Parte 2/ Il bilanciamento della ricchezza tra rete e contenuti
Come evidenziato nel precedente intervento, le scelte governative o statali hanno dunque modo di incidere su come il beneficio economico del “mercato internet” (vendere e comprare l’accesso all’informazione) si distribuisce. Attualmente sono gli ISP ad accusare uno scarso ritorno sugli investimenti, mentre i fornitori di contenuti — non tutti ma sicuramente quelli che sono diventati grandi player — vivono una condizione migliore.
Scegliendo di alleggerire i principi della neutralità della rete gli ISP potrebbero far pagare differentemente i fornitori di contenuto per gli accessi instaurando un controllo sui contenuti veicolati così da gestire una adeguata policy sui flussi di traffico. Ma ciò, si è visto, potrebbe deprimere lo sviluppo dei contenuti in quanto la loro produzione, in un sistema di prioritizzazione su base economica dei relativi flussi penalizzerebbe i meno abbienti, mentre non si può neanche esseri sicuri che gli investimenti sul fronte ISP crescano in quanto potrebbero prendere altre strade.
In ogni caso, siamo in un orizzonte tecnologico che permetterebbe di applicare regimi più sofisticati rispetto a quello molto semplice del pagamento del solo accesso.
Lo schema della tariffazione attuale e i nuovi modelli
Essendo internet una rete di reti, essa vive fondamentalmente su una fitta ragnatela di relazioni commerciali basate sulla capacità di interconnettere gli agenti primari — utenti e fornitori di contenuti — alle sue infrastrutture. Data la sua estensione globale, gli stessi ISP — gli aggregatori di questi agenti su base locale — devono attivare circuiti di scambio reciproci per allargare il rispettivo perimetro geografico.
Ciò richiede collegamenti multipli verso realtà adiacenti che svolgono una funzione locale similare, ma anche verso aggregatori che sappiano proiettarli su una scala geografica più grande, come appunto gli Internet Backbone Provider, che offrono agli ISP collegamenti su grandi distanze.
La neutralità di rete interessa soprattutto la zona definita ultimo o primo miglio, laddove si ha il controllo degli utenti finali, che sono poi l’obiettivo dei content provider. In questo contesto, i content provider, alla pari degli utenti, pagano solo l’accesso alla rete per poter mettere i loro server nella disponibilità degli utenti, che potranno interfacciarli per attivare operazioni di scambio(download/upload).
Ovviamente, essi richiedono quantità di banda maggiori rispetto a quella degli utenti. In ogni caso, gli ISP che controllano l’ultimo miglio potrebbero decidere di far pagare ai content provider anche un prezzo di transazione legato al traffico che trasportano per loro all’utente finale assicurandolo a qualità differenziate. Così facendo la loro remunerazione si comporrebbe non solo del contributo dell’utente finale loro diretto cliente, ma anche di quello del content provider per la qualitò differenziata del servizio assicurata, e ciò sia che il content provider è direttamente connesso, sia che risieda in qualche parte a monte di essa. (Tra gli ISP che fungono da intermediatori dei traffici di transito il guadagno si forma in base al pagamento dei volumi di traffico scambiati reciprocamente, così come per la propagazione dei dati verso le altre reti unilateralmente collegate).
In questo contesto, nuovi modelli di pricing potrebbero essere attivati a fronte della possibilità di analizzare più a fondo i traffici veicolati dai provider di rete. Negli ultimi anni, sia la crescita esponenziale delle performance computazionali sia l’esigenza di gestire la qualità dei flussi — difesa da attacchi che impediscono gli accessi ai siti, propagazione di virus, sensibilità ai ritardi per applicazioni real-time quali voce e video streaming, ma anche obblighi di controllo per indagini giudiziarie, ecc. — sono stati dei continui stimoli per sviluppare tecnologie di analisi capaci di ispezionare ogni singolo pacchetto dati.
