La cultura del real-time
Parte 2/ La telemediatizzazione
Ad un certo punto della sua analisi del nuovo contesto legato alla condizione di immediatezza, John Tomlinson sembra vivere un certo disagio. Si accorge di dover documentare un passaggio importante nell’esperire umano che potrebbe esporlo a possibili critiche, quelle che, nella nostra introduzione, dicevamo riservate in genere ai mediologi per la loro insistenza (fissazione) riguardo alla centralità dei media per aspetti fondamentali della vita delle persone.
Tra i molti fattori da considerare nel passaggio da una cultura della velocità ad una dell’immediatezza, la telemediatizzazione è il più rilevante. Con “telemediatizzazione” — un termine poco elegante ma relativamente preciso — intendo la crescente implicazione delle comunicazioni elettroniche e dei sistemi dei media nella costituzione dell’esperienza quotidiana. Le attività di telemediatizzazione — guardare la televisione, scrivere da tastiere, navigare nei menù degli schermi di computer, cliccare, pigiare tasti, parlare e mandare messaggi con il telefono cellulare, inserire codice PIN e condurre transazioni tramite tastiere — possono essere considerate come pratiche culturali e modi univoci nel presentare l’esperienza alla coscienza. Esse occupano uno spazio nei flussi quotidiani dell’esperienza all’interno del mondo di vita dell’individuo che è distinto e tuttavia integrato con le interazioni faccia-a-faccia della prossimità fisica (p. 94).
Aggiungendosi al folto gruppo di persone che hanno elaborato osservazioni similari, il sociologo si trova inoltre ad ammettere il paradosso per cui l’aumento di queste esperienze è assorbito con tale naturalezza da renderle trasparenti tanto che dobbiamo sforzarci per ricatturarne la “stranezza”.
D’altro canto, sia per apprezzare il tenore dei cambiamenti che la naturalezza dell’assorbimento si può ricorrere a una comparazione storica. Tomlinson richiama la condizione di dominio, a livello di telemediatizzazione, a cui era sottoposto l’immaginario sociale negli anni ’70 da parte della televisione.
Le tecnologie dei new media e le pratiche associate che sono state assimilate nel frattempo nella sfera domestica — in poco più di 30 anni — hanno minato completamente questa cultura mediale. Personal computer, sistemi di cavi in fibra ottica, telefoni mobili, videocamere mobili, video games, internet, email, siti web, motori di ricerca, blog, siti di social network, DVD, radio e televisioni digitali, accessi in rete a banda larga, TiVo, lettori mp3 e podcast hanno spezzato i frame spaziali e temporali della ricezione quotidiana dei media, frammentando le audience e minando i rituali degli ascolti o delle visioni collettive. Essi hanno introdotto dei modi di esperienza per i quali non abbiamo ancora nessuna definizione adeguata: pensiamo ad esempio all’esperienza della disponibilità istantanea e infinita delle risorse informative del mondo, che è la fenomenologia caratterizzante il web browsing. Diventano così facilmente e rapidamente “addomesticate” […] che dobbiamo a noi stessi ricordare che poche delle esperienze dell’attuale telemediatizzazione hanno un qualche corrispettivo prima delle ultime poche decadi della storia del mondo. E ognuna di loro aiuta a definire ciò che significa esistere come essere umani nel mondo moderno (p. 95).
Tomlinson fa un piccolo esempio relativo a una funzione che utilizza ascoltando la radio nel letto. Lo spegnimento automatico del dispositivo dopo un certo periodo di tempo evita di preoccuparsi che la radio rimanga accesa nel caso si cada inconsapevolmente nel sonno. Nell’ultimo modello digitale acquistato, la “sleep function” è stata ulteriormente migliorata per cui lo spegnimento avviene accompagnato da una lenta dissolvenza del suono.
Assistendo da sveglio a questa operazione, l’autore si interroga su come le tecnologie oltre ad estendere l’uomo, come insegna McLuhan, creano nuove esperienze, in questo caso la piacevole intersezione tra suono e silenzio, tanto che possiamo dire che i media ci influenzano anche in loro assenza.
É qui che Tomlinson, di fronte a queste forme sottili di modificazione e arricchimento dell’esperienza, sembra avere un sussulto per essersi trovato così scoperto e, in qualche modo, passivamente ricettivo. Il suo ragionamento è franco e coraggioso nell’ammetere come ci si muova in un ambito di ricerca necessariamente fluido e ambiguo per le reciproche interazioni tra piani razionali ed emotivi.
La sua scelta riguardo ai media è di grande apertura per le possibilità che mostrano nel ridefinire l’uomo e i suoi ambienti fisici, sociali e culturali, ma vuole essere anche di misura, o, per riprendere le sue parole, di «senso delle proporzioni».
