La svolta real-time
Le nuove frontiere della pubblicità si incardinano sempre di più ad un modo di vita sincretico, dove le esigenze che si presentano nell’immediatezza, caratteristica cara al marketing, pretendono di essere servite al meglio. D’altro canto, gli sviluppi dell’advertising online si trovano a proprio agio nel cavalcare due tendenze generali: a) la preferenza, da parte delle persone, a spostare o proseguire le attività sul versante mobile; b) l’esigenza di automatizzare al massimo i processi di gestione e vendita dei messaggi o del controllo delle relazioni commerciali sincronizzandoli alle informazioni che, provenienti direttamente dai contesti incorporati delle azioni umane, aiutano a indirizzare al meglio l’incontro tra la proposizione del contenuto e l’esigenza del consumatore.
Grazie alla possibilità di avere informazioni puntuali sugli utilizzatori dei servizi e sulle loro correnti esigenze, soprattutto da quando è possibile recepirle all’interno dei social network, i circuiti automatizzati della collocazione pubblicitaria mirata stanno subendo un’ulteriore accelerazione.
In sintesi, vi è la possibilità di implementare dei sistemi di Real Time Bidding (RTB) che si preoccupano di far incontrare all’istante domanda e offerta pubblicitaria in considerazione del massimo risultato in termini di targetizzazione, un processo win-win per le due parti, sempre più legato alla misura del risultato.
I dati su cui si basano questi meccanismi programmatici, come abbiamo detto, possono provenire da diverse fonti. Una delle più comuni è il software applicativo che ci aiuta nella navigazione del web (browser). Esso è spesso biasimato perché consente gli effetti deleteri della tracciabilità personale, che sono insiti in meccanismi quali il cookie, stringhe alfanumeriche di informazione scambiate dinamicamente nelle fasi di navigazione tra il browser e i siti web visitati. Ma lo scopo originario e utile del cookie è quello di mantenere memoria dei nostri passaggi così da evitarci di ripetere le medesime azioni.
Proprio per arginare le distorsioni e le proteste per il suo uso predatorio nella profilazione dei naviganti, sono nate parecchie iniziative di standardizzazione che consentirebbero una facile disabilitazione del meccanismo quando l’utente richieda esplicitamente di non voler essere tracciato. Parliamo ad esempio dell’impostazione di “do not track” possibile su molti browser tramite cui l’utente preavverte siti web e advertising server del suo desiderio di privacy.
Visti gli interessi in gioco, queste raccomandazioni al momento sono state però ignorate dalla stragrande maggioranza dell’industria dell’advertising e, d’altro canto, non dovremmo essere ingenui. Come dimostra un recente studio, è possibile individuare un utente internet – con il 94% di probabilità di successo – dalle specificità delle impronte digitali rilasciate dal combinato disposto del proprio apparato hw/sw di accesso in rete che denota caratteristiche uniche (Acar et al, 2013).
La resistenza da parte delle lobby degli advertiser ai nuovi meccanismi di “do not track” è comunque giustificata dal fatto che la tracciabilità tramite cookie è molto più semplice e diffusa e le alternative richiedono maggiori investimenti e (soprattutto) politiche di armonizzazione tra i software di interfacciamento, già funzionanti e ben distribuiti nei circuiti specializzati degli ad network.
In ogni caso, il browser può dire all’advertiser cosa si è visto (una macchina fotografica) e dove si è visto. Il dato più prezioso è sicuramente cosa la persona guarda (a cosa è interessato) mentre dove si guarda è parte di una statistica importante ma più facile da reperire. Tuttavia, con i social network la qualità di conoscenza catturabile attraverso i dati che facilitano la targetizzazione delle persone è cambiata radicalmente, ad iniziare dalle specifiche identità delle persone, che finiscono di essere utenti anonimi.
Prendiamo Twitter. Esso sa molto di noi: cosa ci interessa (cosa scriviamo), cosa seguiamo e da chi siamo seguiti, ed ha la possibilità di riagganciarci anche quando siamo fuori dalle sue mure grazie ai bottoni funzionali distribuiti ovunque che ci permettono di accreditarci tramite il suo portale1. Queste informazioni hanno un valore unico a livello di web real-time e la loro utilità potrebbe valere a lungo.
