Sulla superficialità o profondità delle culture pop
Ogni volta che avviene un grande cambiamento o che particolari innovazioni nelle forme della comunicazione attecchiscono velocemente (storicamente parlando) in ampi strati della popolazione, ecco aumentare la probabilità di imbattersi in un dibattito sui suoi effetti deleteri, con conseguente apertura (a cascata) di interventi pro o contro.
Come ebbe a indicare mirabilmente Umberto Eco in un saggio dedicato alla cultura popolare nel 1964, il tutto rientra nella logica consolidata che vede contrapporsi apocalittici e integrati. Da una parte vi è chi interpreta i nuovi usi e pratiche come l’avanzata dei “barbari”, dall’altra chi li accoglie come segnali e prove di vie alternative efficaci e più espressive nei confronti di problematiche altrimenti irrisolvibili così come di sensibilità soppresse.
Sovente lo scontro riesce a conquistare finanche le prime pagine dei giornali coinvolgendo personalità eterogenee che hanno però il limite di doversi esprimere su processi complessi in poche battute. E’ accaduto ultimamente in Italia, con «il Sole 24 Ore», ma anche negli Stati Uniti e Inghilterra, con il «New York Times», il «Wall Street Journal» e il «Guardian».
In quest’ultimo caso, guidati da quel senso pragmatico che contraddistingue particolarmente la cultura anglo-americana, i termini del confronto si sono ridotti alle categorie stupidità e intelligenza, con Nicholas Carr, giornalista, conferenziere e tecnologo a sottolineare l’indebolimento delle nostre qualità intellettive (attenzione, memorizzazione e dunque capacità di approfondimento), e Clay Shirky, brillante studioso di new media, che evidenzia come le nuove tecnologie comunicative siano un’enorme opportunità per l’aumento della nostra creatività e intelligenza a livello individuale e sociale.
Nello specifico, i due contendenti sono particolarmente preparati sui temi avendo appena pubblicato due saggi dai titoli molto indicativi. In Cognitive Surplus: Creativity and Generosity in a Connected Age Shirky si impegna a dimostrare come solo ora si abbia la possibilità di portare realmente a regime, tramite i new media digitali, l’accumulo di capacità intellettuali e creative affrancandole finalmente dalla passività a cui sono state relegate dai media tradizionali. In The Shallows: What the Internet Is Doing to Our Brains Carr richiama invece espressamente le “secche” acquatiche e, figurativamente, il regime di marginalità in cui il nostro cervello, abbandonando le tipiche “profondità” dei bacini, si sta cacciando e “deformando” inseguendo gli scoppiettii offerti dalle applicazioni di rete.
Tesi, antitesi, sintesi
Tuttavia, impostando i problemi in modo manicheo per ridurne la complessità, ci si ritrova inevitabilmente ad aver alzato la palla per lo schiacciatore di turno. In questo caso esso ha preso le sembianze del famoso neuroscienziato e divulgatore scientifico Steven Pinker che, nell’articolo Mind Over Mass Media, ha facile gioco nel piazzare la palla nell’angolino giusto, senza peraltro richiamare il famoso, e molto più variamente e finemente argomentato, lamento del Fedro di Platone sulla minaccia della scrittura per la mente dell’essere umano (400 a. C.). Afferma Pinker:
Le nuove forme dei media hanno sempre causato panico morale: la meccanizzazione dei processi di stampa, la nascita dei quotidiani, la letteratura popolare e la televisione sono stati tutti fenomeni denunciati come minacce alla capacità cerebrale e alla fibra morale dei loro consumatori. È così anche con le tecnologie elettroniche. PowerPoint, si dice, sta riducendo i discorsi a parole appuntate. I motori di ricerca abbassano la nostra intelligenza incoraggiandoci a scalfire superficialmente il sapere piuttosto che approfondirlo. Twitter sta restringendo la nostra capacità di concentrarci a lungo. E tuttavia la diffusione del panico spesso non fa i conti con la realtà. Quando i fumetti furono accusati di spingere la gioventù alla delinquenza negli anni Cinquanta, il crimine registrava dei livelli incredibilmente bassi, proprio come le denuncie dei video game negli anni Novanta coincisero con un notevole declino del crimine negli Stati Uniti. I decenni di utilizzo della televisione, delle radio a transistor e dei video musicali sono stati anche i decenni che hanno visto i punteggi relativi ai quozienti di intelligenza crescere continuamente.
Insomma, oltre che semplicistico, ipotizzare effetti così lineari, senza peraltro accertarsene seriamente, è alquanto primitivo rispetto alla tanto osannata scienza a cui ci si vorrebbe richiamare.
