, ritiratosi per elaborare il nuovo progetto in una località inaccessibile e completamente immersa in una natura incontaminata e selvaggiamente maestosa, vive gestendo a distanza la sua fiorente azienda, un internet search engine company (Blue Box) che ha il (quasi) monopolio delle ricerche effettuate dalle persone sui contenuti presenti nella rete internet.
Lo stesso software utilizzato per le ricerche, insieme ai dati nel frattempo accumulati, diventano la base per lo sviluppo del wetware necessario a implementare la nuova macchina intelligente. Insomma, tutto pare suggerirci, a differenza degli sforzi ideativi richiesti nel passato, che non solo oggi gli elementi per una storia di science fiction sono veramente alla portata di mano, ma già presenti nelle trame del nostro quotidiano.
Per inciso, la scelta naturalistica della location – per i più curiosi, una costruzione moderna in una valle montuosa norvegese – ha più chiavi di lettura. Benché isolati all’interno di un edificio architetturalmente moderno e minimalista, la prepotenza e magnificenza della natura è una presenza continua e assoluta grazie alle ampie vetrate che mostrano il paesaggio esterno e tutto, a iniziare dal nome dell’androide (Ava) che dovrebbe annunciarsi come nuova specie di vita, è congegnato per parafrasare il momento fondativo della nuova era post-umana.
Ma la solitudine naturalistica è, banalmente, anche una sottolineatura ironica: la stridente contraddizione della ricerca di una privacy assoluta da parte dei massimi propugnatori della piena trasparenza/condivisione in rete delle vite altrui.
Dato che il film è anche un thriller, manteniamo un certo riserbo sulla trama. Ad ogni modo, nonostante il finale non risulti pienamente convincente — può accader spesso nella science fiction — abbiamo trovato magistrale l’incertezza in cui rimane sospeso lo spettatore nel decidere tra l’abilità del programmatore di istruire perfettamente il cyborg a farsi riconoscere come essere pienamente cosciente, e l’effettiva e autonoma capacità della macchina di avere acquisito finalmente una vera coscienza.
Altrettanto riuscita è l’atmosfera vissuta dai protagonisti della storia, esseri continuamente incerti sullo stato e il livello del loro reciproco controllo/inganno, così come, pur nella convinzione di una trasmutazione dei loro corpi effettiva e in corso, del grado di avanzamento di questo inevitabile processo.
Riferimenti
Benjamin, W., 1935, I “passages” di Parigi, Torino, Einaudi, 2010.
Bostrom, N., 2014, Superintelligence. Paths, Dangers, Strategies, Oxford, Oxford University Press.
Gallina, P., 2015, L’anima delle macchine. Tecnodestino, dipendenza tecnologica e uomo virtuale, Bari, Edizioni Dedalo.
Perniola, M., 2004, Il sex appeal dell’inorganico, Torino, Einaudi.
Peters, J. D., 1999, Parlare al vento. Storia dell’idea di comunicazione, Roma, Meltemi, 2005.