D’altro canto, una volta in campo, la Deep Packet Inspection (DPI) si presta ad essere sfruttata anche per fini commerciali, ad esempio per i tanto contestati behavioural advertising, l’accumulo di dati puntuali sull’utilizzo di internet da parte degli utenti a fini di targetizzazione pubblicitaria.
Il metodo si presta dunque a molte altre possibilità in vista di una lievitazione degli introiti – gli ISP potrebbero vendere i dati alle agenzie pubblicitarie, una pratica che comunque cozza contro le leggi della privacy. Più in generale, la tecnologia permette di discriminare in base al contenuto veicolato così come alle sorgenti e ai destinatari della comunicazione, e ciò fa immaginare ogni sorta di nuovi modelli di pagamento.
In definitiva, attraverso la DPI arriva la possibilità da parte degli ISP di istituire dei modelli di discriminazione del prezzo e di prioritarizzazione dei traffici: gli ISP riescono ora a far pagare a diversi fornitori di contenuto prezzi differenti per utilizzare l’ultimo miglio della propria rete. La disponibilità della tecnologia DPI ha aggiunto urgenza al dibattito sulla neutralità.
Discriminazione delle tariffe e trasferimento di ricchezza
La discriminazione del prezzo, offrire lo stesso bene a valori monetari diversi in base alla disponibilità a pagare dell’acquirente, è un concetto economico di per sé non negativo, si pensi agli oggetti artigianali che potrebbero incontrare un apprezzamento maggiore negli amatori. Inoltre, è uno schema che troviamo applicato laddove si creano opportunità di rivendita per servizi che, in mercati locali, non sono facilmente replicabili ma attorno a cui si vogliono nel frattempo creare alternative, con la speranza che i nuovi entranti abbiano poi la forza di diventare dei produttori autonomi — è il caso degli accessi alle reti locali di telecomunicazioni venduti in unbundling.
[Allora] se agli ISP fosse permesso di far pagare a differenti siti web prezzi diversi per acceder ai propri utenti, i fornitori di contenuto potrebbero dover pagare un prezzo più vicino alla loro piena volontà di raggiungere gli utenti. Il che significa che, facendo pagare ai fornitori di contenuto la piena somma per accedere gli utenti finali, gli ISP sarebbero capaci di estrarre tutti i benefici economici dalla transazione.
Le regole sulla neutralità di rete mirano, come si è detto, a massimizzare il beneficio economico di internet per tutta la società. La discriminazione dei prezzi da parte degli ISP sarebbe invero una redistribuzione dei benefici all’interno di un determinato valore globale di questi benefici (siamo in presenza di un gioco a somma zero). Siamo in presenza, cioè, di uno spostamento di risorse fra le due entità che investono in internet, e lo scopo sarebbe quello di accrescerne il valore e continuare a innovarla.
Ad analizzare l’attuale situazione si può convenire sul fatto che siamo in un periodo in cui si registra uno sbilanciamento dei benefici a favore dei fornitori di contenuti. E tuttavia,
permettere la discriminazione dei prezzi ridurrebbe gli incentivi all’investimento da parte dei fornitori di contenuto nella parte di internet da loro posseduta (il contenuto), mentre gli ISP possono avere più incentivi a investire nelle infrastrutture di internet (la parte della rete da loro posseduta). Questo allineamento degli incentivi causerebbe in ultimo un problema dato che sia i contenuti che le infrastrutture sono soggette alle esternalità positive. Così, i trasferimenti di ricchezza tra entrambi sono problematici perché amplificherebbero ulteriormente le esistenti tendenze a mantenere al di sotto del livello necessario gli investimenti. Sennonché, come vedremo, per i governi è più semplice affrontare i problemi relativi alla caduta degli investimenti infrastrutturali. La protezione degli attuali surplus dei fornitori di contenuto è l’opzione migliore data la struttura del mercato di internet e la difficoltà di sussidiare direttamente la creazione di contenuti.
Ma quali ricadute comporterebbe una riduzione degli investimenti?
