Emergenza occupazionale e technological unemployment
I cambiamenti sociali ed economici sono una costante dell’epoca moderna che, fin dalla metà del Settecento, ha visto il susseguirsi di innovazioni spesso così radicali da essere definite rivoluzioni per le pesanti ricadute che hanno rappresentato per la vita delle persone in termini di riadattamento esistenziale.
Uno dei temi che si ripresenta ciclicamente nei periodi caratterizzati da una crisi rilevante nei modelli di produzione e consumo è il lavoro nel suo problematico rapporto con le innovazioni tecnologiche, un fenomeno tendenzialmente ineludibile che l’economista statunitense John Maynard Keynes contrassegnò nel 1930 con la definizione di technological unemployment.
L’argomento alimenta ovviamente un dibattio caldo che ripropone normalmente la dicotomia tra chi, nell’inevitabilità delle dinamiche competitive industriali e commerciali, considera la tecnologia salvatrice nella sua capacità di creare sempre realtà/attività nuove e chi, invece, le assegna un ruolo prevalentemente nefasto per quasi ogni genere di occupazione.
Ultimamente, alla luce di una persistente crisi economica e al declino e ristrutturazione di molte attività, soprattutto sotto la spinta delle tecnologie digitali incorporate (quasi) in ogni oggetto e interconnesse in rete, la questione sta assumendo un’importanza centrale. O, per dirla in altro modo, cresce la sollecitazione perché, alla luce dei nuovi paradigmi energetici e comunicativi su cui stanno riposizionandosi le società umane, lo diventi.
Basterebbe, nel caso, fidarsi del sociologo americano Jeremy Rifkin. Nel suo recentissimo lavoro Zero marginal cost society, scandagliando la contraddizione interna di un sistema produttivo che ha raggiunto efficienze così straordinarie da riuscire a produrre con costi incrementali insignificanti, Rifkin non ha remore a porre l’impellenza del problema di fronte a quello che considera un game-over per il funzionamento delle economie di mercato classiche.
Che cosa dovrebbe fare la razza umana e, più importante, come dovrebbe definire il proprio futuro sulla terra se il lavoro di massa e professionale andasse a scomparire dalla vita economica nel corso delle prossime due generazioni? Tale questione sta ora seriamente presentandosi per la prima volta nei circoli intellettuali e nei dibattiti politici pubblici (2014, p. 84).
D’altro canto, pur confermando lo schema dicotomico, la stessa pubblicistica giornalistica segnala dei cambiamenti nel peso delle rispettive posizioni.
La novità è che, mentre fino a qualche tempo fa la seconda tesi, quella pessimista, era sostenuta da pochi accademici come Robert Gordon, subito relegati nel ghetto dei «neoluddisti», ora un’indagine condotta dal Pew Research Center, l’istituto di ricerche più autorevole d’America, tra circa duemila esperti del settore, ha prodotto risultati diversi e sorprendenti: la metà di quelli che hanno risposto al sondaggio continua a dirsi convinta che i lavori sostituiti dai robot verranno più che compensati — com’è sempre avvenuto in due secoli di rivoluzione industriale — dalla nascita di settori dell’economia interamente nuovi. Per gli altri (48%), nell’economia digitale questo non è più vero: l’era del vapore ha prodotto le ferrovie che hanno assorbito milioni di lavoratori, quella elettrica ha illuminato le città e alimentato le fabbriche, il motore a scoppio ha dato lavoro non solo agli operai dell’auto ma ai milioni che hanno costruito strade, hanno rivoluzionato l’urbanistica delle città e creato la rete di produzione e distribuzione dei carburanti. Internet, invece, produce autostrade digitali che di lavoro diretto ne creano poco. Fanno nascere nuovi business digitali, è vero. Ma quasi sempre a scapito di servizi «fisici» meno efficienti che, a quel punto, licenziano (Robot commercialisti o radiologi, 2014).
Provando a scansare le reazioni meno problematizzate e volendo privilegiare un’analisi centrata sui cambiamenti che la rivoluzione digitale e connettiva sta aiutando a combinare marcando una qualità profondamente diversa, partiamo raccogliendo alcune considerazioni che l’economista statunitense premio Nobel Michael Spence ha ultimamente avanzato.
Per inciso, l’articolo dello studioso americano ha tratto spunto da un accurato resoconto sulla natura e le direzioni dei flussi economici globali documentabili nel loro evolversi nella ultima decade, che il McKinsey Global Institute ha voluto approfondire mettendole in relazione con la crescente digitalizzazione dei/sui prodotti/processi. Allego alcune info grafiche— per maggior dettagli si rinvia al report originale.
