Il web 2.0 e lo spirito delle culture tecniche amatoriali
L’evoluzione delle attuali piattaforme ICT (Information and Communication Technology) verso un’interazione utente che abbina la facilità d’uso a crescenti potenzialità nella creazione, gestione e condivisione di contenuti riguardanti le attività più varie è comunemente indicata con il termine web 2.0.
La definizione, coniata nel tipico stile che annuncia l’aggiornamento di un software, descrive la seconda nuova ondata di tecnologie internet. A differenza delle precedenti, sviluppatesi durante la prima fase del web (1995-2005), gli ultimi avanzamenti esaltano maggiormente la natura dinamica, aperta, relazionale e distribuita della rete, agevolando l’inserimento negli spazi digitali di una miriade di ambienti espressivi personali e/o di gruppo che, senza soluzione di continuità tra il tempo di lavoro e di svago, si organizzano secondo le nostre logiche tipicamente sociali, oscillanti tra gli interessi specifici e una voglia più indefinita di relazioni.
L’esenzione del lavoro tecnico
Il fenomeno dei social network, con le sue nuove forme di aggregazione cybersociali, coinvolge ormai centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, rivelandosi una forza in continua crescita. I siti che propongono tali generi di attività hanno tra i loro punti forti la gratuità di un’offerta comprendente strumenti e risorse che consentono di mettersi subito all’”opera”, predisponendo propri materiali e/o collegando/integrando facilmente le più varie tipologie di applicazioni, servizi e dati presenti nel ricco mondo digitale in modalità “self-service”.
Insomma, per fare un solo esempio, bastano cinque minuti per iscriversi a una qualche piattaforma digitale, avendo così a disposizione tutto ciò che serve per avviare e manutenere un sito personale senza dover entrare nel merito del processo e delle relative tecnologie informatiche che tutto ciò implica. Se pensiamo che solo 2-3 anni fa la costruzione e l’avviamento di un sito web necessitava di specifici investimenti in risorse hardware/software e in conoscenze tecniche, possiamo paragonare questo fenomeno a quello della fotografia: l’introduzione alla fine dell’Ottocento delle fotocamere portatili amatoriali della Kodak e l’esenzione anche del processo tecnico di sviluppo (“voi premete il pulsante, noi facciamo il resto”) fece esplodere nel mondo la mania fotografica e lo inondò di immagini.
In questo intervento ci tufferemo in un flashback che, dall’alto della nostra era digitale, può sembrare vertiginoso in quanto ci riporta al periodo in cui si iniziavano a sperimentare le prime forme di gestione autonoma e creativa delle tecnologie di comunicazione elettriche. Vedremo come queste esperienze, fondanti per l’epoca digitale, possono aiutarci a riflettere sui vincoli e sulle opportunità che il nostro rapporto con le tecnologie inevitabilmente produce. Esse infatti mettono in luce, insieme a ciò che appare una specie (dal punto di vista della libertà di espressione e di interazione) di manna tecnologica, anche gli aspetti più critici che le politiche commerciali e industriali, tendenti ad allargare il proprio bacino l’utenza, inducono in termini di “depotenziamento” delle capacità di intervento sulla materia più “hard” dello specifico medium.
In effetti, di fronte al clamoroso successo delle applicazioni web 2.0, inizia a serpeggiare una certa critica su diversi aspetti del fenomeno.
Le risorse del digitale
La perplessità più generale riguarda l’equilibrio, per niente solido ma tuttavia reale, stabilitosi tra la gratuità delle risorse infrastrutturali messe a disposizione dal provider, che investe e sviluppa i servizi hardware e software, e lo sfruttamento che lo stesso fa dei contenuti generati dagli utenti (UGC, User Generated Content).
Il fornitore di tecnologia non solo usufruisce degli investimenti pubblicitari che il contenuto prodotto dagli utenti – dati, attività, idee, opinioni, contatti personali, e tutto l’insieme delle loro quasi inesauribili articolazioni – riesce ad attirare, ma diviene anche conoscitore e possessore delle loro identità digitali gestendo un archivio di informazioni delicate sulle loro vite e abitudini, personali e di gruppo.