Gli effetti del consumo mediale sono molto probabilmente anche molto più limitati di quelli paventati. I critici dei media scrivono come se il cervello prendesse forma dalla qualità di quello che consuma, l’equivalenza in termini informativi di “voi siete quello che mangiate”. Come le popolazioni primitive che credevano che mangiare animali combattivi e forti li rendesse simili, essi presumono che guardare brevi spezzoni di video musicali trasformi il funzionamento della vostra vita mentale in stop-and-go altrettanto frammentati, o che il leggere gli item di PowerPoint e i post di Twitter riformuli nello stesso modo i vostri pensieri.
Che aumentino le possibilità di distrazione è indubbio ma il fenomeno non è assolutamente nuovo. Le tentazioni sono state sempre presenti nella vita dell’uomo ed è solo una questione di scelta della migliore strategia. D’altro canto, qualunque serio approfondimento richiederà impegno e continua applicazione, sforzi non propriamente naturali, a cui dedichiamo strutture educative specifiche che, appunto, dovranno mantenersi vive e in accordo con i cambiamenti del mondo.
I new media sono diventati popolari per una ragione. La conoscenza sta crescendo esponenzialmente mentre così non è per la capacità cerebrale e le ore di veglia dell’essere umano. Fortunatamente, le tecnologie dell’informazione e internet ci stanno aiutando a organizzare, cercare e recuperare il risultato del nostro lavoro intellettuale collettivo in scale diverse, da Twitter e i veloci sommari, agli e-book e alle enciclopedie online. Ben lontane dal renderci stupidi, queste tecnologie si rivelano le sole cose in grado di mantenerci intelligenti.
Andare oltre
Nonostante la compressione argomentativa, tali dibattiti sono certamente positivi. Si esplicitano le paure ma, come si vede, interessando ormai ambienti off-line e online che si rimbalzano reciprocamente i temi, hanno sia la bontà di portare in superficie i temi che di smontarne i luoghi comuni. Certo, quando si prova ad approfondire maggiormente, gli spazi necessari alla discussione iniziano a dilatarsi mandando un po’ in affanno i format di giornali e blog.
In coda a un suo recente intervento, John Naughton, giornalista dell’inglese «Guardian» e professore esperto di media, sembra quasi scusarsi per la lunghezza dello scritto, un risultato inevitabile se vogliamo affrontare il problema un po’ più «a tondo». E, di fronte ai nostri limiti nel comprendere le implicazioni di fenomeni così importanti e pervasivi, la cui piena rilevanza risulta solo dopo anni di riflessione e ricerca, ricorda che
la sola risposta razionale è quella (famosa) fornita dal ministro degli esteri di Mao Zedong, Zhou Enlai, che, quando gli fu domandato [1950] del significato della Rivoluzione Francese [1798] rispose: “E’ troppo presto per parlarne”.
Tra l’altro, Naughton invita a non fidarci dei resoconti prodotti dai media tradizionali perché spesso direttamente interessati alla svolta, e quasi sempre tendenti a parlarne negativamente. Alle piccole concessioni riguardo a una certa utilità si affiancano infatti gli strali sui pericoli di essere plagiati, istupiditi o peggio abusati, di distruggere industrie consolidate e incitare folle rumorose e vendicative, e così via. Eppure, chiosa il giornalista, nonostante questi disastri, miliardi di persone sono felici di usarli, e altrettanti sono disperati per non averne accesso!
Per quanto sintetico, Naughton deve dilungarsi per consigliare come tenere attivo il nostro spirito critico e avere idee più equilibrate sui nuovi media. I suoi consigli sono di mantenerli sempre in una prospettiva storica, di considerarne le singole componenti, ad esempio il web, come parti del più grande fenomeno Rete, di vederne gli effetti distruttivi come possibilità e non difetti, di pensare in termini di ecosistema più che di economia, di convincersi che è la complessità la nuova realtà, di vedere la Rete come il nuovo computer, di apprezzare i cambiamenti in senso partecipativo delle tecnologie di rete, di attrezzarsi alla gestione e alla difesa dei piaceri e dei pericoli che le tecnologie abilitano, di prendere atto che il regime dei copyright non è più adatto ai nuovi sistemi e, soprattutto, al tempo in cui viviamo.
Comunicazione di massa e modernità
Insomma, a volersi muovere con una certa circospezione, la materia si presenta abbastanza complicata, anche solo rimanendo sul lato più utilitaristico. Perché, per avere una visione migliore, si dovrebbe ampliare il campo e includere altre dimensioni altrettanto decisive.