La seconda osservazione che il sociologo ricava dalla sua piccola esperienza riguarda infatti la possibilità che abbiamo di arginare i media, di tenerli momentaneamente fuori, un discorso che rischia di rimanere però ancora troppo rigido (ingenuo), sia nelle sue presunzioni intellettualistiche di poter controllare le modificazioni corporee indotte da un esterno preponderante, sia per i reali e sorprendenti sviluppi di questi dispositivi liquidi che mirano a coinvolgimenti non più solo “frontali” (Petullà, 2009).
E tuttavia, egli offre anche spunti interessanti nel richiamare l’esigenza di analisi maggiormente interrelate ad altri aspetti socio-culturali. Per Tomlinson è una sorta di esigenza dimostrare la possibilità di agency umana. Il fatto di poter sempre “spengere” i media dimostra che sono parte di una possibilità di programmazione.
Il reale contratto è con noi stessi: quanto spazio permetteremo di avere ai media nelle nostre vite. I media rimangono sotto il nostro controllo. La funzione del bottone “sleep” è testimonianza dell’agency umana. Il senso di proporzione che dobbiamo applicare nella discussione sul ruolo dei media in termini di processi, pratiche e tecnologie nella cultura contemporanea dipende realmente dalla riconciliazione di questi due principi: nel gestire questa ambivalenza tra ubiquità e possibilità di metterli da parte, tra determinismo e agency, tra centralità e periferia della propria attenzione. Noi viviamo in un mondo in cui i media influenzano virtualmente tutto ciò che facciamo ed esperiamo, anche, si può argomentare, ciò che siamo o almeno come ci concepiamo dover essere. Ma, anche così, rischiamo di rimanere delusi se non riusciamo a vedere questa influenza in una relazione ragionevole con le altre sfere della vita, con gli altri aspetti dell’esperienza vissuta. Ciò comporta qualcosa di più che evitare gli hype che circondano i media. La questione è di ottenere prospettive della nostra condizione in medias res. Una questione che implica il buon uso del senso delle proporzioni (p. 96-97).
Natura della mediazione
Per comprendere la condizione di immediatezza offerta dai media è utile tornare sulla natura della mediazione. Intanto, per come è stata descritta precedentemente, l’immediatezza enfatizza l’idea che la distanza è chiusa o, almeno, è percepita come tale, una condizione che elimina o attutisce le separazioni che storicamente hanno pesato nella cultura umana. Queste includono
la separazione spaziale, che stabilisce il “qui” e “l’altrove” come entità che sono solo da unire attraverso uno sforzo laborioso, e che, conseguentemente, definiscono le “località” che situano le culture dotandole di posizioni di identità stabili ma che hanno anche il risvolto di mantenerci, culturalmente e politicamente, “nel proprio posto”. Altra separazione implicita è la distanza temporale tra l’attualità e il futuro, che implica l’attesa e la necessaria pazienza, e che, come parte di una strategia di vita pianificata e deliberata, rendono le due dimensioni temporali prevedibili. La condizione di immediatezza — la chiusura di questi intervalli — implica dunque esperire l’abolizione della distanza, caratteristica centrale della globalizzazione e del concetto di futuro, in una situazione di cambiamenti cultural-tecnologici che si presentano veloci e continuamente incombenti su di noi (p. 98).
La connessione tra media e immediatezza è evidente ma non altrettanto lo sono i risvolti perché i media, notoriamente, creano allo stesso momento connessione e separazione.
I media sono agenti di connessione spazio-temporale: connettono eventi distanti e li portano nella località delle persone. Ma il modo in cui ciò è ottenuto — attraverso gli apparati dei media elettronici e complessi insiemi di codici semiotici, convenzioni, generi, formati e modi di indirizzamento — danno spessore alla nozione di separazione: di un medium che è una “sostanza interveniente attraverso cui le impressioni sono convogliate ai sensi” (ivi).
Nonostante l’idea di medium come sostanza interveniente si affacci abbastanza presto nella storia moderna — e qui Tomlinson ricorda le ricerche del sociologo inglese Raymond Williams, che ne trova traccia già nel 1700 a proposito della possibilità visiva che funziona attraverso la presenza di oggetto, organo e medium — si avvia poi un processo di reificazione per cui ci si concentra solo sui contenuti di un attività — nell’arte soprattutto — dimenticando il medium che è un elemento determinante di mediazione.
tutto ciò produce una negazione delle pratiche storiche così come dei vincoli materiali e immateriali relativi al mezzo, un effetto di negazione rafforzato dalla qualità peculiare dell’elettricità che riesce a nascondere l’intrinseca manipolazione con la veste dell’immediatezza favorita da diverse strategie.