Sottotraccia, e quindi meno evidente, vi è però anche un’altra preoccupazione. Il grande afflusso di persone entusiaste di partecipare e alimentare i nuovi spazi sociali, favorito da una progettazione dei servizi che tende a filtrare le difficoltà tecniche per far concentrare gli utenti solo sul contenuto dell’attività, è anche visto come indebolimento di quelle capacità di apprendimento e di pratiche riguardanti lo stesso medium informatico, un impegno che nel tempo ha avuto il merito di aumentare la cognizione e l’abilità di destreggiarsi nei suoi ambiti tecnologici per partecipare, indirizzare e nel caso governare le sue infinite potenzialità di sviluppo e applicazione.
Insomma, non si vorrebbe che questo nuovo tipo di accesso alla sfera digitale basato su strumenti e procedure semplici e “pronte all’uso”, che è stato paradossalmente favorito dalla democratizzazione delle tecnologie informatiche ottenuta anche grazie alla presa in carico del suo linguaggio più tecnico da parte delle normali persone, svilisca o allontani il desiderio di confrontarsi e impegnarsi anche con il suo “cuore” tecnologico.
Per altro verso, infatti, le economie di scala del fenomeno dei social network stanno agevolando, in controtendenza con le filosofie di distribuzione delle risorse tipiche della prima fase dello sviluppo digitale, la concentrazione delle infrastrutture hardware e software in web-farm o data center immensi e misteriosamente de-localizzati, che impegnano nella loro costruzione degli enormi capitali la cui organizzazione rimane appannaggio delle grandi corporation.
Questi centri di produzione diventano i luoghi in cui converge e risiede tutto l’insieme dei dati e dei servizi che, grazie alle crescenti velocità di trasmissione degli attuali collegamenti di rete fissa e mobile, possono essere smistati efficacemente verso i terminali “snelli” degli utenti, a questo punto congegnati primariamente solo per gestire le operazioni di visualizzazione e di interfacciamento funzionale.
Conseguentemente, anche le funzioni di Ricerca & Sviluppo di una parte sempre più importante del mondo di internet potrebbero tornare a essere dominate da poche e interessate realtà, che incontrerebbero tendenzialmente un minore contrasto sulle scelte che riguardano le sue future evoluzioni per il venir meno della massa critica di quelle componenti tipicamente indipendenti costituite da persone dotate non solo di filosofie alternative, ma anche delle specifiche abilità tecniche per implementarle.
La socializzazione del lavoro tecnico
Se ci fosse richiesto da dove iniziare per esplorare il desiderio umano di fare proprie le tecnologie della comunicazione elettrica re-ingegnerizzandole secondo le proprie esigenze informative e sociali non potremmo che partire dai radio-amatori. Non solo perché sono notoriamente indicati come i primi veri hacker (esperti ICT), ma anche per la loro grande attualità insita nel fatto, ormai per noi utenti di apparati mobili assodato, di aver concepito e praticato una rete wireless alternativa, aperta e realmente interattiva in un momento in cui la tecnologia radio si chiudeva per la gran totalità al mondo unidirezionale del broadcasting dominato dalle corporation commerciali.
La loro storia ha dunque molte ragioni per rivelarsi ancora istruttiva facendoci entrare, allo stesso tempo, nelle pieghe di una “cultura tecnica” amatoriale, e dunque più autonoma e alternativa rispetto alle strette logiche della produzione e del profitto, un fenomeno culturale che dovrebbe ormai essere parte del nostro patrimonio più generale, una delle sue componenti più sensibili per comprendere e guidare le logiche e i processi dell’innovazione.
Di tutto ciò è stata diretta testimone la ricercatrice Kristen Haring, per inciso sorella del compianto artista della pop-art Keith Haring, essendosi addirittura trovata, davanti alla ricchezza del tema, a ribaltare la logica di un suo recente lavoro.