Dovremmo cioè entrare con tutti e due i piedi nelle dinamiche e nei prodotti — che ancor oggi si fa tanta fatica a chiamare “culturali”, come certificano tali dibattiti — generati dalla “comunicazione di massa” e dunque del suo rapporto con i nuovi modi di produrre, lavorare, abitare, associarsi, consumare, viaggiare, esprimersi. In breve, ritornare sulle caratteristiche che abbiamo assunto e sviluppato in quanto cittadini della modernità.
È questo lo snodo in cui è possibile rintracciare l’origine delle domande su cosa è e su come si crea la cultura, un dubbio nato dai “preoccupanti” successi di tutta una serie di arti “minori” quando iniziano a sfidare, forti degli interessi/passioni/miserie insite nella vita reale e operosa di milioni di persone, le gerarchie, le opere e le estetiche legittimate dai detentori delle cosiddette culture “alte”.
All’inizio degli anni Sessanta vi un altro grande sociologo, Edgard Morin, a scrivere in proposito un saggio importante. Ne Lo spirito del tempo Morin si fa carico di indagare sul ruolo dell’industrializzazione delle «immagini e dei sogni» che corrono sulle rotative, telescriventi, pellicole, nastri magnetici, antenne radio e tv forgiando, conquistando e nutrendo, attraverso delle «merci amate», le nostre arrendevoli «anime», dando vita così a un patrimonio enorme di significati, miti, storie che si rendono disponibili alla vita in comune.
Chi ha frequentato o letto gli studi di Alberto Abruzzese, altro sociologo anticipatore e attento ai fenomeni considerati “marginali” della comunicazione, e dunque ai sottostanti immaginari individuali e collettivi dei consumi di massa — si veda, Forme estetiche e società di massa (1973), La grande scimmia. Mostri, vampiri, automi, mutanti. L’immaginario collettivo dalla letteratura al cinema e all’informazione (1979) — ha ben presente i suoi giudizi caustici e articolati riguardo allo sbarramento intellettuale che tali ricerche incontrano.
Eppure, a suo parere, la considerazione di minorità che vuole accomunarle allo stesso stato di valutazione dell’oggetto nasconde, neanche tanto bene, il vero motivo di tanta avversità: la enorme difficoltà di analizzare tali forme espressive, soprattutto quando si difetta di specifica passione, un altro impedimento, insieme allo sforzo e alle competenze multidisciplinari che questo genere di operazioni richiede, a sondare, per dirla non casualmente con le parole del filosofo tedesco Georg Simmel (1858-1918), «la profondità della superficie».
A questo punto, abbandonerei il prologo per riallacciarmi finalmente al titolo del contributo. A venirci in soccorso differentemente sull’argomento sarà appunto la musica jazz. O meglio, quanto ha saputo estrarre da essa in quanto fenomeno culturale lo studioso statunitense John A. Kouwenhoven, autore nel 1948 di un libro mitico e appassionato: il suo intento era infatti quello di far uscire dallo stato di presunta minorità le forme culturali e le “arti applicate” presenti negli Stati Uniti.
Il capitolo di Made in America: The Arts in Modern Civilization illustra, a mio parere superbamente, tenendo anche conto dell’anno in cui è stato elaborato, quanto precedentemente accennato, ed è, al di là dello scopo più generale, un vero e proprio dono per tutti gli appassionati di musica.
Pietra, acciaio e jazz
« (…) Il ruolo della cultura popolare (vernacolare) nel creare nuove forme di arte e ridare nuove basi alle vecchie tradizioni può essere rintracciato anche in altri campi: nella danza moderna, nell’evoluzione del cartone animato, nei fumetti, nei serial della radio, negli effetti delle tecniche fotografiche e cinematografiche fino alla fiction e alla poesia.
Ma è nella musica, specialmente nella musica conosciuta comunemente come jazz, che noi possiamo percepire più chiaramente sia l’estensione con cui le forme vernacolari e le tecniche sono riuscite a modificare le tradizioni più antiche, sia il grado a cui le nuove forme e le tecniche rimangono ancora ristrette.
Il jazz è un argomento su cui tante persone hanno opinioni molto poco equilibrate, e sarà bene, per lo scopo di questo lavoro, se potessimo evitare le controversie più calde che costantemente impegnano non solo coloro che lo apprezzano o disprezzano, ma anche le diverse anime dei suoi stessi ammiratori.
Dovremmo così evitare, se possibile, le dispute sulle precise relazioni tra il jazz e la musica primitiva delle tribù africane, e il grado di miglioramento o peggioramento rispetto alle deviazioni dalla musica strumentale prodotta dalle band di colore nei club di New Orleans cinquanta anni fa.