Gli investimenti sono cruciali sia per le infrastrutture che per i contenuti se desideriamo veder crescere internet, diventata un importante input per molte industrie vitali della nostra economia — per non parlare della sua importanza per la partecipazione politica, l’educazione e il libero scambio di informazioni e idee.
Dunque, se in teoria i trasferimenti di ricchezza non implicano il peggioramento dell’efficienza, nella pratica si configura però un nuovo equilibrio che può peggiorare lo stato degli investimenti complessivi nei due settori (infrastrutture, contenuti).
La discriminazione dei prezzi da parte degli ISP ha poi diversi svantaggi. Il primo è che un governo ha difficoltà nello stabilire degli incentivi di compensazione per i creatori di contenuti — a chi, perché, quanto, ecc. Il secondo problema è che, e si hanno delle prove nei passati comportamenti, i maggior introiti degli ISP non si riverbererebbero in maggiori investimenti se non in minima parte. Terza cosa, è improbabile che gli ISP applichino una politica di discriminazione che possa incontrare perfettamente i desideri degli utenti, cosa che richiederebbe una mole poderosa di informazioni capillari.
Discriminazione e alterazione degli incentivi all’investimento
La convinzione che la discriminazione del prezzo sia la strada giusta ai problemi di internet non considera che il beneficio economico di questo mercato ha un valore finito. Il vantaggio degli ISP va dunque a svantaggio di qualcun altro rivelandosi inoltre uno strumento estremamente inefficiente per incrementare gli investimenti sulle infrastrutture.
Tra l’altro, il problema dell’espansione di internet è visto spesso in termini abbastanza riduttivi in quanto ci si concentra solo sugli aspetti economicamente più semplici da quantizzare o, per dirla in altri termini, misurabili — un po’ come la storia del PIL per misurare il benessere di un paese. Ad esempio, uno dei parametri più apprezzati è la diffusione e qualità degli accessi broadband, che è poi il driver che guida i ragionamenti che supportano il trasferimento di ricchezza verso gli ISP.
La World Bank ha stimato che ogni incremento di accessi broadband del 10% genera in un paese sviluppato un incremento del PIL del 1,2%. (Ciò è relativo ad un paese quale gli Stati Uniti, cresciuti a una media del 2,8% negli ultimi 20 anni e una penetrazione broadband attuale al di sotto del 50%). In teoria, se tutto il trasferimento dovuto alla discriminazione dei prezzi si dirigesse verso la realizzazione di nuovi accessi broadband, l’operazione si rivelerebbe oltremodo vantaggiosa. Peccato che
il valore di internet è solo parzialmente collegato al livello delle infrastrutture fornite dagli ISP. Anche un sistema di infrastrutture notevolmente sviluppato senza dei contenuti di qualità che li accompagni si rivelerebbe inadeguato nell’attrarre accessi. Per questa ragione i regolatori devono considerare l’impatto dei principi di neutralità sugli incentivi ad investire nelle infrastrutture e nei contenuti, e su come questi due settori insieme portino valore agli utenti.
La discriminazione dei prezzi è oltretutto uno strumento imperfetto e poco sofisticato per finanziare le nuove infrastrutture. Prima cosa, esso si basa su quanto già investito e dunque ripaga ciò che è stato rispetto a ciò che verrà, tanto è vero che ne rimarrebbero esclusi i nuovi soggetti che si apprestano a entrare nel business e, d’altro canto, solo chi è attualmente ben posizionato può sfruttarlo al meglio. Invece, vi sono strumenti migliori per finanziare il nuovo.
Si veda l’esempio della figura 7. La discriminazione del prezzo consente all’ISP di avere un ritorno sugli investimenti (100 miliardi di dollari già fatti + 25 da fare) del 5%. Ciò significa che il guadagno nell’anno per l’ISP è di 6, 25 miliardi di dollari (5% di 125Mil.di). In alternativa, un programma di incentivazione governativa, ma solo sui nuovi investimenti, che garantisca lo stesso il 5% per avere i nuovi impianti costerebbe alla comunità 1,25 miliardi per anno. Dunque, per avere gli stessi ritorni infrastrutturali, la politica della discriminazione dei prezzi trasferirebbe 5 volte di più all’ISP.