Invece di essere uno degli esempi per parlare in termini generali della cultura hobbistica, nel suo libro Ham Radio’s Technical Culture l’hobby della radio è diventato centrale relegando le note culturali sull’impegno amatoriale alla sola introduzione. Pubblicata dal Massachusetts Institute of Technology, la ricerca è inserita significativamente in una collana, “Inside Technology”, curata da Wiebe Bijker, Trevor Pinch e W. Bernard Carlson, studiosi noti per il loro approccio teorico ed empirico alla tecnologia vista in relazione ai contesti sociali e culturali in cui viene elaborata.
Non è difficile capire l’origine dell’attrazione che l’argomento ha esercitato sull’autrice.
Ogni notte migliaia di uomini si ritiravano nelle stazioni radio appositamente organizzate negli scantinati delle periferie o stipate in piccole stanzette di appartamenti cittadini a parlare ad amici del vicinato o a stranieri dell’altra parte del mondo. Essi comunicavano parlando attraverso un microfono, spingendo i tasti del telegrafo, producendo messaggi con il codice Morse o scrivendo con la tastiera di una telescrivente. Nell’epoca di internet le comunicazioni a distanza, istantanee e da persona a persona sembrano una cosa ordinaria. Ma i radio-amatori hanno stabilito tali generi di contatti sin dagli anni Dieci del 1900.
Il senso della cultura tecnica amatoriale
Tuttavia, ciò che alla fine contrassegna la ricerca è il senso di una cultura tecnica che nasce come forma di sfida e di ingegno per affermarsi come attività ricreativa che riesce a porsi fuori dagli schemi mainstream della tecnologia.
Allo stesso tempo, è un’attività che deve comunque confrontarsi con l’evoluzione delle tecnologie e delle politiche industriali e commerciali, così come cercare di stabilire delle collaborazioni che ne consentano la sopravvivenza affrontando con flessibilità le diverse realtà presenti negli ambiti tecnologici, dando vita a una filosofia e una pratica rivelatesi argini intelligenti per la difesa e la caratterizzazione di una loro autonomia progettuale.
“Sia che si presentassero in veste di leader che come provocatori, gli hobbisti hanno dimostrato che ci sono diverse opzioni per la cultura tecnica. Essi si impegnano in modi che sono divertenti, collaborativi, educativi, impegnativi e creativi. Questi schemi e valori erano indipendenti e a volte in diretto conflitto con la cultura tecnica della produzione guidata dal profitto”.
In questo senso, i radio-amatori sono i diretti precursori degli attivisti digitali. La lettera del 1976 di Bill Gates, “Open letter to hobbists”, in cui si tentava di porre freno agli scambi liberi del software BASIC sviluppato per uno dei primi personal computer venduti in scatole di montaggio, Altair, paventando che vi era il pericolo di provocare la fine della produzione di un buon software, è altamente emblematica.
Il suo interrogativo di fondo era: “chi si può permettere di fare un lavoro professionale per niente?”. Erano stati proprio i radio-amatori ad aver agito così per decenni, facendo dell’appropriazione sociale della tecnologia, dell’apertura della black-box, del rifiuto della sua interfaccia user-friendly, di un suo miglioramento e di uno sviluppo alternativo, della condivisione degli sforzi e della conoscenza, una propria filosofia.
Per l’autrice è “questo spirito l’eredità degli hobbisti, che ci ricorda che ci sono vie alternative nell’uso della tecnologia e nel modo di relazionarvisi”.
Origine della parola hobby e dimensione del fare
Fino al 1880 il termine hobby veniva usato per indicare ogni sorta di “ossessione” personale. Agli inizi del 1900 si iniziò ad associargli un significato diverso, che rimandava ad attività che perseguivano valori come la produttività, l’arricchimento formativo, il piacere e l’uso strutturato del tempo.