Iniziamo allora con il definire cosa intendiamo qui con jazz: la musica da ballo popolare americana, escludente i valzer, come essa è stata eseguita nel passato quarto di secolo. Con questa definizione vogliamo includere non solo la musica strumentale spontanea o l’improvvisazione vocale chiamata hot jazz, rappresentata da performer quali Louis Amstrong, ma anche gli attenti riarrangiamenti, comprendenti improvvisazioni di strumenti singoli e “breaks”, o bande di danza professionali, quali quelle di Benny Goodman o Tommy Dorsey, e questo sia che suonassero cose provenienti da brani composti da Tin Pan Alley per vecchie operette o tradizionali ballate, sia che suonassero melodie provenienti da musica da concerto dell’Europa occidentale o pezzi direttamente composti da Tin Pan Alley per imitare le improvvisazioni hot-jazz.
In questa larga accezione il jazz è un prodotto dell’interazione tra tradizione vernacolare e colta, e tuttavia le sue caratteristiche distintive come forma di espressione musicale sono del tutto popolari.
Il jazz è fondamentalmente un’arte performativa, e in questo essa si differenzia decisamente dalla musica della tradizione occidentale europea. Il compositore, una figura dominante nella musica da concerto occidentale, non ha nessuna importanza nel jazz. Questa musica ha la sua forma distintiva nell’invenzione e nella performance che avvengono simultaneamente nel momento in cui i musicisti esprimono il loro punto di vista riguardo allo schema melodico e ritmico.
Ovviamente, è vero che l’improvvisazione musicale è fiorita anche in altre culture, e che anche la musica occidentale della tradizione colta aveva le sue radici nei processi di improvvisazione. Tuttavia, mai prima le condizioni avevano favorito la disponibilità universale di un’arte performativa.
L’emergere del jazz come, potremmo definirlo, musica folk del popolo americano è inestricabilmente legata ai progressi tecnologici nella registrazione fonografica e nella radio broadcasting. Non è solo nel rendere disponibile il jazz che questi dispositivi tecnologici sono stati importanti. Negli stadi del jazz, per esempio, il pianista non solo contribuiva a disseminare di ragtime (un ritmo che rese popolare molti degli elementi jazzistici) ma impose anche certe caratteristiche di precisione ritmica e di qualità tonale che divennero elementi distintivi della suo tecnicismo.
Chiunque sia familiare con il suono dei pianisti di accompagnamento jazz sa come essi possono usare lo stile “pianola”, sebbene normalmente solo per un effetto di divertimento rispetto all’uso attuale più sofisticato. Nello stesso modo, il microfono di registrazione, utilizzato anche negli studi di broadcasting, ha avuto il suo effetto sulle performance strumentali e vocali del jazz. Le tecniche vocali di singer tanto diversi/e come Louis Amstrong e Bing Crosby, Bessie Smith e Dinah Shore sono state spesso elaborate con formidabile inventiva e sensibilità per sfruttare la piena scala delle possibilità offerte dal microfono, e la band di jazz tipica doveva le proprie caratteristiche produttive e le proprie tecniche strumentali distintive alle limitazioni e possibilità del microfono.
Davvero queste tecniche divennero come una parte integrale del jazz tanto che raramente ci furono performance senza l’utilizzo del microfono anche in piccoli posti come i night club, e ciò anche quando la band non suonava all’aperto.
Precisamente, fu con l’inizio delle registrazioni jazz, nel 1918 e negli anni immediatamente seguenti, che la strumentazione delle band iniziò a rafforzare i cambiamenti e che nei primi anni Venti produsse la combinazione orchestrale che è ancora uno standard. Finché il jazz rimase un fenomeno localizzato nel distretto di Storyville (New Orleans), esso mantenne la strumentazione che aveva per primo cristallizzato la band di Buddy Golden nel 1890: una combinazione di tromba, trombone, clarinetto, basso acustico, batteria e banjo.
Ma come esso si diffuse nelle altri parti della nazione, e come le registrazioni divennero via via più popolari in seguito al successo fenomenale che ottenne la Victor con le proprie registrazioni nel 1918 dell’Original Dixiland Band, nuovi strumenti furono aggiunti, in particolare il piano e il sassofono, e l’equilibrio strumentale all’interno del gruppo subì importanti cambiamenti.