Se la “intent window” relativa alla volontà di acquisire una macchina fotografica potrebbe durare 1 o 2 settimane, il fatto di essere ammiratori di qualcuno o appassionati di qualcosa indica una categoria psicodemografica che non cambia per anni. Questo è noto solo a Twitter o Facebook ed è un dato che vale perché legato all’identification di Twitter e non al cookie, che invece può cambiare nel tempo o anche essere eliminato intenzionalmente. Le piattaforme pubblicitarie RTB provano dunque a massimizzare il valore dello spazio pubblicitario rispetto alle esigenze che al momento gli inserzionisti comunicano di avere, facendo leva sulle possibilità derivate dal controllo di tutta la user experience dell’utente.
Targetizzazione e attribuzione
Nonostante ci sia valore, ad esempio, nel sapere età, genere e status del navigatore web, il vero peso specifico è nel conoscerne l’identità: ad esempio, sapere che la stessa persona che sta guardando un paio di scarpe su un certo sito dal computer del lavoro è la stessa persona che sta intrattenendosi usando l’iPhone poco dopo mentre attende un amico o mentre sta interrogando Twitter sull’iPad quando torna a casa di notte. Oggi sono poche le aziende che riescono a metter insieme quelle esperienze (nel caso, un dispositivo desktop e due mobile) (tra le altre, Facebook, Twitter, Google, Apple, Amazon) (Garcia, 2013).
Una volta identificati tramite l’account e associati alle impronte digitali fornite dai vari dispositivi, le nostre esperienze di navigazione possono essere monitorate per tutto il tempo. Comunque, maggiore è la possibilità di arricchire il quadro informativo sull’utente – anonimizzato/personalizzato – maggiore è la possibilità, per un editore che ha la disponibilità o è agganciato a una piattaforma di scambio di tipo RTB, di poter sfruttare la magia in termini di targetizzazione e attribuzione.
Ovviamente, se la persona che sta navigando tramite il suo desktop sul sito delle scarpe non è più rintracciabile dall’ad exchange – ad esempio, non sta più utilizzando quell’esatto browser – i dati che si hanno sono inutili … Ma se lo è, allora il valore dello spazio espositivo dal prezzo di 0,20$ (per mille impression) passa a 20$ … (Garcia, 2013).
Ma se questo processo di targettizzazione è stato guidato e documentato dalle tecnologie messe in campo da Twitter ciò rende più semplice anche il processo di attribuzione, per cui i suoi inventory possono pretendere di essere venduti su di una base asta maggiore. Google è stato un capostipite delle tecnologie automatiche del commercio e rilascio della pubblicità con piattaforme quali Google Display Network, DoubleClick Ad Exchange, Invite Media, seguita a suo tempo da Microsoft (ma con risultati nettamente diversi dato il minor traino giocato dai suoi servizi di searching per il mondo web), ma tutta una nuova schiera di soggetti ne stanno seguendo la scia – ad esempio, Facebook nel 2012 ha introdotto una sua propria piattaforma di scambio automatico (FBX). Questo genere di commercio automatico sta diventando comunque una norma anche a livello di applicazioni di social mobile – Foursquare, che usa la geolocalizzazione per far condividere la propria posizione con i propri contatti presenti in zona, è una delle ultime ad essersi attrezzata con questa tecnologia.
Il back-end in azione
Per ricapitolare, proveremo a illustrare i meccanismi che “per miliardi di volte al giorno” scattano a fronte del nostro placido navigare e del silenzioso operare delle tecnologie RTB.
Dunque, un sistema RTB consente agli editori di mettere all’asta (in tempo reale) i propri spazi pubblicitari e agli inserzionisti di proporre la cifra da puntare per quella determinata impression, sempre più caratterizzabile in termini di target e quindi più efficace ma anche più costosa – non è un caso che si parli per questo segmento di pubblicità premium.