Inoltre, solo gli ISP con una base clienti notevolmente larga riuscirebbe a racimolare livelli sostanziali di ricchezza mentre i piccoli provider, essendo meno appetibili per i fornitori di contenuto, non riuscirebbero a imporre dei prezzi adeguati a remunerare gli investimenti rendendo ancora più disomogenea la rete.
Un altro aspetto della questione riguarda il livello della competizione, dove si registra una condizione molto diversa tra il settore degli accessi e quello dei contenuti. Quasi dappertutto nel mondo, sono poche le alternative che si hanno a livello di offerta broadband locale (tanto da richiedere spesso delle politiche di intervento regolatorio) mentre, dato le minori barriere d’entrata rispetto alla costituzione di un’infrastruttura di rete, la competizione nel settore dei contenuti è sicuramente maggiore.
Questo comporta anche che vi è una maggior possibilità che i fornitori di contenuti reinvestano nella propria attività essendo sottoposta alle continue “insidie” della concorrenza, i cui nuovi prodotti possono anche azzerare le posizioni detenute trovando un’attenzione maggiore delle persone, utenti sempre più abituati a forme nuove di servizi e intrattenimento.
In definitiva, vi sono mezzi più puntuali per controllare queste complesse dinamiche e ottenere un ritorno dei benefici socialmente ed economicamente più efficienti rispetto alla discriminazione dei prezzi, e la neutralità della rete è, nel lungo periodo, una delle possibilità.
Se la politica commerciale di voler differenziare i prezzi in base ai contenuti accedibili solleva dubbi rispetto alle sue ricadute generali, un altro problema è la difficoltà per l’ISP di definire un prezzo “giusto”.
Per catturare il massimo del surplus economico dalla transazione che vede coinvolti l’utente finale della propria rete e quel particolare fornitore di contenuto, l’ISP dovrebbe conoscere esattamente il valore che il proprietario dei contenuti attribuisce al fatto che i suoi beni raggiungano l’utente.
Solo allora sarà possibile catturare, da parte del ISP, l’intero surplus. Se la discriminazione del prezzo è imperfetta, come è probabile che sia, allora il trasferimento di ricchezza dal fornitore di contenuto all’ISP potrebbe alterare la quantità dei beni o servizi scambiati nel mercato creando in esso delle inefficienze.
In effetti, per conoscere esattamente quanto far pagare i contenuti trasportati il fornitore degli stessi dovrebbe comunicare all’ISP la sua reale attribuzione di valore, un calcolo che potrebbe altresì risultare problematico in quanto spesso si sottostimano o sovrastimano le reali opportunità a cui ogni singolo contatto può dare o non dare seguito.
Nell’ipotesi che la comunicazione avvenga, è chiaro che il fornitore tenderà a svalutare la transazione. Qualunque altra scelta indipendente da parte dell’ISP va incontro lo stesso a imperfezioni. Se fa pagare troppo poco rispetto al reale valore, il surplus economico della transazione rimarrà nelle mani del fornitore di contenuti. Se il prezzo è maggiore gli effetti saranno anche peggiori perché il fornitore di contenuti potrebbe uscire fuori del mercato generando una perdita per tutti — anche per fornitore di accesso e gli utenti finali — svilendo il valore globale della rete.
In un’ottica più generale di sostenibilità futura, e dunque di prospettiva degli investimenti
il potenziale per questo tipo di interventi innovativi aumenta l’incertezza sui ritorni di capitali investiti in internet, e dunque ridurrà il tasso degli investimenti.
Uno degli effetti della possibilità di prezzare differentemente i contenuti, che implica anche il venir meno della continuità di interconnessione fra determinati siti web e gli utenti di quel particolare ISP, apre a una situazione in cui non tutti gli utenti di internet riescono ad accedere gli stessi contenuti.