A partire dal 1921 le orchestre di jazz standard iniziarono a essere costituite da tre unità: gli ottoni (brass: trombe e tromboni), le ance (reeds: sassofoni e clarinetti) e la sezione ritmica (piano, chitarra o banjo, basso acustico o tuba, batteria). Tutte le varianti sono state provate su questo arrangiamento basico; sono state organizzate le grosse band “sinfoniche” e frequenti furono gli esperimenti con varie combinazioni di “piccole band” costruite attorno al piano, anche alcuni trio di grande successo, quartetti, sestetti, e così via.
Tuttavia, la strumentazione a tre-unità rimane lo standard sia per le band hot che per quelle “sweet” (o commerciali).
Uno degli aspetti più interessanti della strumentazione del jazz è che la sezione ritmica tende a rimanere intatta, qualunque variazione possa essere fatta nelle altre unità. Una band di quindici parti ha quattro persone nella sezione ritmica e otto nelle altre. Qualunque sia la quantità, ovviamente, ciò che conta è il riconoscimento della natura fondamentalmente ritmica del jazz. Ed è proprio la struttura ritmica che lo distingue dagli altri tipi di musica.
È precisamente questa distintiva struttura ritmica che rende il jazz una forma musicale straordinariamente attuale alla nostra civilizzazione, e sapremo meglio apprezzare il suo significato se facciamo la conoscenza con le due caratteristiche ritmiche che lo rendono univoco. Tali caratteristiche sono la sincope e la poliritmia.
La sincope, nei termini più semplici, è il rovesciamento dell’aspettativa ritmica attraverso l’accentuazione di una battuta normalmente non sottolineata e la eliminazione, su una battuta normalmente accentata, della sua enfasi. È questo un dispositivo abbastanza comune nella musica europea occidentale e conseguentemente una persona che non ascolta jazz frequentemente presume che una performance jazz ha preso semplicemente in prestito un effetto dallo stock della musica tradizionale, considerandola conseguentemente poco innovativa.
Ma in un quartetto di Brams, ad esempio, la sincope è un effetto speciale, coscientemente usato per la sua qualità di rottura, laddove nel jazz, come Winthrop Sargeant afferma, è “un ingrediente strutturale di base che permea l’intero idioma musicale”.
Anche così, la sincope non fornisce una piena spiegazione della natura speciale del jazz. Se così fosse, i musicisti che si eserciterebbero esclusivamente nella tradizione colta produrrebbero jazz semplicemente sviluppando continuamente un dispositivo con il quale essi hanno già familiarità. Ma oltre che dalla sincope il jazz è caratterizzato da una sovrapposizione di ritmi conflittuali che creano una particolare forma di poliritmia. Questa poliritmia, che Don Knowlton pare aver per primo riconosciuto, vive sull’imposizione di un elemento ritmico uno-due-tre su un ritmo fondamentale uno-due-tre-quattro su cui sottostà tutto il jazz.
Questa formula di tre-su-quattro, con il suo interplay di due differenti ritmi, raramente è evidenziata nella melodia jazz, ma quasi sempre è presente nella sua fraseologia, dandogli il suo stampo univoco. Qui, come nel caso della sincope, stiamo usando un termine familiare alla tradizione colta della musica occidentale.Tuttavia, come con la sincope, il termine ha un significato distintivo in relazione al jazz. Come Sargeant sottolinea, la forma più comune di poliritmia nella musica da concerto europea — due-su-tre — non appare mai nel jazz, mentre il quasi universale tre-su-quattro del jazz è davvero molto rara nella musica occidentale.
In più, nella poliritmia occidentale non c’è lo sconvolgimento delle normali aspettative del ritmo; le battute forti rimangono accentate e nessuna enfasi è posta sulle battute deboli. Invece la poliritmia del jazz produce l’effetto di spostare gli accenti in una maniera che la stessa sincope non produce.
La dominazione nel jazz di queste due caratteristiche comporta, come Sargeant rende chiaro, che la relazione tra i ritmi del jazz e quelli della musica composta nella tradizione europea occidentale può considerarsi “trascurabile”. Per altri aspetti, ovviamente, il jazz è stato fortemente influenzato dalla tradizione colta. Le sue strutture scalari e armoniche sono largamente prese in prestito o adattate dalle sorgenti europee occidentali, sebbene anche in questi aspetti il jazz ha sviluppato certe peculiarità, in particolare l’armonia “barbershop” o “close” (cromatismi) che condivide con altri tipi di musica americana inclusa quella dei cowboys e degli hillbillies. Tuttavia, ritmicamente il jazz è un fenomeno distintivo.