Il processo è completamente governato da piattaforme informatiche – ad server, sistemi SSP (Sell Side Platform), DSP (Demand Side Platform), ad/RTB exchange. I sistemi DSP organizzano e gestiscono il lato della domanda degli spazi pubblicitari da parte dei compratori. Essi rispondono ogni volta a un’offerta (bid) lanciata dai sistemi dell’SSP, ovvero dal fronte che aggrega i venditori degli spazi (editori). Gli SSP chiudono il processo dopo aver scelto la migliore proposta e inserito il messaggio pubblicitario nel relativo slot della pagina-contenuto. In effetti, le pagine web sono un insieme di contenuti assemblati all’istante e provenienti dalle fonti più disparate – parte dagli stessi editori del sito, il resto tramite i vari circuiti degli ad network. Un esempio del processo di popolamento delle pagine web è descritto da Wikipedia:
Un certo utente visita un sito web che mostra una pagina contenente un solo slot pubblicitario. Una chiamata viene allora attivata dal server di scambio – il data base del web server che supporta il Real Time Bidding (RTB) – verso il Demand Side Platform (DSP) o l’ad network/ ad exchange per determinare quale inserzionista vuole inserire il messaggio. Ogni utente ha associato un set di attributi (cookie) che sono trasferiti dall’exchage server al DSP e ciò determina il livello di interesse dell’inserzionista rispetto al target che vuole raggiungere. In base al valore attribuito a questo utente gli inserzionisti avanzano un’offerta. La più alta si aggiudica l’inserimento nella pagina. Spieghiamoci meglio con un semplice esempio: un utente punta a una pagina su un sito (editore) scaturendo con un click il downloading dalla stessa. Nel medesimo istante l’editore invia una ‘richiesta di offerta’ a migliaia di potenziali compratori di spazi pubblicitari dicendo ‘noi abbiamo questo utente che ha 30 anni, indiano, di genere maschile e residente nel New Jersey (USA), che ha recentemente ricercato un biglietto di ritorno per Delhi aprendo una pagina nel nostro sito. Quanto sei disposto a offrire per essere il solo inserzionista su questa pagina?’ Entro un tempo di circa 100 millesecondi l’editore riceve le offerte da diversi inserzionisti, e a sua volta analizza il gruppo per determinare sia l’offerta più alta che i brand da pubblicizzare. Il vincitore è avvertito dall’editore, che gli permette di inserire il messaggio nella pagina web. La velocità e la frequenza sono le cose più strabilianti dell’intero processo. Le intere serie di comunicazioni a due vie tra editore e inserzionisti impiegano 300-500 millisecondi e non provocano ritardi apprezzabili all’utente in attesa della composizione della pagina web. Il processo è ripetuto (in parallelo) per ogni slot pubblicitario presente nella pagina”.
Il social advertising
Le imprese online che offrono a persone, gruppi e/o aziende strumenti e piattaforme per condividere, senza alcun esborso economico, un qualche genere di attività relazionale sembrano essere in progressione continua. L’impiego della pubblicità all’interno delle piattaforme di social networking merita dunque uno specifico approfondimento per le speranze e le sfide apportate.
Intanto, i social network sono allo stesso tempo il segnale e il propulsore di quella saldatura sinergica tra i mondi online e offline in quanto portano in rete esigenze ed espressioni delle vite ordinarie di una montante moltitudine di persone. Questa sorta di democratizzazione informazionale, in un ambiente digitale tecnicamente monitorabile e centrato su cerchie relazionali più o meno ristrette, diventa per la pubblicità terreno fecondo per superare il fatto di doversi attivare in maniera generica e interruttiva rispetto al corso delle attività personali, per di più provando ad attirare l’attenzione con contenuti che sono considerati generalmente dalle persone tendenziosi, se non addirittura ingannevoli.
In alternativa, provando a ragionare in termini di permission marketing (Godin, 1999), per cui vi è un reciproco e (in qualche modo) concordato interesse a partecipare alla conversazione, la possibilità di misurare in concreto le dinamiche individuali e sociali intercettando esigenze e relazioni nel loro continuo emergere dovrebbe consentire di servire le persone confezionando i giusti consigli nei giusti momenti.
Il social marketing conta molto sull’estrapolazione di indizi dalle conversazioni sociali, il cui livello di attività è correlato a esigenze molto varie quali il bisogno di cercare informazioni, formare e mantenere legami, rendersi utili, scambiare informazioni – ma anche, semplicemente, fare gossip, che è un modo di rimodellare la percezione che gli altri hanno di noi perché, in ultimo, le conversazioni ci guidano e allo stesso tempo formano per stare più accettabilmente al mondo (Adams, 2013).