In contrasto con l’ebbrezza dispersiva del puro divertimento, gli hobby erano concepiti come attività che manteneva i partecipanti occupati e in costante fase di miglioramento. Una rivista popolare dedicata alla meccanica ed edita nel 1925 ne riporta una definizione in termini di “riflessione e cura, perizia e perseveranza infinita” che, “accoppiata con una sofisticata maestria”, produce un’importante lezione morale. La dimensione del fare era infatti centrale all’apprendimento. Le comunità degli hobbisti incoraggiavano le attività che passavano attraverso la verifica manuale e celebravano le virtù del learning by doing in quanto “istruttivo e costruttivo”.
Nei consigli agli associati era costante l’invito a non abbandonare le pratiche; ad esempio, quando nel 1890 iniziarono a spuntare i laboratori che offrivano il servizio di sviluppo fotografico, le riviste specializzate sconsigliavano di affidarvisi sia perché avrebbero fatto venire meno una parte del piacere, sia per la de-qualificazione della loro abilità tecnica: a quel punto, il pericolo era di perdere lo status di hobbista. Insomma, vi era insita una visione di contrasto alla standardizzazione della pratica, con le sue logiche di facilitazione dell’interazione (user-friendliness) e di impacchettamento (black-boxmess) delle funzionalità.
La logica del costruire o comprare (make/buy) è stata sempre un dilemma e un terreno di aperto confronto per gli hobbisti e, da questo punto di vista, sono sempre stati un facile obiettivo di ridicolizzazione. Vi era chi li criticava perché perdevano tempo a costruire una cosa che era possibile acquistare e avere immediatamente, e, con l’affinamento dei processi produttivi, a prezzi sempre più comparabili, se non minori.
Ma gli attacchi potevano giungere anche da chi si dichiarava per principio avverso all’industria. Sulla tecnologia radio-fonica e sulle sue attività di contorno è rimasto famoso l’atteggiamento caustico del filosofo Theodor W. Adorno, che vedeva anche le attività hobbistiche come interne al circuito dello sfruttamento e del dominio industriale dato che era impossibile assemblare un apparecchio senza dover dipendere dai componenti commerciali e dunque dai limiti imposti dalle politiche industriali.
Ciò che non era chiaro a tutti era la specifica collocazione degli hobbisti in una zona intermedia tra il consumo e la produzione, tra il divertimento e il lavoro, una posizione tattica di resistenza critica, per richiamare l’antropologo Michel de Certeau, che consentiva di essere produttivi e creativi. Anche se con la successiva introduzione dei kit di montaggio i margini di intervento venivano ad assottigliarsi, le apparecchiature costruite rimanevano delle loro creature e attraverso questo consumo produttivo si riusciva spesso ad apportare alterazioni per modificare dispositivi che l’industria voleva ultra-semplificati ma che, nella mentalità hobbistica, avevano il difetto di celare i meccanismi funzionali, riducendo l’operatività degli utenti da un impegno attento e consapevole di un processo a un superficiale pigiamento di tasti.
Questa resistenza al prendere le tecnologie così come arrivavano fu messa a dura prova, come vedremo, negli anni ’70 con l’integrazione spinta dei componenti elettronici e la forte riduzione dei prezzi tra gli apparati commerciali e quelli offerti in scatola di montaggio. Ciononostante, nel 1968 erano ben l’80% del totale gli apparati assemblati in uso nel mondo radio-amatoriale: il montaggio era in ogni caso un compromesso tra essere un consumatore puro e un produttore e consentiva al gruppo di vantare ancora una specifica abilità e identità tecnica.
