Contro le pratiche digitali irriflessive o rassegnate al tempo del capitalismo della sorveglianza
L’incredibile vittoria per il migliore film del primo lungometraggio in lingua straniera (ovvero non inglese) all’edizione dei premi Oscar 2020 – Parasite del regista sud coreano Bong Joon-ho – è certamente un segno rivelatore dei tempi, stretti come siamo fra opzioni risolutive che hanno margini di manovra – a livello economico, politico e finanche ambientali – minimali.
Il film, a mio parere, ha proprio il merito di avere evidenziato questa ristrettezza esistenziale, così come l’incessante lavorio nella ricerca di possibilità di vita, che in questo caso si declinano per le vie parassitarie. Tutto ciò accade nel mondo umano ma, pensando alle crisi epidemiche e alla nostra continuità ambientale, anche animale – una sfida portata avanti con arguzia e molto inganno nei confronti delle regole e dei limiti a cui possono trovarsi assoggettati/schiacciati (socialmente, economicamente e ambientalmente) gli essere viventi in un dato periodo storico. Tra l’altro la metafora parassitaria è un potente stimolo per considerare i contraccolpi che ogni sconfinamento esagerato di potere comporta – e proprio la storia dei salti (spillover) dei virus tra specie diverse lo dimostra (Quammen, 2012).
Prendo allora spunto da questo evento per evidenziare un’altra forma di parassitismo, quello digitale – nel film vi sono, e per me non casualmente, molte suggestioni sul tema, ad esempio riguardo all’uso di dispositivi digitali e, soprattutto, nella stessa azione parassitaria dei protagonisti, che, sopravvivendo disagiatamente in una grande città della moderna Sud Corea, provano a vivere sulle spalle di un facoltoso imprenditore, guarda caso attivo proprio nell’industria del digitale.
Sul parassitismo digitale
Ma cosa si intende qui per parassitismo digitale? Il fatto che ci siamo abituati, o anche rassegnati, a utilizzare quasi irriflessivamente, per comodità ma anche per il calcolo di un’immediata convenienza, tutta una serie di strumenti e infrastrutture digitali sempre più essenziali, messe a disposizione, con la formula del free, da aziende private a fronte di un alto grado di intrusività nelle nostre vite personali, e tutto ciò senza pensare sufficientemente al pegno da pagare, oppure, nel caso dei più coscienziosi, nell’illusione di conoscerne il prezzo.
La storia del radicamento sociale delle tecnologie digitali in rete, nato e cresciuto con internet, la conosciamo. Gli ultimi due decenni ci hanno infatti proiettato e infine stabilizzato in un contesto in cui lavoro, intrattenimento, socialità e comunicazione vanno strettamente a braccetto con pratiche e dispositivi digitali che mediano, tramite potenti applicazioni software, azioni e desideri. Questa nostra espansione di vita è data ormai per scontata e sono molte le industrie dei settori dell’ICT (Information and Communication Technology) che lavorano per supportare le nostre nuove pretese.
Tuttavia, molte questioni che da anni agitano il dibattito nel settore sono rimaste praticamente irrisolte nonostante gli ampi risvolti sociali e politici che la nuova vita in rete comporta – i dissidi comprendono l’esistente sbilanciamento, a livello di potere economico e peso degli oneri, tra i vari attori operativi nei sistemi di rete e dei contenuti, entrambi impegnati per sviluppare e mantenere in uno stato fiorente ed efficiente l’intero ecosistema.
Nel frattempo, il fatto di trovarci praticamente costretti a non poter vivere senza delle propaggini digitali sta consolidando una situazione che diventa ogni giorno più problematica, con intrecci che stravolgono molte delle cose che eravamo abituati a considerare separate perché attinenti all’ambito privato o pubblico.
La colonizzazione dei territori digitali
Dunque, continuiamo ad espanderci digitalmente in ogni genere di attività e ci circondiamo di oggetti intelligenti intimamente connessi alle nostre vite e ai nostri ambienti – un processo che in altri tempi avrebbe richiesto analisi e dibattiti condivisi a livello sociale e politico – ma continuiamo ad assistere a una sorta di colonizzazione silente e quasi inappellabile in cui una parte degli attori – gli abili proponenti delle innovazioni – sembra dover rispondere solo alle leggi del mercato. Un mercato, quello delle meraviglie del digitale e delle intelligenze artificiali, in cui tra il dover essere e il poter essere non vi è quasi mai partita avvenendo queste scelte nel solo ambito individuale, come se non ci fossero riflessi su altri aspetti della vita associativa. Eppure di queste aziende, a cui stiamo affidando il nostro futuro, abbiamo una informazione scarsa e opaca nonostante, in quanto persone anfibie tra i “cosiddetti” mondi online e offline, a loro concediamo moltissime informazioni personali e una finestra diretta su comportamenti e comunicazioni.