Spence dunque ci spiega come le tecnologie digitali stiano permettendo, ancora una volta, di ridefinire le catene del valore a livello globale. Vi è stata una prima fase in cui i sistemi organizzati per la fornitura e la distribuzione dei beni, grazie alle tecnologie digitali, hanno reso gestibile la delocalizzazione delle attività scardinando i modelli lineari che separavano paesi produttori e paesi consumatori.
Le attività economiche (produzione, ricerca, progettazione, ecc.) si sono mosse dove hanno potuto trovare capitale umano e costi relativamente più bassi aiutati dalle capacità dei sistemi digitali di riorganizzare flessibilmente ed efficacemente processi e flussi di scambio (informativi e di beni). In pratica, di avere la capacità di riaggregare virtualmente ciò che sul terreno tende a frammentarsi.
Da notare che negli stessi anni è andata modificandosi anche la domanda dei consumi grazie alla crescita delle classi medi in alcune aree geografiche emergenti. Non solo l’abbattimento dei costi di transazione ha consentito di allentare i vincoli della prossimità geografica nell’organizzare imprese e consumi, ma, in queste nuove condizioni di scambio, i nuovi sistemi digitali hanno anche permesso di offrire dei nuovi servizi centrati, ad esempio, su competenza, perizia, informazione e comunicazione, i cui limiti sono più legati a fattori culturali che a distanze fisiche.
Tuttavia, gli impatti a livello di distribuzione dei redditi e di lavoro, pur importanti, sembrano secondari rispetto al nuovo impulso che la sofisticazione e ubiquità delle tecnologie digitali stanno producendo con la loro ultima ondata.
Oggi vi sono incentivi enormi a investire in sistemi hw e sw che riescono a sostituire il lavoro. Si pensi solo, ad esempio,
agli sportelli per i prelievi automatici, all’home banking, alla pianificazione delle risorse aziendali, alla gestione dei rapporti con la clientela, ai sistemi di pagamento mobile, per citarne solo alcuni, e la rivoluzione investe anche la produzione di beni dove i robot e la stampa 3D stanno sostituendo il lavoro tradizionale (Spence, 2014).
In breve, le nuove tecnologie, richiedenti alti costi iniziali progettuali e implementativi, riescono poi a garantire scalabilità a costi marginali ed applicabilità globale, ma anche indirizzabile e localizzabile laddove la produzione è effettivamente richiesta – liberandosi dai limiti di doversi accontentare su produzioni “anticipate” o stime di produzioni “prevedibili”.
L’uso intensivo di manodopera diventa allora un fattore sempre meno importante rispetto a ciò che il digitale riesce a elaborare in termini di miglioramento/ideazione/implementazione di processi produttivi e distributivi e nessun paese sarà esentato dal dover rivedere i propri modelli di sviluppo.
Stiamo entrando in un mondo in cui i flussi globali più importanti saranno le idee e il capitale digitale e non i beni, i servizi o il capitale tradizionale, adattarvisi richiederà un cambiamento di mentalità, di politica, di investimento (soprattutto in capitale umano) e anche nuovi modelli di occupazione e distribuzione. Nessuno sa con certezza come finirà, ma cercare di capire dove ci stanno portando queste forze e queste tendenze tecnologiche è già un buon punto di partenza (Spence, 2014).
Se da un punto di vista strategico il problema richiede ripensamenti e interventi profondi e ardui per la portata e lo sforzo richiesto dallo spettro dei cambiamenti necessari – si pensi solo alle resistenze dovute alle rendite di potere (economico, politico), alla definizione di meccanismi redistributivi, agli scontri ideologici –, tatticamente vi è una spinta a contrastarlo puntando sulle aree occupazionali più difficili da sostituire perché altamente qualificate in termini di conoscenza e progettualità.
In verità, anche in questi settori le cose non sembrerebbero andare bene ragionando in termini di saldi. Prendiamo l’ICT, uno dei settori di punta dell’innovazione, dove si susseguono gli annunci di licenziamenti in aziende high-tech quali HP, Cisco, Juniper, Microsoft, Siemens, NetApp, IBM, Dell, Intel, Sprint, ecc., interventi giustificati sempre da nuove focalizzazioni verso business più aderenti ai correnti sviluppi (The bloodiest tech industry layoffs, 2014).