Questa condizione, tra le altre cose, impedisce di condividere i contenuti e dunque va a intaccare quella possibilità di circolazione libera e di creazione di nuove opportunità che rende il valore della rete unico e altamente apprezzabile. Tale svilimento, in termini di potenziale perdita di siti web e di utenti, potrebbe innescare, in un ambiente in cui si magnificano gli effetti di rete, un feedback altamente depressivo per il valore complessivo di internet.
Gli incentivi che funzionano male
In questo scenario si nota come nella non corretta applicazione di una discriminazione dei prezzi sia l’ISP applicante a subire di meno. Rispetto a un optimum sociale e dunque complessivo, gli svantaggi interessano soprattutto gli altri soggetti, che siano i fornitori di contenuto, gli altri ISP, gli utenti finali o internet come un tutto.
Ad esempio, un ISP come Verizon potrebbe scegliere di offrire contratti “prendere o lasciare” ai grandi fornitori di contenuti per un costo di 10.000 dollari al mese. Se per Wikipedia il valore dell’interesse a raggiungere gli utenti Verizon è più basso, la decisione sarà quella di rinunciarvi, mentre altre compagnie quali Yahoo e eBay, reputandolo più basso del valore da loro attribuibile, potrebbero accettarlo. Finché il valore di ogni abbonato che abbandona in conseguenza della perdita dei contenuti di Wikipedia non ammonta a 20.000 dollari Verizon proseguirà nella sua politica commerciale. In questo caso, Verizon migliora la sua situazione, nonostante questa peggiori per Wikipedia e tutti gli utenti.
Le critiche riguardano proprio tale mancanza di prospettiva generale. Ma la pratica di discriminare i prezzi sulla base dei contenuti ha alcuni costi nascosti che bruciano una parte della ricchezza acquisita al di fuori dal mercato di internet, nel senso che non faranno sviluppare né le infrastrutture di connessione né i contenuti.
I costi relativi a questo cambio di regime riguardano lo sviluppo di tutti quei sistemi, procedure e tempi necessari a stabilire, controllare, produrre documentazione e ricontrattare i modi e i termini di queste relazioni commerciali.
Ovviamente, lo spreco complessivo sarà sopportato dall’ISP finché potrà essere annegato nei relativi profitti.
Un altro importante costo di questo cambio di regime è l’incertezza. In effetti, nonostante si accusi i regolatori di rendere incerto il futuro — e in fondo essi non fanno altro che provare a conservare lo status quo del regime della neutralità in cui si è sempre operato — non si può non convenire sul fatto che tutte le questioni sollevate allarghino le variabili da considerare per intraprendere o mantenere un business.
Migliorare le infrastrutture attraverso il supporto statale
Come detto, gli interventi statali possono contrastare i meccanismi, quali le esternalità, che non permettono di sviluppare nei mercati i benefici ottimali per una società. Essi possono andare dalla creazione di meccanismi per nuovi mercati, forme di proprietà (brevetti o permessi), regolazione diretta, sussidi.
Un esempio è lo sviluppo di nuovi farmaci. La ricerca necessaria ai prodotti farmaceutici richiede degli investimenti il cui recupero farà parte dei costi di produzione e dunque del prezzo del farmaco. Se una volta commercializzato la ricetta può essere copiata dalle altre aziende, queste potrebbero vendere il farmaco a costi minori dato che possono detrarvi il costo non sostenuto della ricerca. La comunità potrebbe avere un vantaggio generale nell’acquisizione di un bene a prezzi minori, ma è evidente che tale sistema disincentiverebbe lo sviluppo di nuovi farmaci da parte dei privati. In questo caso, le autorità tendono a rilasciare dei brevetti temporanei al produttore in maniera tale che, per un certo periodo, la casa farmaceutica possa rientrare dell’investimento. Un’altra via è l’incentivazione con fondi pubblici della ricerca primaria nel settore.