L’indubbio indebolimento del training tecnico che le apparecchiature in kit producevano veniva contrastato attraverso il maggior incoraggiamento ad apportare modifiche autonome al progetto originario, un processo con il quale si sperava di recuperare parte delle qualità perdute. La grande attrazione esercitata in loro dai primi rudimentali computer è anche figlia di questa esigenza, che vedevano rivitalizzata davanti alla verginità, alla misteriosità e alla plasticità del nuovo campo applicativo. I manuali e le riviste radio-amatoriali insistevano infatti in maniera ossessiva, abbastanza ironicamente se pensiamo alla loro forma cartacea, sul fatto che “il know-how ottenuto attraverso la costruzione del dispositivo elettronico non può essere equiparato a quello ottenuto con la lettura di migliaia di libri!” (1957).
L’atteggiamento di dover mettere le “mani in pasta”, di non considerare l’apparato come forma tecnica chiusa e definita, era così radicato nella loro cultura che un manuale di hobbistica elettronica del 1973 descriveva i radio-amatori come “i veri hobbisti che dettero inizio ad una concezione di produzione autodidatta nel settore”. Questo spirito “anarchico” di non accettazione della standardizzazione si trasferì direttamente nella cultura hobbistica del computer. Ciò può essere colto direttamente dalle parole dei primi hacker radunati all’Homebrew Computer Club, che si autodefinivano “un gruppo di fuggitivi, perlomeno fuggitivi temporanei, dell’industria” che apprezzavano di “non essere visti dai dirigenti … coscienti che questa era la nostra opportunità per fare le cose nel modo che ritenevamo giusto fare”. E la separazione tra intenti amatoriali e commerciali, un’altra questione che crea da sempre dei turbamenti, avveniva proprio invocando “il linguaggio degli appassionati”.
L’identità tecnica
Per un gruppo di persone che si associa avendo in comune la passione per una tecnologia, che possiamo definire come un’applicazione fisica di conoscenze scientifiche, essa funziona come fattore identitario in due sensi: come fonte di identificazione e, al contempo, demarcatore di identità verso l’esterno.
Diventare un ham richiedeva un grande skill tecnico, macchinari (trasmettitori-ricevitori, antenna, cuffie, strumentazione di diagnosi) e, ovviamente, tempo e denaro. A ciò si doveva aggiungere un’ulteriore barriera: l’acquisizione di una licenza presso l’organo di controllo delle comunicazioni, la Federal Communication Commission (FCC). Il potenziale strategico delle comunicazioni wireless indusse infatti il governo a sottoporre a delle normative l’attività istituendo l’obbligo di superare un esame per poter attivare la stazione readio. La prova, sia scritta che orale, verteva su diverse materie tra cui la teoria elettronica e la regolamentazione radiofonica, a cui si aggiungeva un test pratico sull’utilizzo del codice morse.
Superato l’esame la commissione assegnava al radio-amatore un codice identificativo (call sign) e i parametri tecnici con cui predisporre e avviare alla trasmissione, nel rispetto delle frequenze aeree, la propria stazione radio. La legge fissava anche l’obbligo di tenere un registro ispezionabile, all’interno del quale dovevano essere annotati i dati tecnici di tutte le chiamate effettuate.
L’attenzione a loro riservata era vissuta allo stesso tempo con preoccupazione e orgoglio. Rispetto alla media delle persone, i radio-amatori risultavano avere un numero di anni di educazione formale maggiore ma, in seguito alla II guerra mondiale e dopo che la stessa materia radiofonica divenne oggetto di studio nei normali corsi scolastici, questa sorta di precondizione all’accesso dell’hobby si ammorbidì. In ciò concorse molto la necessità dell’esercito di preparare una nuova generazione di tecnici: la sua tipica composizione interclassista fece sì che lo skill tecnico non fosse come prima appannaggio della sola classe medio-alta. Per una nazione come gli Stati Uniti, che ha avuto e (sempre) ambisce a un ruolo politico, economico e tecnologico primario, la ricerca è una leva strategica e le esigenze e gli investimenti militari si rivelano in questo senso un puntello costante, pronto a supportare le continue sfide lanciate per calamitare le energie nazionali.
