L’intrattenimento filmico in streaming è – possiamo dirlo – uno dei figli nobili della cultura on demand a cui ci ha abituato internet. Ed è nobile nel senso che questa via sta aprendo prospettive estremamente interessanti per l’espressività e la creatività dei contenuti audiovisivi, che avevano ed hanno la loro massima espressione nell’arte cinematografica. Le nuove modalità del consumo in rete hanno infatti innescato cambiamenti anche sul lato della produzione dando spazio a plot narrativi che travalicano i confini dei cortometraggi per arrivare a storie che si dipanano nell’arco delle 8, 10 o anche 13 ore, contenuti fruibili – tramite i nostri vari dispositivi computerizzati e collegati in rete – ovunque, a secondo la voglia e i propri spazi di tempo libero, in continuità visiva o frammentate sapientemente in diverse puntate.
Il circolo virtuoso della produzione e del consumo ha infatti spinto alcuni operatori – in testa Netflix – a spezzare definitivamente qualunque approccio lineare nella distribuzione per rilasciare le intere serie, composte dai più episodi, in un’unica data inaugurando il cosiddetto binge watching, ovvero la possibilità di consumare, da parte degli appassionati, in un unico lungo appuntamento la visione di tutti, o quasi tutti, gli episodi della storia. Le cosiddette serie TV nate in questa ottica sono ormai centinaia e la ricerca di originalità ha dato finalmente spazio a temi tradizionalmente trascurati o di nicchia – la spendibilità globale in internet, accompagnato da operazioni di doppiaggio audio o con specifica sottotitolazione, agevola in effetti un’aggregazione di pubblico sufficiente a giustificarne gli investimenti, in linea con i principi della coda lunga.
L’avvio alla produzione di contenuti originali da parte di alcuni operatori dei servizi SVOD (Subscription Video On Demand) è certamente parte di un processo competitivo in cui ci si prova a differenziarsi essendo in generale i loro cataloghi molto simili in quanto dipendenti dalle tradizionali case cinematografiche o dai soliti network TV. Ad ogni modo, i contenuti originali sono ancora solo una piccola parte dell’intero catalogo – ad esempio, per Netflix, nonostante i crescenti investimenti di decine di miliardi di dollari all’anno, essi pesano solo l’8% dell’intera offerta (dato al 2021).
L’auto produzione filmica rientra comunque anche in calcoli economici più interessati in quanto il solo costo dei diritti per queste aziende è molto rilevante – per Netflix si parla del 70% degli interi costi, mentre i diritti di un solo episodio di una serie di successo può costare fino a 1-1,5 milioni di dollari. Mantenere quindi un equilibrio economico sostenibile tra tali costi e l’offerta dei contenuti (film, documentari, serie TV) ai propri pubblici è un esercizio delicato che vale la sopravvivenza, una strada stretta tra la voglia di trattenere e accrescere gli abbonati mensili con la qualità e diversità dei contenuti, e lo sforzo finanziario per averli.
Il ruolo dei big data e delle nuove tecniche algoritmiche
In questa ottica non abbiamo dubbi che anche tale necessità rientri come parametro in qualche processo algoritmico per orientare l’organizzazione dei consumi audiovisivi all’interno della specifica piattaforma. Non è un mistero – anzi, queste aziende ne fanno un vanto – come il continuo monitoraggio delle modalità e quantità delle visioni fruite dagli abbonati, così come i messaggi e le campagne promozionali mirate a suggerire loro film ed altro, siano al centro dell’attenzione dei provider, che allestiscono attorno a ciò architetture sofisticate di processi computazionali e tecniche algoritmiche, supportandole persino con gli ultimi sviluppi dell’Intelligenza Artificiale (AI) come il machine learning.
Ovviamente, non è facile trovare dichiarazioni, da parte dei management aziendali, che affermano come possa esserci la possibilità di spingere verso gli utenti certi contenuti più di altri perché più convenienti all’azienda – ciò che si sbandiera esplicitamente è il focus centrale sui soli interessi degli abbonati. Ma è impossibile non pensare a ciò vista la cura analitica con cui elaborano e implementano i loro prodotti e le relative applicazioni automatizzandone i comportamenti in ogni particolare.