Su questo aspetto, per mia conoscenza, neanche i massimi esperti del settore riescono a fornire risposte chiare e rassicuranti, anzi, a sentire la nota studiosa statunitense Shoshana Zuboff – che, dopo sei anni di approfondimenti, ha dedicato all’argomento il poderoso libro Il capitalismo della sorveglianza – pare che la regola sottesa al contesto qui richiamato sia che “queste aziende devono sapere tutto di noi, mentre noi non dobbiamo conoscere niente di loro”.
Come si mantiene l’ecosistema di rete
Per comprendere meglio come si è intrecciata la matassa può essere utile esaminare il modello di business che mantiene in piedi il mondo internet, così come le relazioni (e regolamentazioni) che come individui vi stabiliamo a livello di interscambio.
Una qualunque persona che accede ai servizi della rete internet sa che per poterlo fare deve sottoscrivere un contratto con un determinato operatore di telecomunicazioni, a cui normalmente pagherà una certa cifra mensile per poter inviare e ricevere i dati attraverso cui alimentare le applicazioni ospitate sui propri dispositivi.
Il contratto di servizio relativo all’accesso è generalmente regolamentato e deriva in linea di massima da quelle tipologie di contratto a cui siamo stati abituati dall’uso del servizio telefonico. La cornice di questo tipo di rapporto è dunque ben definita e anche controllata dalle varie authority nazionali, così come chiaro è anche l’oggetto dello scambio: una certa quantità di passaggio dati per una certa quantità di denaro.
Entrati finalmente nella rete internet lo scenario dei rapporti di scambio inizia a complicarsi. Nel web, che è il regno incontrastato dei contenuti e dei servizi a cui ambiamo (intrattenimento, informazione, produttività, strumentazione tecnologica, educazione, comunicazione, ecc.) non troviamo poi una così grande varietà di modelli commerciali e associate forme di contrattualizzazione. Tra l’altro, si può dire che le relative cornici legali tendono, in termini di chiarezza nel rapporto di scambio, a offuscarsi man mano che ci allontaniamo dalla possibilità di definire esattamente l’oggetto dello scambio.
A grandi linee sono tre i modelli che vanno per la maggiore. I primi due – l’abbonamento ai servizi online oggetto dello scambio per un determinato arco temporale, normalmente con pagamenti mensili, e il modello del pagamento transazionale one-shot tipico dell’ecommerce – sono servizi paragonabili, in termini di contrattualizzazione legale, ai servizi dell’accesso ed ereditano, in definitiva, tutti i diritti e oneri dei classici servizi commerciali.
L’attrattività del free
Il terzo modello, che ha potuto giovarsi degli effetti della esternalità di rete e dell’economia di scala imperante in internet, è quello più nuovo ed è il modello freemium, ovvero l’offerta gratuita dei servizi, con pagamenti opzionali solo per determinate estensioni funzionali. Quest’ultimo modello è in assoluto il più popolare e tende, soprattutto quando la parte dei servizi a pagamento non si incrementa, a contare sul supporto della pubblicità.
Vi sono però dei campi applicativi – il searching online e i social network, in particolare – in cui, vista l’attrattività, la veloce espansione nell’utilizzo e la qualità dei dati individuali e personali catturati nelle attività di interazione, è la pubblicità il vero fine e la principale fonte di guadagno potendo offrire all’industria pubblicitaria audience altamente profilate e segmentate composte anche da centinaia di milioni di persone. Tali aziende dunque mettono a disposizione sulle loro infrastrutture private applicazioni di ogni genere per impegnare e intrattenere le persone, e anche raccogliere e ospitare i contenuti da loro generati, che diventano oggetto di scambio tra le cerchia delle persone che vi si aggregano.
In tale contesto dunque il fornitore avrà la possibilità di raccogliere dati personali, vagliare in divenire sia i contenuti che le attività, così come i comportamenti personali e di gruppo avuti nel corso dell’opera, e tutto ciò al fine di combinarli appropriatamente con le esigenze dei loro veri clienti commerciali, vale a dire gli inserzionisti pubblicitari.