La cosiddetta guerra fredda contro la Russia negli anni ‘50 mise i radio-amatori nella particolare e delicata posizione di essere sia coccolati per la loro capacità tecnica che posti sotto osservazione come possibili unità di collegamento con il nemico. Ma, più in generale, essere considerati una risorsa preziosa per le proprie abilità tecniche iniziava ad essere una caratteristica legata al posto che la stessa tecnologia acquisiva nello sviluppo delle società moderne: gli hobbisti high-tech vedevano aumentare la loro reputazione, ma, proprio il loro essere “avanti”, li poneva in un area di difficile presa. In questo senso, la tensione tra ammirazione e controllo sociale è un’altra di quelle dimensioni fondative a cui sembrano dover sottostare gli hobbisti dell’high-tech .
Nonostante la messe di hardware e di conoscenza tecnica, l’hobby della radio fecondava sul lavoro centrato sulla dura materia del medium un’attività intensa e nuova di incontri, sia real-time nell’etere o sugli spazi diversamente mediati delle specifiche pubblicazioni, sia nei luoghi fisici dei vari club cittadini o regionali attraverso incontri personali. La focalizzazione sul medium, con l’esaltazione di una radio non passiva, aveva permesso di piegarlo ai contenuti della pura interazione sociale.
Nonostante la ricca aneddotica che descrive gli hobbisti come estranei alle attività e ai legami sociali – in genere, vista la prevalenza maschile, si evidenziano le lamentele delle compagne, definite “vedove” virtuali con appellativi quali “radio widow”, “hi-fi widow”, “computer widow” – gli hobby non solo non distruggevano la socialità ma avviavano circoli sociali nuovi e particolarmente vivi.
Gli hobbisti si descrivevano come una “confraternita tecnica” e in linea di principio erano aperti ai nuovi arrivati anche se la cultura tecnicistica che li caratterizzava, e di cui erano orgogliosi, costituiva una barriera non secondaria. Siccome essere parte di una comunità comporta la condivisione di norme e valori, le pubblicazioni del settore si prendevano la briga di ricordarle continuamente, anche a beneficio dei nuovi arrivati.
Le qualità del vero radio-amatore sono “spirito di ricerca, continuità, improvvisazione, immaginazione e mente aperta”. Lo scambio delle idee tecniche sono la testimonianza dello “spirito amatoriale che è sempre caratterizzato da amicizia, aiuto e voglia di condividere la propria conoscenza, le accortezze tecniche e il circuito degli amici con gli altri”.
Queste pubblicazioni tecniche erano dunque anche una potente fonte di inculturazione. D’altronde, come la comunità cresceva, anche le buone norme di associazione diventavano essenziali per non intralciarsi nello spazio aereo. Insieme alle istruzioni per ben operare con una stazione radio troviamo dunque gli inviti ad osservare l’etichetta, a non disturbare le comunicazioni che erano già in atto, perché “il senso di cortesia è veramente importante”.
I radio-amatori seppero sostenersi come rete sociale ma, cosa non secondaria, anche come industria di nicchia. Anzi, negli anni iniziali il loro apporto alla nascita dell’industria della radio è formalmente riconosciuto. La passione amatoriale e l’attiva opera di costruzione e di esempio, ma anche l’effettivo popolamento dell’etere, furono un importante volano anche per le successive attività commerciali.
Nel 1930 David Sarnoff, mitico presidente della RCA, affermava che “l’industria della radio maturò velocemente grazie al suo primo cliente – i radio-amatori”. L’hobby della radio sembrava incarnare al meglio il nuovo spirito ricreativo delle attività amatoriali e, durante la grande depressione, la convinzione che le attività del tempo libero alimentassero attitudini e caratteristiche positive spinse anche le agenzie sociali a sponsorizzarle al fine di mantenere un’etica industriosa del lavoro, nonostante le difficoltà e l’alto tasso di disoccupati.