Inoltre, i social network rendono più facile la modulazione della circolarità e, usando una certa destrezza, anche dell’appropriatezza dei messaggi potendoli orchestrare per tipologia di legami (forti, deboli) e modelli di interazione, cosicché, ad esempio, ci si può aspettare di poter veicolare verso certe persone determinati contenuti perché più accettabili. In ultimo, una maggiore conoscenza delle interazioni sociali e la stessa volontà di rendersi utili fra conoscenti facilita lo scambio di informazioni intra e, soprattutto, inter gruppo2 – il passaparola degli spreadable content è mediato secondo strategie personali che possono riguardare il modo di farsi vedere dagli altri, ma anche le proprie capacità filtranti verso gli altri, che richiedono abilità psicologiche e sociali (Berger, 2013).
Nonostante i social network richiamino subito alla mente i player di grosso calibro, nel settore si possono annoverare centinaia di realtà specializzate in una qualche nicchia di attività. Tuttavia, sia il contenimento che la frantumazione di audience da parte dei social media è già una buona notizia a livello di proposizione dei servizi/prodotti, che per la pubblicità potrebbe essere paragonabile in qualche misura alla funzione di specializzazione del consumatore che ebbero le riviste specializzate (magazine) nei confronti dei giornali.
Ma, per dirla tutta, è l’idea di potersi inserire costantemente nel lifestream relazionale di cerchie personali – parentali, amicali, professionali o di varie affinità – insieme alla certezza che i gestori del network rendano disponibili informazioni accurate sui suoi frequentatori, ad alimentare le aspettative di poter affiliare, coinvolgere o avvicinare con tempestività e criterio i potenziali consumatori.
D’altro canto, il fatto che all’interno dei network si sappia veramente molto sugli utenti – dati socio e psico-demografici, relazioni, attività, abitudini – pone numerosi problemi. L’utenza sa di essere al centro di vari interessi e di essere di fatto sottomesso a un potere altamente asimmetrico da parte dei gestori, i quali devono rispondere degli investimenti effettuati per supportare gli sviluppi e la operatività dei social network. Attorno ad una generica disponibilità preventivamente accordata dall’utenza, spesso sulla base di termini di servizio definiti e continuamente ridefiniti in maniera ambigua e complicata, si innesta così un equilibrio di tensioni la cui delicata orchestrazione, da parte del gestore, diventa la chiave di volta per mantenere nell’ambiente un buon goodwill e, allo stesso tempo, generare, sulla base di un utilizzo delle informazioni forzatamente sperimentale e misurato3, ulteriori guadagni a livello di logiche di advertising4.
Oggettivamente, questo si rivela un compito difficile in ambienti in cui devono combinarsi i conti economici e l’impazienza degli azionisti con la sensibilità e sicurezza delle persone, il controllo della perizia e dei reali comportamenti degli innumerevoli ideatori e sviluppatori di applicazioni (interni ma soprattutto di terze parti) e il rispetto di persone e legislazioni nazionali, il tutto in un clima competitivo di forti critiche da parte di old e anche qualche new media. In questo clima sospettoso e di forte attenzione, vi è il continuo rischio di vedere gli operatori dei social network coinvolti in polemiche e scivoloni più o meno disastrosi.
Ad ogni modo, chi si occupa di marketing trova irresistibile il richiamo dei social network. Essi catalizzano la presenza di milioni di persone che vi si intrattengono piacevolmente per lunghi periodi di tempo5 facendo pensare alle condizioni relazionali “intime” del villaggio e del passa parola (word of mouth), con estensioni promozionali che possono momentaneamente allargarsi a cerchie “tribali” modulabili sulla base dei molteplici parametri “associativi” – conoscenze indirette, fasce generazionali, generi, interessi, località, ecc.
In effetti, davanti all’attivismo promozionale dei gestori dei network e al loro incessante e sotterraneo lavoro di ingegneria sociale per rendere ancora più attraenti gli investimenti in pubblicità, i brand sembrano rispondere con un approccio più riflessivo, attente a non rischiare di compromettere sia le possibilità evolutive del mezzo che, innanzitutto, i rapporti con i propri consumatori. La stragrande maggioranza infatti utilizza i social network in maniera soft per rafforzare la propria brand awareness e coinvolgere/attivare gruppi di fan, stabilendo relazioni e postando messaggi, alla pari degli altri partecipanti, mediante gli strumenti gratuiti messi a disposizione dei sottoscrittori.