Intanto, nel versante tecnologico abbiamo una costante ricerca e un conseguente incremento della velocità degli artefici in funzione di un miglioramento della qualità degli effetti e della loro consegna. É tempo che assistiamo ad una compressione delle operazione “intermedie” — eliminazione degli operatori umani telefonici, riduzioni dei tempi di attesa per accensione apparecchiature e sintonizzazioni, raccordo delle fasi di produzione e pubblicazione immagini, ecc.
Vi è poi la cura degli aspetti stilistici in ambito mediale. L’immediatezza diventa per i media un valore professionale e dunque è fondamentale saper trasmettere un alto tasso di vitalità (liveliness). Ciò è molto evidente nella fruizione di spettacoli live o nel coinvolgimento del pubblico, ma anche nell’indirizzare comportamenti e stili di conversazione, con persone che nelle scenografie stanno in piedi o camminano per leggere, attutendo gli effetti di pose rigide e orpelli statici che formalizzano i rapporti, oppure puntando sull’uso di toni confidenziali per attutire le distanze.
Infine, la telemediatizzazione è sempre più calata e inframmezzata nelle esperienze dei nostri flussi di vita quotidiani.
Questo non significa che noi confondiamo i due modi di esperire, che diventiamo incapaci di distinguere tra esperienza telemediatizzata e “vita reale”. Piuttosto, i due modi ci si presentano non meramente intermezzati ma come fossero su piani ontologici uguali cosicché a noi non è generalmente richiesta una discriminazione istante-per-istante. Sia il mediato che il non-mediato sono così normali nelle nostre esperienze che ci muoviamo trasversalmente senza nessuna sensazione di particolare macchinosità (p. 101).
Insomma, la telemediatizzazione è una seconda natura tanto che possiamo dire, con cognizione di causa, che
la storia della telemediatizzazione è stata la storia del progressivo oscuramento delle evidenze della mediatizzazione. Ciò suggerisce indizi per un’analisi generale della cultura dei media contemporanei, per il modo in cui diviene una seconda natura (p. 102).
Terminali che cambiano: altre partenze e altri arrivi
Rispetto al più largo contesto, il tema della velocità (e dell’immediatezza) è pregnante ma intrattabile se non compreso in tale quadro. Infatti, non è solo una questione di temporalità, così come dedotto da Virilio (1997), che ne faceva derivare una relativa sedentarizzazione della vita, cosa poi smentita dal trionfo della mobilità.
La vera novità è che stiamo traslando da un certo tipo di esperienze — che si rifacevano a uno spostamento fisico e a un impegno che prevedeva una certa dose di sforzo — a un ambiente fondamentalmente fluido, comunicativo e immediato. É la stessa nozione di terminale a segnalarci la cosa, così come il richiamo continuo alla metafora del viaggiare.
Per rammentare, il classico snodo dei viaggi è stata la stazione ottocentesca, una grandiosa architettura tecnologica che ci apriva mediando il passaggio tra i ritmi e le strutture urbane e le tecnologie e i ritmi della meccanica dei treni. I nostri attuali terminali ci aprono a viaggi e tecnologie di tutt’altro tipo.
Generalizzando da questo esempio piuttosto peculiare, noi possiamo dire che le esperienze di uso di queste nuove tecnologie della comunicazione — quando lavorano appropriatamente come in questo caso — denotano la pochezza dello sforzo e l’ubiquità. Le cose — ed anche le persone — sembrano essere disponibili immediatamente e rispondere gentilmente, a un livello tale che proviamo spesso un risentimento irrazionale quando occasionalmente il cellulare di qualcuno è spento o l’email di risposta non appare nella nostra cartella di arrivo. Vi è un piccolo sforzo nel comunicare; sembrano essere pochi i reali ostacoli da superare: giusto la ricerca nell’agenda e il tocco del bottone di chiamata, o il click di invio della posta. Sono manipolazioni leggere, facili ed elegantemente coreografate all’interno dei nostri ritmi lavorativi; appaiono più attività gesturali che operazioni fisiche: azioni di destrezza (legerdmain). E, attraverso un tocco di mano, la tecnologia discreta del software risponde immediatamente chiudendo la distanza — che rimaneva nell’era meccanica della modernità pesante — tra il qui e l’altrove, l’adesso e il dopo, il desiderio e il suo soddisfacimento (p. 106).
In ogni caso, dobbiamo fare attenzione e mantenere il senso della misura ricordando che la distanza e la pesantezza, che la comunicazione tende a far scomparire, ancora persiste. Anche se più semplice ed efficace nei mezzi, spostare il proprio corpo si rivela ancora, e forse di più, un’opera frustrante.