Nel mercato di internet le correzioni delle esternalità positive devono tener conto della sua natura duale, vale a dire delle connessioni di rete e dei contenuti così da arrivare a una crescita che non crei disequilibrio. Si devono correggere le distorsioni che danneggiano gli investimenti ottimali su tutti e due i fronti.
In genere, ai governi si presentano due strategie:
stabilire una politica dei prezzi che incentivi l’investimento nell’infrastruttura e provare a sussidiarizzare la parte contenuti del mercato; oppure, stabilire una politica dei prezzi che aumenti gli incentivi per gli investimenti sui contenuti e creare una politica separata che sussidi direttamente l’infrastruttura di internet.
Data la relativa facilità a sussidiare le infrastrutture e la difficoltà nel farlo con i contenuti, la seconda opzione — una struttura dei prezzi che favorisca i contenuti e incentivi le infrastrutture — dovrebbe portare ai migliori risultati. Finanziare le infrastrutture è relativamente facile, e internet ha una componente che si inquadra tipicamente come bene pubblico infrastrutturale.
In genere, la natura delle infrastrutture è di essere beni non rivali e non esclusivi in cui lo Stato si riserva un ampio ruolo. Tali beni vanno incontro al problema del free-rider, ovvero nessuno vorrebbe pagarli in quanto si riesce a usufruirne lo stesso grazie al fatto che vi è qualcun’altro che li paga.
Più specificamente, i beni internet si caratterizzano come beni “club” perché sono beni non rivali ma escludibili. Ad ogni modo, il fatto di dover sviluppare infrastrutture ingenti — si calcola che i costi di un accesso broadband sono per l’80-90% dovuti alla predisposizione degli apparati e della linea fisica di connessione alla prima centrale di commutazione — configura tale mercato come monopolio naturale. Gli ingenti investimenti per mettere a punto una rete di accesso si rivelano una barriera ardua per i concorrenti degli operatori dominanti (incumbent). Il mercato da solo non riesce a risolvere, come nel caso del fenomeno del free-rider, tali problemi.
Tipicamente, in presenza di monopoli naturali, è con gli interventi delle autorità pubbliche che si riesce a controllare che gli utenti non debbano sopportare alte tariffe, e lo si fa stabilendo determinati schemi di prezzi. Parallelamente, le autorità mettono in atto politiche di sussidiarizzazione delle strutture in maniera che queste si possano sviluppare, assicurando così gestione e crescita con ritorni che riguardano l’intera comunità.
Nel settore delle telecomunicazioni la maggior parte delle politiche di incentivazione è imperniata intorno al concetto di “servizio universale”, che considera un genere di fornitura diritto fondamentale di ogni cittadino — l’esempio classico è il servizio telefonico. Su questa linea si sono sviluppati piani di finanziamento anche per l’estensione degli accessi broadband alle aree “disagiate” perché commercialmente poco appetibili secondo una rigida logica del ritorno degli investimenti.
Ci sono ragioni economiche forti per usare i sussidi diretti e assicurare che i progetti infrastrutturali o altri beni pubblici siano intrapresi: siccome i mercati privati tendono a tenere basse le forniture di beni club, come le infrastrutture di internet, esiste un ruolo per le autorità governative di assumere i passi necessari a correggere queste inefficienze attraverso investimenti diretti.
D’altro canto, sovvenzionare i contenuti è un’azione difficile dato che sono soggetti alla valutazione personale. I governi che hanno provato o provano ad attuare questa strategia vanno incontro sia alle critiche che ai fallimenti rispetto al recupero che l’azione dovrebbe esercitare nei confronti di politiche quali quelle della discriminazione dei prezzi.
Un esempio è relativo al sovvenzionamento del broadcasting pubblico negli Stati Uniti. Circa il 20% dei fondi di questo settore proviene dal governo pubblico, ma le polemiche sui gruppi o le tipologie di programmi che ne beneficiano sono sempre roventi e spesso a rischio di essere cancellati a secondo il prevalere di una determinata maggioranza.