Le difficoltà regolatorie
Come si può intuire, diviene abbastanza complicato regolamentare le cornici del rapporto fornitore-utente in un contesto simile, nonostante poi una definizione dei termini, condizioni e garanzie relativi ai servizi sia necessaria e anche obbligatoria. La materia è diventata complessa e anche incandescente per le polemiche e i dibattiti che coinvolgono ormai quasi quotidianamente semplici utenti, autorità e governi su temi quali la privacy, la libertà di espressione, la tendenza a polarizzare le discussioni e le possibilità di manipolazione, disinformazione e sorveglianza.
Intanto il dibattito prosegue abbastanza infruttuosamente, anche in presenza di fatti eclatanti come la possibilità che le ultime elezioni americane siano state inquinate dall’uso mirato di pubblicità divisive negli stati chiave da parte di potenze straniere, o la certezza che milioni di informazioni personali sulle tendenze politiche siano state messe a disposizione di aziende di marketing politico. Su quest’ultimo tema lo scandalo di Cambridge Analytica è esemplare, e vi è un bellissimo documentario, The Great Hack (Privacy violata), prodotto da Netflix – tra l’altro, gli autori Jehane Noujaim e Karim Amer sono stati nominati agli Oscar 2020 – che ne spiega bene la storia e le implicazioni.
In ogni caso, non è difficile credere che dietro all’impasse regolatoria vi siano altri interessi politici da difendere, certamente quelli geopolitici visto che vi sono potenze nazionali che si ritrovano ad avere in casa aziende così importanti e innovative – ad esempio, nell’ambito dello sviluppo delle intelligenze artificiali e dei relativi campi applicativi e di analisi ,così utili a vagliare l’immenso accumulo di un patrimonio informativo che coinvolge tutto il globo.
L’implicito ricatto che proroga lo status quo
D’altro canto, pretendere chiarezza in tali ambiti sarebbe la certificazione della fine del business poiché si dovrebbe formalizzare un contratto di servizio in cui si espliciti che il vero oggetto di scambio è l’analisi e lo studio dei nostri dati e comportamenti al fine dello sviluppo di nuovi prodotti commerciali che diano “certezze di risposta”, senz’altro per fini pubblicitari ma, come si può intuire, potenzialmente per ogni altro possibile scopo – in campo politico, industriale, medico, finanziario, ecc.
In effetti, con l’entrata in campo delle tecnologie d’intelligenza artificiale, software che affinano le proprie capacità lavorando su grandi masse di dati, si allargano gli scenari sulle capacità di analisi e sugli sviluppi, che possono comprendere ovviamente sia applicazioni dai risvolti benefici che quelle più inquietanti e manipolatorie, di cui, probabilmente, scopriremo l’esistenza solo per qualche evento fortuito o, peggio, per qualche danno o effetto collaterale indesiderato.
Tuttavia, come si diceva, in un mondo complesso, popoloso e interconnesso come l’attuale, per giunta in preda a continui sussulti di crisi, è impensabile poter fare a meno di servizi che si dimostrano così utili ed essenziali a tutti i livelli (economici, sociali, comunicativi). Ma ciò non sposta la problematica, anzi per certi versi l’aggrava poiché sembra consolidarsi una sorta di ricatto o inevitabilità dello status quo – per cui senza la raccolta e il monitoraggio dei dati personali non vi è convenienza ad erogarli. Tra l’altro, il successo e la permanenza di questo modello di sviluppo del business sta debordando in quasi tutti gli altri settori dell’industria e della finanza, ed ormai ognuno si sente in diritto di sfruttare, attraverso una propria app, ciò che la Zuboff chiama “il dividendo della sorveglianza” ovvero la possibilità di guadagnare anche dallo sfruttamento dei dati personali.
L’indispensabilità dei servizi digitali
Lo stallo creatosi è dunque notevole. I fornitori di tali servizi, contando su una debole risposta regolatoria e da un sempre attivo lobbismo, nel tempo hanno, per dirla con la Zuboff, colonizzato gli spazi d’uso, investendo pesantemente su infrastrutture poderose su scala globale, tanto che oggi sono i soli, a mio parere, a poter rispondere efficacemente a una domanda così accelerata e urgente come è stata quella ai tempi della crisi epidemica dovuta al coronavisus (covid-19), con interi nazioni costrette a rimanere chiuse in casa per settimane. Proprio in quei momenti abbiamo visto entrare in gioco la disponibilità di servizi per celebrare messe religiose, far videochiamare persone, autorità e medici, attivare piattaforme di e-learning, mantenere e far circolare informazioni, elaborare contenuti multimediali, organizzare concerti in streaming, e così via sui vari Instagram/Whatsapp/Facebook, Google/Youtube, Skype (Microsoft), Twitter, TikTok, ecc.