Soprattutto, siamo ancora incastonati come esseri corporei nella nostra condizioni di località, cosa evidente quando ci si precipita tutti al cellulare per comunicare lo spostamento degli appuntamenti dopo un’improvvisa cancellazione di un mezzo di trasporto. Ancora una volta, viviamo le contraddizioni e l’ambiguità esistente tra la condizione d’immediatezza — ubiquità, leggerezza dei passaggi, nuove relazioni tra luoghi distanti, reali e immaginati — e lo stato del nostro incorporamento.
Così, come la maggior parte delle condizioni della modernità, questa trasformazione non è completa ed esente da ambiguità. Così, forse, al pari delle tante emancipazioni genuine che sa offrire, l’immediatezza telemediatizzata genera altrettante sfide, risvolti e perplessità (p. 107).
Keyboards
Nota Tomlinson come il rapporto di interfacciamento tra esseri umani e media elettronici sia stato sviscerato principalmente considerando i sensi della vista e del suono, tanto da far dire allo storico tedesco dei media Friedrich Kittler che si è creato «un corto circuito tra fisiologia del cervello e tecnologie della comunicazione» (1999, p. 216).
Ciò è un indubbio restringimento rispetto a quello che accade realmente e di cui abbiamo testimonianza considerando l’attuale utilizzo delle tastiere. Le tastiere, e forse più generalmente le molte sue versioni funzionalizzate e ridotte, saturano oggi i nostri ambienti. Sempre di più dobbiamo usarle non solo nelle interazioni più dirette con i media e i sistemi di comunicazione — telefoni mobili, telecomandi TV e hi-fi, computer, console dei giochi — ma anche per ritirare il denaro dalla banca, per cucinare nei forni a microonde, per aprire porte, per attivare l’aria condizionata, per parcheggiare, lavare (e nei modelli più sofisticati, anche guidare) le nostre autovetture, per accedere ai sistemi guida nelle gallerie di arte e nei musei, e così via.
Questo suggerisce come la cultura della telemediatizzazione si incorpori di fatto in un vasto insieme di pratiche. Esse ci costringono ad acquisire un nuovo insieme di cognizioni, abilità e adempimenti che devono però essere compresi come parti integrali di noi stessi perché veramente incorporate. A dar manforte alle tesi di Tomlinson pensiamo a quanto influente sia il ritmo sensorio-corporeo nel rammentare, attraverso l’azione della digitazione, il codice PIN delle varie carte di credito. Il lavoro delle tastiere — la tipica destrezza delle manipolazioni delle tastiere — sottolinea tra l’altro il contrasto tra le operazioni muscolari ed energiche richieste dagli apparati meccanici e lo stato di leggerezza e morbidezza esperite con le nuove tecnologie.
Le stesse tastiere non rappresentano una vera novità. Tomlinson è intrigato dal racconto di Kittler sulle macchine da scrivere meccaniche diventate, nella pratica e nell’immaginario, un medium femminile per il dominio esteso delle donne nelle applicazioni lavorative grazie alla destrezza in termini di velocità, precisione e leggerezza esecutiva.
Rispetto all’abilità richiesta nel passato, oggi abbiamo un approccio alle tastiere del tutto amatoriale. La ragione principale potrebbe essere nel fatto che ci accorgiamo di essere solo una componente di un sistema molto più potente impossibile da sfidare in termini di abilità, precisione e velocità. Inoltre, la diffusione ed eterogeneità delle tastiere richiede ai progettisti di disegnarle con l’obiettivo di facilitare un uso intuitivo.
Vi è certamente un’esperienza di velocità ma quanto differente — generalmente — da quella di una pratica altamente addestrata. Sempre in svantaggio catastrofico rispetto alla velocità dei processori, che per la maggior parte attendono pazientemente girandosi i pollici mentre noi digitiamo, la performance corporea perde il suo significato. E così, curiosamente, ciò che pare colorare la nostra esperienza è la neurotica impazienza con gli occasionali malfunzionamenti all’interno dell’inimmaginabile scorrere dell’elaborazione informativa, con i lenti tempi dello start-up, i lunghi download, l’apparizione del simbolo della clessidra. Ciò che queste frustrazioni ci rammentano è il fatto che, per la maggior parte, non siamo noi gli attori che dominano le relazioni con i computer. La velocità della tastiera non ha niente della esilarante abilità percussiva emblematica di un dominio diretto della tecnologia. Essa è invece sottomessa alla velocità ansiogena e avvolgente della moderna vita telemediatizzata (p. 111).
(Fine parte 2)
Bibliografia
Kittler, F. A., 1999, Gramophone, Film, Typewriter, Stanford, Stanford University Press.
Petullà, L. (1999), Media e computer liquidi, Milano, Lampi di Stampa.
Tomlinson, J., 2007, The Culture of Speed. The Coming of Immediacy, London, Sage.
Virilio, P., 1997, Open Sky, London, Verso.