L’origine della poliritmia del jazz è quasi certamente da rintracciare nella musica afro-americana folk dei neri del sud. Ma dal punto di vista della nostra discussione, il fatto importante è che quasi tutta la musica popolare americana, da quella più commerciale a quella hot, ha adottato pesantemente sia la poliritmia che la sincope, e ambedue i dispositivi sconvolgono gli schemi attesi.
In altre parole questa musica, originata negli Stati Uniti e diffusasi da qui nel resto del mondo dipende e fa derivare le proprie caratteristiche distintive da due dispositivi ritmici che contribuiscono a un singolo effetto: l’interruzione di uno schema stabilito di alternative tra battute enfatizzate e battute deboli.
Questa interruzione di regolarità ritmiche nel jazz è forse più chiaramente esemplificato dal cosiddetto “break” o “hot lick”, il passaggio ponte di improvvisazione solistica di due o quattro misure che frequentemente riempiono gli intervalli tra due frasi melodiche. Durante il break la battuta fondamentale quattro-quattro è silenziata e il solista va, in maniera indipendente, per la sua tangente ritmica e melodica, fino a che la band riprende la battuta quattro-quattro di base giusto dove sarebbe stata se non fosse stata mai interrotta.
L’effetto è brillantemente descritto nel seguente paragrafo del libro di Winthrop Sargeant:
In questo processo il ritmo fondamentale non è realmente distrutto. L’ascoltatore attento mantiene nella sua mente la continuazione della pulsazione regolare nonostante l’orchestra abbia smesso di suonarla…. La situazione durante gli impulsi silenziosi è di chi sfida l’ascoltatore a mantenere il ritmo… Se egli non sente la sfida, o si trattiene per non perdere il proprio controllo, allora si è tra coloro che non comprenderanno mai l’appeal del jazz. La sfida è aiutata dal comportamento caotico dello strumento solista che suona il break. Esso fa qualunque cosa è nelle sue possibilità per portare l’ascoltatore fuori della sua guardia. Esso sincopa e accenta tutto meno che il normale impulso del ritmo fondamentale… L’ascoltatore vive tutto l’eccitamento di una battaglia.
È essenzialmente questa stessa specie di battaglia tra i ritmi melodici inaspettati e sfidanti e la regolarità della battuta fondamentale che caratterizza tutto il jazz. Nell’hot jazz, quando quasi tutti i suonatori improvvisano allo stesso tempo e nessuno realmente sa che cosa farà l’altro, l’esilaramento è più intenso che nelle performance riarrangiate e inframmentate con break improvvisati e soli. Ma la differenza è di grado non di specie.
Ora una forma musicale che esplora e incoraggia questo tipo di libertà-per-tutti potrebbe logicamente far conseguire come risultato il caos e il disordine. Come Louis Amstrong una volta scrisse, si potrebbe pensare “che se ogni componente di una big band di sedici elementi avesse il proprio punto di vista e potesse suonare come vuole, l’insieme produrrebbe un rumore pazzesco”. E con performer ordinari è quello che si potrebbe ottenere: è questo il motivo per cui la maggior parte delle orchestre suona con spartiti in cui, con vari gradi di successo, un arrangiatore ha incorporato il fraseggio hot.
Ma, come Amstrong conclude, quando tu hai “un gruppo di veri musicisti swing” essi possono supportarsi e inseguirsi l’un l’altro nell’improvvisazione e “tutto avviene attraverso l’ascolto e la direzione dell’istinto musicale”. È l’essenza di una buona performance di jazz essere capace di tagliare le parti “mobili” dalla partitura, e sapere o sentire “quando è giusto lasciarle e quando ritornarvi”.
Benny Goodman, spiegando le basi organizzative di una famosa band da lui guidata nel 1934, mise la cosa così: quello che lui voleva era, prima di tutto, “una buona sessione ritmica che potesse suonare jamp, rock o swing” e, secondariamente, arrangiamenti musicali che potessero essere adeguati veicoli per una tale sessione ritmica e che, contemporaneamente, “offrissero ai componenti una chance di suonare i solo e di esprimere la musica dal loro punto di vista individuale”.
In altre parole, Goodman intuitivamente riconosceva che è la struttura ritmica che riconcilia le domande della performance di gruppo (l’arrangiamento) e l’espressione individuale (i solo).
Ciò che abbiamo qui, allora, è una forma di arte che all’interno di propri limiti ben conosciuti ha saputo, meglio di tutte quelle precedentemente elaborate, riconciliare il conflitto che Emerson tempo fa riconosceva come problema fondamentale della civilizzazione moderna: il conflitto tra le pretese individuali e quelle del gruppo.