Inoltre, le aziende di più recente costituzione si fanno notare per il loro scrupoloso dimensionamento, anche perché beneficianti di strumentazioni più efficienti e di un maggiore bagaglio di esperienze comuni. Nel giro delle software house di un certo peso nel mondo vi sono scarti sorprendenti a guardare il numero di persone impiegate a tempo pieno — Microsoft (128.000), Google (47.000), Facebook (6.300).
Un post pubblicato ultimamente da Facebook per vantare i benefici dei suoi investimenti in termini di ritorni per la comunità che vive nel territorio in cui ha edificato uno dei suoi più grandi Data Center (Pineville, Oregon) – il centro computerizzato di gestione e smistamento dei dati di oltre un milardo di utenti Facebook si estende su uno spazio che equivale a tre campi di calcio regolamentari – evidenzia, ma ironicamente, la misura di questo disagio (Connecting the World and Making an Impact, 2014).
A fronte di investimenti milionari (573 milioni di dollari) e di infrastrutture oceaniche si scopre infine che, a regime, all’interno vi lavorano solo 100 persone, di cui solo 12 full-time e con skill altamente qualificati (Facebook-commissioned study says, 2014).
Insomma, anche l’approccio tattico ha le sue difficoltà e richiede comunque abilità governamentali estese. Lo si può arguire seguendo chi si impegna a valutare come l’avanzata delle learning machine e dei mobile robotics possa impattare le diverse tipologie occupazionali misurandone, sulla base delle loro caratteristiche manuali o cognitive, di ripetibilità o creatività, la probabilità di essere sostituite.
Studiando tali dinamiche il ricercatore dell’università di Oxford Carl Benedikt Frey avverte che già ci sono delle chiare indicazioni riguardo ai settori dove le occupazioni sono sicuramente in crescita.
Il mondo del lavoro sta entrando, una volta ancora, in una nuova era di turbolenze tecnologiche e di disuguaglianze reddituali crescenti. Ciò sollecita una questione più grande: dove saranno create le nuove tipologie lavorative? Dei segnali sono già presenti. Gli avanzamenti tecnologici stanno generando una domanda per gli architetti e analisti di big data, specialisti di servizi cloud, sviluppatori software e professionisti di marketing digitale, tutte occupazioni che non esistevano quasi cinque anni fa (2014).
Eppure, Frey preferisce insistere sugli aspetti più generali che rafforzano la capacità di affrontare meglio questi cambiamenti e prende l’esempio della Finlandia. A causa della indeguatezza a rispondere alle sfide apportate dalle nuove industrie degli smartphone, il paese ha dovuto cedere le attività principali della Nokia, la maggiore industria high-tech del paese, ma da quella esperienza sono comunque nate successivamente molte nuove imprese — ben 220, ed alcune di grande successo.
Questa trasformazione non è accidentale. Gli investimenti intensivi della Finlandia nell’istruzione ha creato una forza lavoro recuperabile. Attraverso l’investimento in conoscenze trasferibili che non sono limitati a specifiche attività o industrie, o suscettibili alla computerizzazione, la Finlandia ha fornito un modello su come adattarsi al terremoto tecnologico. Nonostante la diffusione di tecnologie guidate dalla potenza delle analisi sui dati, quel certo tipo di lavoro continuerà ad avere vantaggi comparativi in termini di intelligenza sociale e creatività. Le strategie di sviluppo governative dovrebbero allora focalizzarsi sull’avanzamento di queste competenze così che esse complementino, piuttosto che competano con, le tecnologie computerizzate (Frey, 2014).
Riferimenti
“Connecting the World and Making an Impact“, Facebook.com, 21/5/2014,
“Facebook-commissioned study says Oregon data center is good for the economy“, Gigaom.com, 21/5/2014.
Frey, C. B., 2013, The Future of employment: How Susceptible Are Jobs To Computerization?, University of Oxford.
Frey, C. B., 2014, “Creative Destruction at Work“, Project-Syndicate.org, 15/July.
McKinsey Global Institute, 2014, Global flows in the digital age: How Trade, Finance, People and Data Connect the World Economy.
Rifkin, J., 2014, The Zero Marginal Cost Society: The Internet of Things, the Collaborative Commons, and the Eclipse of Capitalism, New York, Palgrave Macmillan Trade.
“Robot commercialisti o radiologi: così saranno i nostri concorrenti”, Corriere.it, 14/8/2014.
Spence, M., 2014, “Labor’s Digital Displacement“, Project-Syndicate.org, 22/5/2014.
“The bloodiest tech industry layoffs of 2014 (so far)”, Inforworld.com, 30/07/2014.