L’impegno richiesto dalle attività amatoriali generava molti ritorni: la partecipazione irrobustiva gli skill e il senso del fare, si trovavano accoliti in comunità distanti, ci si sentiva in linea con il formidabile mondo tecnico, si stabilivano dei nuovi limiti personali, si miglioravano le opportunità di carriera, e tutto in un clima ricreativo. Inoltre, grazie alla loro specificità gli hobbisti avevano una grande influenza nel mondo tecnologico, ben oltre il loro perimetro. Come early adopter erano i leader del settore, pronti a interpretare gli accadimenti che interessano una tecnologia, di cui diventano una fonte critica, spesso alternativa, per definirne l’identità o spiegarne gli utilizzi.
Il tramonto e la nuova alba
Il raffreddamento della mania radio-amatoriale è stato provocato dal brusco cambio tecnologico dovuto all’introduzione, alla fine degli anni ’60, dei transistor, che andarono a sostituire la componente attiva dei circuiti elettronici costituita dalla valvola termoionica, che accelerarono le tecniche di integrazione circuitistica. Rispetto agli apparati basati sulla tecnologia delle valvole a vuoto con cui erano familiari gli hobbisti, “i transistor erano dispositivi minuscoli, opachi e sigillati – scatole nere, letteralmente e figurativamente – che rendevano il learning by doing dei laboratori casalinghi quasi impossibile”.
Gli interessi dei produttori erano ovviamente diversi. L’industria elettronica era attratta dai vantaggi dei componenti allo stato solido, molto meno costosi e più affidabili dei tubi a vuoto. I circuiti integrati (IC, Integrated Circuit) cambiavano radicalmente l’elettronica svolgendo le funzioni di dozzine e poi centinaia di componenti in dispositivi che si presentavano con un disegno molto compatto. Essi permisero infine il decollo dell’elettronica di consumo che potè contare su dei ritorni economici in grado di assorbire rapidamente i costi dovuti alla conversione degli skill lavorativi e alla re-ingegnerizzazione delle fabbriche.
La costruzione “autonoma” delle apparecchiature come strategia di appropriazione critica veniva però minata alla base. Non solo i circuiti integrati erano entità minute, compatte e sigillate ma contenevano un numero tale di funzioni che le stesse case manifattrici consideravano inutile e complicato fornire spiegazioni che entrassero nel dettaglio costruttivo. “A differenza delle scintillanti valvole e dei componenti discreti visivamente distinguibili, i circuiti integrati, avvolti in gusci opachi e standardizzati, non mostravano indizi su come lavoravano o su quello che facevano”.
Negli anni ’70 la vendita di kit basati sulla logica modulare delle schede elettroniche crollò. Con essi si imparava solo a fare collegamenti e, a detta degli stessi venditori, “la sola occasione per imparare è quando l’apparato non funziona così che richiede un’analisi, cosa d’altronde poco agevole di fronte all’essenzialità dei dispositivi elettronici odierni”.
E’ questo il periodo in cui nasce la sottocorrente hobbistica vintage che recupera all’uso le tecnologie precedenti impegnandosi a farle evolvere per tenerle allineate alle nuove funzioni. Contemporaneamente, si avvia un vero e proprio culto della valvola a vuoto, il componente attivo che rivestiva prima dell’avvento del transistor la funzione più importante. “Senza la lucentezza e il calore della valvola a vuoto” si lamentava un radio-amatore circa l’elettronica integrata “essa non ha più un’anima … è funzionale ma fredda”. Come nota Haring “l’atteggiamento emotivo dei radio-amatori verso le valvole denota in parte il desiderio di mantenere certi valori della comunità” ed è al contempo espressione della maggiore cura e attenzione verso il cuore tecnologico dell’apparato.
In ogni caso, lo stato di crisi era evidente, come si coglie da questo commento estratto da una rivista dell’epoca: “l’ham radio non è più ciò che era prima, e noi tutti stiamo vivendo in un mondo fantastico che prova a ricostruire il nostro hobby sui valori di ieri”. Una comunità che si costituisce attorno ad una certa tecnologia ne vive i cambiamenti come una sorta di minaccia o comunque di sfida alla propria struttura.