Essi provano dunque a riscaldare il medium costruendo un legame che aiuti a far emergere inconsciamente le precedenti informazioni/esperienze visto che la nostra parte razionale si trova quasi sempre a capitolare nel momento in cui dobbiamo decidere sull’acquisto, travolti da una marea montante di informazioni (i consigli amicali mitigano l’affanno). La logica relazionale organica di opt-in è però di tanto in tanto affiancata, in una misura molto marginale rispetto alla totalità degli investimenti fatti in pubblicità (tradizionale e non), da campagne promozionali social in cui alcuni contenuti categorizzati come sponsorizzati, e dunque pagati al gestore del network (modello freemium), sono distribuiti oltre la cerchia dei fan secondo dei criteri pre-impostati.
In questo modo è chiaro che anche il social advertising prova ad avventurarsi, ma in maniera meno generica, in quella lotta per guadagnare attenzione propria del display advertising. I post e tweet sponsorizzati si inseriscono mimeticamente nei flussi costanti degli altri contenuti diventando, nel rumore di fondo, quel contenuto speciale ma indifferenziato a cui spesso ci si riferisce come native advertising. Il native advertising ha così più possibilità, nella tipica e crescente esperienza in-stream degli utilizzi mobili, di non essere preventivamente scansato, ma ciò comporta l’implicito rischio di rendere infine tutto il contenitore dei contenuti meno credibile.
Riferimenti
Acar et al., 2013, FPDetective: Dusting the Web for Fingerprinters, New York University, Dept. of Media, Culture, and Communication, NY, USA.
Adams, P., 2012, Grouped. How small groups of friends are the key to influence on the social web, Berkeley (CA), New Riders.
Berger, J., 2013, Contagious. Why things catch on, New York, Simon & Schuster.
Garcia, A., 2013, “Why Twitter Buying MoPub Is a Very Big Deal“, Medium.com, 27/10.
Note
1 Come spiega l’attivista digitale Cory Doctorow: “quando si accede a un servizio con Facebook, l’azienda espone una quantità enorme di dati personali sensibili all’operatore del servizio – dal vostro punto di vista politico, al vostro stato di relazione. Ma ancor peggio, la registrazione espone anche le informazioni personali dei vostri contatti: le loro posizioni, opinioni politiche, appartenenze organizzative, religione e altro ancora”. “What is exposed about you and your friends when you login with Facebook”, Boingboing.net, 27/1/2014.
2 Utilizzare i piccoli gruppi non solo per circoscrivere i messaggi ma anche per avere possibilità che questi possano travalicare i circoli più ristretti nel momento che una persona può fare da ponte tra gruppi organizzati per scopi diversi (per esperienze, per interesse, per frequentazioni scolastica, professionali, ecc.). Ad ogni modo, più le persone del circolo si allontanano come grado di conoscenza, più è probabile che aumenti la sensazione (per ragioni di razza, reddito, educazione) di estraneità, un effetto che limita la condivisione o diffusione.
3 La sperimentalità è insita nella quantità e qualità dei dati raccolti sull’utenza, che aprono prospettive di analisi e di applicabilità sempre nuove in ambienti in cui (generalmente) non si stabiliscono sulla materia confronti negoziali, se non a posteriori perché costretti. La misura è relativa all’implicito agreement di fare un uso informativo che sia benefico per tutte le parti ma che garantisca sensibilità e intera tutela della persona contro ogni possibile risvolto negativo. Per aggiungere, infine, che il loro efficace impiego in strumentalità pubblicitaria deve sempre fare i conti con ciò che sembra essere per le persone un ineliminabile turbamento: la percezione di essere vittima di un uso sfacciato dell’influenza sociale su se stessi (Tucker, 2011).
4 Le piattaforme di social network funzionano economicamente come multi-side market cosicché è possibile applicare business model diversi ai diversi gruppi di clienti che beneficiano dei suoi effetti di rete.
5 Come esempi di utenti attivi per i SN più famosi (Business Insider, 2013), Facebook è il fuoriclasse assoluto (1.19 miliardi); a seguire per numerosità Google+ (540 milioni); Linkedin (259 milioni); Twitter (232 milioni); Instagram (150 milioni); Pinterest (70 milioni). Il tempo di permanenza medio si aggira, in ogni parte del globo, intorno al 20-30% di quello dedicato a tutte le attività online e vi si accede indifferentemente da dispositivi fissi e mobili, più precisamente per Facebook, Google+, Pinterest il mobile conta per il 50%, per Twitter il 70%, per Linkedin il 20% e per Instagram il 99%.