Servizi essenziali con produzione di masse enormi di dati sensibili “appaltati parassitariamente” ad aziende private che, tra l’altro, rispondono ad autorità nazionali ben precise – per lo più, Cina e Stati Uniti – con cui hanno legami saldi e, anche dal punto di vista economico, incestuosi mettendo a disposizione spesso, dietro lauti contratti miliardari, alcuni dei loro servizi (Amazon sta facendo causa al governo USA per essere stata scartata a favore di Microsoft-Azure nella fornitura di servizi cloud per la pubblica amministrazione, contratto dal valore di 10 miliardi di dollari).
Vi è un po’ di ironia sul fatto che proprio le varie autorità politiche nazionali nei vari distretti del mondo, quelle che dovrebbero controllare e trovare soluzioni a queste delicate problematiche, siano poi le prime ad aver contato in maniera parassitaria su queste piattaforme imbastendovi da tempo la propria comunicazione politica, non riflettendo abbastanza sul fatto che un tale sdoganamento induca le persone normali a pensare che Facebook o i servizi Whatsapp siano poi entità pubbliche.
Andare oltre la regolamentazione con progetti infrastrutturali
Su tali problematiche nel mondo si punta molto su azioni regolatorie decise, che siano in grado di smantellare questo sistema predatorio. Tuttavia, oltre a ciò, credo sia arrivato il momento di pensare seriamente a uscire dal gioco mettendo in campo progetti infrastrutturali, e una spinta doverosa deve iniziare dalle istituzioni pubbliche, per impegnarsi a fornire alle persone anche la scelta di strumenti alternativi, incentivando allo stesso tempo processi d’impresa virtuosi in settori così promettenti e vitali. Insomma investire, non aspettandosi (parassitariamente) che altri – e non si comprende perché debbano farlo – si sobbarchino l’onere per noi.
D’altronde ormai certe tecnologie sono diventate standardizzate, pensiamo a videochiamate, servizi streaming, chat, servizi cloud, ecc. e ogni nazione ha attive delle aziende in questi settori tecnologici – ad esempio, quelle di telecomunicazioni, tra l’altro messe all’angolo in questo campo – in grado di supportare, in un preciso quadro regolatorio e senza l’ingombrante driver pubblicitario, tali esigenze primarie. Ed un utile e valido alleato in questa strategia potrebbe essere il mondo delle aziende e delle community dell’open source, un universo ricco di software aperti, competenze ed entusiasmo, un variegato gruppo di persone battagliero, che non ha mai viaggiato senza una buona scorta di coscienza etica.
In ultimo, sul tema di questi intrecci tecnologici, sociali e politici segnalo un ottimo documento – Digital deceit (Inganno digitale) – che spiega in maggior dettaglio sia i modelli di business che le tecniche utilizzate e in via di sviluppo nel mondo digitale, un’analisi prodotta dal think tank New America.
Uno degli autori, Ben Scott, è stato intervistato sul tema dell’intelligenza artificiale e la regolamentazione pubblica, un’intervista che, tenuta il 23 marzo 2018 presso il Brookfield Institute for Innovation +Entrepreneurship Fellow in Canada, tocca in maniera chiara e divulgativa alcuni degli aspetti qui trattati.
Invece, sul tema del capitalismo della sorveglianza rimando volentieri ad una bella intervista che la studiosa Shoshana Zuboff, rispondendo alle domande del giornalista Matt Frei, ha rilasciato al canale televisivo inglese Channell Four, intervista che ho provveduto a sottotitolare in italiano per agevolarne nel caso la comprensione.
Riferimenti
“Amazon files lawsuit contesting Pentagon’s $10 billion cloud contract to Microsoft“, Reuters, 23/11/2019.
Dosh, D., Scott, B., 2018, Digital Deceit, The Technologies Behind Precision Propaganda on the Internet, New America.org.
Noujaim, J., Amer, K., 2019, The Great Hack (Privacy violata), Netflix.
Quammen, D., 2012, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, Milano, Adelphi.
Zuboff, S., 2019, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Roma, Luiss University Press.