In origine i kit rappresentarono comunque un’innovazione che agevolò l’entrata di nuovi appassionati anche se al costo di diluirne le capacità tecniche. Ma l’integrazione funzionale dei microchip fu un vero colpo mortale che colpiva nel profondo il loro essere: il loro stato di prosumer, la libertà di curiosare negli apparati, la loro voglia di controllarli e di escogitare, nel fecondo e creativo territorio di mezzo tra la produzione e il consumo, soluzioni innovative per vecchie e nuove esigenze.
Il declino delle vendite di questo genere di kit fu inesorabile e significativo di un certo modo di pensare e vivere la tecnologia, o meglio, il segnale della fine di un certo ciclo tecnologico. L’annuncio negli Stati Uniti della cessazione delle vendite di kit radio-amatoriali, avvenuto nel 1992 da parte del maggior produttore, la Heath Company, fu commentato in prima pagine dal New York Times con l’emblematici titolo “Plug Is Pulled on Heathkits, Ending a Do-It-Yourself Era”.
Nello stesso periodo in cui i dispositivi elettronici specifici e mono-funzionali venivano rinchiusi e sigillati (embedded) nei potenti microchip, la microelettronica iniziò parallelamente ad aprirsi alla progettazione di altri generi di congegni, questa volta, quasi a compensare la precedente chiusura, dalla natura general purpose ovvero il computer personale.
I pc diventarono così negli anni ’70 il territorio di approdo naturale degli hobbisti radio-amatoriali, che vi ritrovarono tutto l’immaginario, in termini di potenzialità, futuro, carriera e applicazioni (militari, civili), una volta associato all’universo della radio. Trovando in commercio l’hw e il sw per costruire i primi “rudimentali” personal computer, quali l’Altair 8800, venduto in kit nel 1975 e Apple II, Commodore PET e il TRS-80 della Tandy Radio Shack, messi in commercio nel 1977, gli hobbisti high-tech si diressero verso l’era del computer.
I radio-amatori ne furono subito attratti, sia per integrarli in qualche modo alle loro apparecchiature, ad esempio, per automatizzare alcune procedure o sfruttare i primi tentativi di sintetizzazione della voce, sia per abbracciare un genere promettente e nuovo.
Il travaso tra le due culture fu chiaro. Le stesse riviste pioniere del settore, BYTE e KILOBAUD, furono avviate da Wayne Green, storico editore di riviste ham. Si parlò addirittura di una “rara occasione per un perfetto matrimonio fra due hobby” perché vi era lo stesso atteggiamento di “imparare e di guadagnare un po’ di controllo sugli strumenti, che dipende dall’essere capaci di spendere del tempo ‘rovistando’ attorno e dentro l’apparato”.
In effetti, lo spirito, la cultura e le pratiche ham aprirono la strada a quell’universo digitale in cui attualmente operiamo e parecchi membri del Homebrew Computer Club, il mitico club californiano in cui si incontravano le persone che segnarono la storia dell’informatica personale (Bob Marsh, Adam Osborne, Lee Felsenstein, Steve Jobs, Steve Wozniak, ecc.), provenivano da (o avevano avuto) esperienze radio-amatoriali.
Da certi punti di vista, la storia dei radio-amatori può funzionare come occasione per riaccendere l’attenzione sulle migliori strategie per far sì che la tecnologia rimanga, in tutte le sue articolazioni vitali, nella presa diretta della manualità e cultura delle persone che vivono negli ambiti più disparati della società. Oppure, al minimo, per ingegnarsi a salvaguardare, socialmente ed economicamente, come preziose risorse, le persone e i gruppi che vi si impegnano con perizia, fatica e responsabile autonomia.
Bibliografia
Haring, K., 2007, Ham Radio’s Technical Culture, Cambridge (Ma), Mit Press.
“Plug Is Pulled on Heathkits, Ending a Do-It-Yourself Era”, in New York Times, 30/3/1992.