Tutti nelle band jazz di prima classe sembrano essere e hanno la sensazione di esprimere il loro punto di vista, inibito dagli schemi musicali prescrittivi, e allo stesso tempo tutti suonano elaborando un unisono creativo e preciso. La cosa che li tiene insieme è la stessa che essi tentano, impegnandosi, di tradire: la battuta fondamentale quattro-quattro. In questa unica forma artistica, se non esistente altrove, gli americani hanno trovato un modo per dare espressione all’ideale emersoniano di un’unione che è perfetta solo “quando tutte le unità sono isolate”.
Attraverso la soluzione di questo conflitto di base il jazz lega se stesso intimamente con la società industriale in cui evolve. I problemi con cui si dibattono Amstrong e Goodman hanno meno a che fare con i problemi degli artisti, nel senso tradizionale, e più con quelli dell’organizzazione industriale. Non è nel criticismo dell’arte tradizionale che troveremo espressi valori comparabili, ma in passaggi come questo, estratti dai Principi della gestione scientifica di Frederick Winslow Taylor, pubblicati giusto sette anni prima che la prima registrazione di jazz fosse effettuata:
Il tempo va più veloce di qualunque sforzo un uomo, pur grande, possa da solo ottenere senza l’aiuto di quelli attorno a lui. Ma sta arrivando il momento in cui saranno fatte grandi cose grazie a quel tipo di cooperazione in cui ogni uomo esegue la funzione per la quale è più adatto, preservando la propria individualità e acquisendo la supremazia nella sua particolare funzione; in cui ognuno allo stesso tempo non perde niente della sua originalità e della propria iniziativa personale, e tuttavia è controllato e deve lavorare armoniosamente con molti altri uomini.
Per altri versi, inoltre, il jazz lega se stesso alla tradizione popolare da cui proviene. Come tutti i modelli che quella tradizione ha creato, esso è fondamentalmente una forma molto semplice. Armonicamente, è un poco più che la ripetizione di quattro o cinque sequenze di accordi estremamente semplici e piuttosto noiosi. Melodicamente esso consiste di una ripetizione di brani estremamente semplici che, quanto piacevoli e divertenti possano essere, non sono soggetti a sviluppi elaborati, così come i temi della musica europea occidentale. Possono essere molto elaborati nei solo improvvisati, ma non sono tematicamente sviluppati. Infine, anche i suoi ritmi, dove il jazz mostra così poca ingenuità, sono ristretti a tempi quattro-quattro o due-quattro.
Come forma musicale, allora, il jazz è tanto semplice quanto può esserlo una forma culturale. Il pezzo suonato ha sempre, ovviamente, almeno uno schema formale elementare, un inizio, un interludio, una fine; ma la performance jazz normalmente non lo segue.
Essa parte e dopo un intervallo, che è stato determinato probabilmente più dalla durata di registrazione fonografica che da altro, si ferma. Ma questa semplicità strutturale si accorda con le altre caratteristiche popolari che il jazz mostra. I voli poliritmici e sincopati dei break e dei solo, con i loro aggiustamenti brutali e impulsivi pronti a cambiare sempre le situazioni ritmiche, dà al jazz una flessibilità straordinaria.
E tuttavia, ciò è possibile solo in un semplice e ben stabilito framework. Allo stesso tempo, è la semplicità strutturale del jazz che lo rende, come altre forme e modelli, così adattabile alla partecipazione e al divertimento di massa, e anche così universalmente disponibile.
In questi termini si può comprendere l’osservazione brillantemente percepita da Le Corbusier che i grattacieli di Manhattan sono “hot jazz in pietra e acciaio”. Jazz e grattacieli! Sono queste due, e il jazz in una “forma più avanzata” dell’altra, le forme che per uno dei più grandi architetti viventi e pianificatore di città “rappresentano le forze dell’oggi”. Ed entrambe, abbiamo visto, sono risultati climatici della tradizione popolare americana.
Ciò non implica che non si possa riassemblare la negata tradizione colta o che si debba disprezzare l’attualizzazione di una civilizzazione fondata sulla tecnologia e modellata dalla politica democratica e dalle istituzioni sociali. (Non è una mera coincidenza che nella Germania nazista e nella Russia comunista, e laddove esistono regimi autoritari, gli uomini al potere hanno tentato di scoraggiare, se non addirittura proibire, le performance jazz).
Lasciatemi chiarire che nel fare questa puntualizzazione non vogliamo parlare di una superiorità estetica del jazz rispetto alla musica occidentale europea o del Rockefeller Center e McGraw-Hill Bulding rispetto alla cattedrale di Chartres e Salisbury. Tali comparazioni non hanno luogo nel contesto di questo libro, ammesso che possano avere una loro validità in qualunque altro posto.