Ogni volta che un’autorità governativa entra nel mercato dei contenuti, le sue azioni sono sottoposte alla critica sulla base del tipo di contenuto che si è scelto di sovvenzionare o di quello che ne è stato escluso. Quando le autorità forniscono il contenuto, esso non sarà mai gradito da tutti i cittadini — mentre saranno sempre molti quelli in disaccordo con le tesi o i contenuti che hanno ricevuto i fondi governativi.
In definitiva, vi è una chiara evidenza circa le possibilità di successo delle diverse strategie.
Quando si affrontano le scelte su come correggere le esternalità del mercato di internet le autorità devono prendere in considerazione un ampio spettro di opzioni politiche. Dato il successo che storicamente ha dimostrato il sovvenzionamento delle infrastrutture e la difficoltà di farlo per i contenuti, ha più senso correggere le esternalità istituendo la neutralità di rete — una politica dei prezzi che incentiva gli attori del mercato a investire in contenuti — e dunque sovvenzionare direttamente gli investimenti nelle infrastrutture.
I rischi della prioritarizzazione dei traffici
La tecnica di dare diverse priorità al traffico dei pacchetti dati permette di avere delle linee di accesso/distribuzione più veloci. Gli ISP riescono sia a velocizzare delle linee utente rispetto ad altre, sia a velocizzare dei singoli flussi di dati sulla base degli indirizzi di origine/destinazione o dei contenuti.
Un ISP potrebbe allora decidere di far pagare questa velocizzazione tra web e utente cosicché particolari contenuti, ad esempio di un determinato portale, hanno la precedenza sulla propria rete rispetto ai flussi di contenuti appartenenti ad altri siti web. Questa situazione sarebbe ideale nel caso di congestioni di rete e comunque determinerebbe un abbassamento del valore di quei servizi che decidono, per varie ragioni, di non pagare.
La tecnica permetterebbe anche la discriminazione delle tipologie di pacchetti, ad esempio elevando la priorità per quei contenuti più sensibili ai ritardi, tipicamente gli audio-visivi in streaming.
In economia si parla di “differenziazione dei prodotti” quando dei beni possono essere differenziati sulla base di caratteristiche che possono ampliare la scelta di un compratore che ha esigenze diverse.
Molti osservatori sono critici sul dare priorità diverse ai traffici perché gli inconvenienti supererebbero i benefici, mentre altri ne invocano l’applicazione come valido sistema di gestione per questo tipo di traffici. In ogni caso, le autorità bandiscono, attraverso i principi di neutralità, che valgono anche rispetto alla discriminazione dei contenuti, tali pratiche. In definitiva, gli ISP possono offrire linee più veloci a prezzi differenti, ma non accessi più veloci sulla base della discriminazione di qualche fornitore di contenuti.
Il pericolo di dare diverse priorità ai contenuti non è, ovviamente, di origine tecnica ma legato agli effetti che ciò comporterebbe sugli altri fornitori di contenuti, come visto precedentemente. Inoltre, la pratica avvantaggia solo il singolo ISP mentre degrada il valore di internet come insieme e dunque come bene dell’intera società.
Per alcuni gli effetti della prioritarizzazione potrebbero essere gli stessi della discriminazione dei prezzi. Solamente i fornitori di contenuto più ricchi o ben posizionati potrebbero permettersi la differenziazione creando disparità enormi, soprattutto verso gli imprenditori più deboli e a volte più innovativi. Inoltre, si stabilirebbe una gerarchia fittizia rispetto ai contenuti visto che i più disponibili lo sono solo sulla base della loro profittabilità.