Giudicato strettamente nei propri termini, il jazz è abbastanza limitato nella sua scala emozionale. Come altre forme popolari, principalmente il giornalismo e i serial della radio, è normalmente ristretto alle atmosfere umoristiche, alla tristezza sentimentale e all’eccitamento sessuale; è difficile concepire una performance jazz che potrebbe evocare un’atmosfera di tragedia, di timore reverenziale o di esaltazione spirituale quali possiamo trovare nei capolavori della musica occidentale europea.
In più, ci si chiede se il jazz sia capace di sviluppi evolutivi. A molti critici sembra che il jazz attuale sia essenzialmente lo stesso di quello che emerse nei club sportivi di New Orleans. Altri potrebbero concordare con lo scrittore presente che opere come Un americano a Parigi e parte di Porgy and Bessy di George Gershwin, o i lavori più recenti quali il Quintetto per Oboe e Archi di Robert McBride, danno evidenza di un processo evolutivo dove il jazz della tradizione popolare interagisce creativamente con la tradizione colta, non perdendo nessuna della originaria vitalità e rilevanza d’immediatezza ma aumentando enormemente la sua scala espressiva.
Certamente l’architettura dei grattaceli più riuscita deve un po’ del suo successo alle influenze colte che hanno modificato le sue qualità popolari. Ma il fatto essenziale è che entrambe queste forme devono riconoscere le loro radici popolari. Entrambi sono forme di espressione artistica, che si sono evolute fuori dai modelli originariamente elaborati da persone senza fini estetici coscienti o preconcetti colti, in diretta ed empirica risposta alle condizioni del loro ambiente quotidiano.
È chiaro che queste forme particolari e le altre che abbiamo toccato lungo questa rassegna non offrono di per sè un medium di espressione artistica adeguata a tutte le nostre esigenze. Le forme ereditate dalle vecchie tradizioni ancora devono giocare un ruolo importante se noi siamo non esteticamente affamati, o almeno sottonutriti. L’opera e il dramma poetico, ad esempio, possono essere moribondi come la maggior parte dei critici candidamente asseriscono, ma inevitabilmente ci saranno periodici tentativi di ringiovanirli. E tali tentativi saranno tentati non solo a causa del prestigio culturale e sociale a loro collegato, come ad altri cimeli della tradizione colta, ma anche perché non possiamo permetterci di lasciarli morire.
Nel frattempo le tecniche e le forme della cultura popolare stanno rapidamente acquisendo un’ampia influenza e un grande prestigio, e la loro popolarità attraverso il mondo serve a ricordarci una volta ancora che non è la qualità specificamente americana, in nessun senso nazionalistico, a renderle di un significato fatale.
I prodotti popolari che l’America fa, naturalmente, hanno lo stampo del carattere nazionale, giusto come i risultati artistici delle altre popolazioni mostrano certe caratteristiche nazionali. Ma queste sono qualità superficiali. La cosa importante circa la cultura popolare è che essa possiede qualità inerenti di vitalità e di adattabilità, di organico come opposizione alla forma statica, di energia piuttosto che di riposo, che sono particolarmente appropriate alla civilizzazione che, durante la breve vita degli Stati Uniti, ha trasformato il mondo.
Per mezzo di un accidente nello sviluppo storico, negli Stati Uniti si è evoluta questa tradizione che ha avuto a disposizione la più grande libertà per sviluppare le sue caratteristiche distintive. In ogni caso, qualunque indebito orgoglio nazionalistico andrebbe temperato e ciò è più semplice se rammentiamo a noi stessi che le persone delle altre terre sono state qualche volta più pronte di noi ad apprezzare i valori estetici e umani dell’espressione popolare.
I film stranieri hanno, dopotutto, frequentemente sorpassato i nostri nella realizzazione creativa delle potenzialità del cinema, e gli architetti sud americani ed europei alcune volte sembrano essere più vivi dei nostri verso le possibilità espressive delle costruzioni popolari.
Come nazione siamo stati spesso esitanti e apologetici su quello che è stato fatto negli Stati Uniti a livello di tradizione popolare. Forse è venuto il tempo per molti di noi di accettare la sfida offerta alla immaginazione creativa da quelle tecniche e quelle forme culturali che per prime si ersero tra il nostro popolo e nella nostra terra [traduzione mia].
Riferimenti
Abruzzese, A., 1973, Forme estetiche e società di massa, Venezia, Marsilio, 2001.
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