D’altro canto, chi la difende la vede come via per potenziare le infrastrutture di rete grazie ai relativi benefici economici, o anche per poter sviluppare applicazioni altrimenti improponibili come la telemedicina, che necessitano appunto di linee veloci. Ma uno dei risvolti più probabili, in termini economici, è che la prioritarizzazione del traffico si trasformi velocemente in una sorta di discriminazione del prezzo. In effetti, i costi incrementali per trasformare il prodotto base in un prodotto diverso, così da giustificarne la differenziazione, sono così bassi da “costringere” il venditore a non tenerne conto per fissare il prezzo del “nuovo” bene. E dunque, il prezzo di quest’ultimo sarà sempre più alto di quanto sarebbe economicamente giustificato provocando uno spostamento di ricchezza non supportato da principi di efficienza e ottimalità, con gli effetti di disincentivare gli investimenti nei contenuti.
Nella maggior parte delle proposte riguardanti la tassazione dei fornitori di contenuti per la creazione di canali più veloci tra loro e gli utenti dell’ISP si propone uno schema in cui i fornitori di contenuti non devono pagare niente per le linee “lente” e un certo prezzo per quelle veloci.
È chiaro che le azioni di marketing degli ISP saranno tutte rivolte a ingraziarsi chi può comprare il servizio creando di fatto contenuti di categorie diverse e sempre più peggiorative per i fornitori di contenuti “lenti” che, per il fatto di stare tra chi non fa aumentare i profitti, non godrà di molta innovazione infrastrutturale essendo costretto, di fatto, o a uscire dal mercato o a pagare (posticipando forse l’uscita) per entrare nel gruppo delle connessioni veloci.
In ogni modo, l’ISP tenderà a tutelare i propri interessi che, rispetto a quelli globali di internet, saranno e sono visti dallo stesso come frazionali. Invece, l’effetto complessivo di ogni singolo comportamento diviene, nei confronti degli altri ISP, degli utenti e dei fornitori di contenuto, altamente problematico.
Si prenda ad esempio l’effetto sui nuovi soggetti imprenditori di nuovi contenuti. La difesa delle tecniche di prioritarizzazione da parte degli ISP che richiamano l’innovazione hanno chiaramente dei fondamenti validi. E tuttavia, è anche vero che internet, evolvendo sulla base delle policy di rete del best-effort, ha prodotto lo stesso una infinità di innovazione, mentre i rischi di accettare questa tecnica sono allo stesso tempo enormi in termini di limitazione dello sviluppo combinato delle infrastrutture e dei contenuti.
Inoltre, nulla vieta che si possano trovare delle eccezioni ai principi della neutralità per agevolare qualche particolare funzione. Ad ogni modo, è da notare che gli ISP sono praticamente i soli supporter di questi sviluppi tecnologici, mentre tutti gli altri, compresi i venture capitalist, soggetti particolarmente interessati all’innovazione, difendono l’architettura trasparente end-to-end di internet.
Un discorso diverso potrebbe essere quello relativo all’applicazione di forme di priorità che non si pagano ma che sono incluse nel servizio di accesso. In questo caso si parla di tecniche finalizzate a gestire meglio il traffico. A fronte di motivi di normale operatività in fasi di particolare congestione, le autorità di controllo già concedono margini di manovra. D’altronde, tali pratiche non generano un decremento di valore per internet. Al contrario, se applicate effettivamente in caso di reale necessità, si rivelerebbero tecniche tendenti ad assicurare una funzionalità garantita.
Diverso sarebbe se si propone, sempre in forma gratuita, una gestione dei traffici basata sempre sulla prioritarizzazione. In questo caso si potrebbero generare tutti gli inconvenienti descritti precedentemente dovuti alla discriminazione dei contenuti, gettando su tutta la struttura una pesante ombra di incertezza. Al contempo, si renderebbe necessario dimostrare il miglioramento della situazione per tutti coloro che operano in internet. In effetti, ancora una volta, solo gli ISP rimarrebbero nella posizione di poter sfruttare la nuova tecnica a proprio vantaggio, ricreando una situazione in cui il riallineamento degli incentivi a investire dovrebbe essere ottenuta sulla difficile strada di sussidiare i contenuti.
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