L’ascesa della cultura algoritmica
Su ciò converrebbe alzare un po’ in alto lo sguardo confrontandoci in maniera più appropriata con le pratiche digitali a cui ci siamo abituati. Viviamo infatti in un contesto storico in cui un ruolo rilevante nelle nostre vite è giocato dalla intermediazione di tante piattaforme digitali nello svolgimento di molteplici attività – che siano a fini sociali, informative, economiche, educative, d’intrattenimento e così via.
Tuttavia, mentre effettuiamo distrattamente le varie operazioni, dovremmo vederci come fossimo sulla punta di un iceberg costituito da un imponente blocco di tecnologie sempre più sofisticate, che riescono a sostenere quanto richiesto dall’utenza e dai gestori dei servizi nelle logiche massive delle economie di scala. E il problema di tali piattaforme è che non sono oggetti neutri nel senso che hanno delle logiche di scopo ed operative ben precise.
Alcuni studiosi, parlando esplicitamente della nostra società come di una società delle piattaforme per l’influenza che deriva dal loro utilizzo, hanno cercato di definire a grandi linee i processi che le caratterizzano evidenziando in generale tre modalità operative. Esse agiscono in termini di: a) datafication, nella loro opera di traslazione di ogni attività in dati processabili da algoritmi per costruire un nuovo genere di valore sociale ed economico; b) commodification, nella trasformazione di oggetti, attività, emozioni e idee in merci scambiabili; c) selection, nella sollecitazione e filtraggio delle attività personali attraverso interfacce e algoritmi che sfruttano l’interazione degli utenti come input per determinare la visibilità e disponibilità online di particolari contenuti, servizi e persone (van Dijck, Poell, de Waal, 2018).
Date le tante attività intermediate da questi strati significanti, è ragionevole allora affermare come i processi algoritmici sono diventati a tutti gli effetti dei soggetti culturali in quanto modellano i modi di comunicare, connettersi, creare/consumare intrattenimento da parte delle persone. Lo studioso statunitense Ted Striphas (2015), insieme a molti altri colleghi, parla ormai apertamente della nostra condizione immersiva in una cultura algoritmica. Quando le tecnologie di big data e le logiche computazionali sono applicate in larga scala, i modi in cui le persone pensano, organizzano, praticano, sperimentano e comprendono la cultura sono inevitabilmente alterate. E lo sono perché il classico lavoro della cultura – selezionare, classificare e gerarchizzare persone, luoghi, oggetti e idee – è appunto sempre più delegato ai processi computazionali, un fatto che modifica i modi in cui pratichiamo, sperimentiamo e comprendiamo queste stesse entità.
La piattaforma online Netflix offre un prodotto – la distribuzione on demand di contenuti audiovisivi di intrattenimento, comprensivi del monitoraggio e della organizzazione del loro consumo – che si conforma in pieno ai processi di datafication, commodification e selection. E su questo fronte essa apre, peraltro, tutta una serie di questioni originali nel momento in cui prova – con le metodologie quantitative e le logiche analitiche dei software – a individuare, e anche indirizzare, ciò che consideriamo fenomeni culturali complessi che sono incardinati nel magma dell’immaginario umano. Con l’intento, forse, di trovare – per così dire – anche delle formule per produrre – senza i rischi che l’industria creativa affronta costantemente – dei contenuti di successo (Carr, 2013).
Entrare nella black box di Netflix
Abbiamo dunque diverse ragioni per provare ad entrare in queste scatole nere che sono le piattaforme online: la sfida è di comprenderne la natura e i meccanismi per capire il ruolo che vi giochiamo e i termini di queste intermediazioni, che tanta risonanza hanno sulle nostre vite. Il compito non è agevole. Uno studioso di cinema della Corcordia University di Montreal, Colin Jon Mark Crawford, in un suo intervento sul capitalismo delle piattaforme si chiede, ad esempio, di cosa sia Netflix:
una compagnia hi-tech? Una casa cinematografica? Un network TV globale? Un sito web? Un’applicazione? Un investimento saggio?.
In effetti, a seguire la narrativa che si costruisce attorno ad essa, è un po’ di tutto ciò. Ma a grattare la superficie, possiamo dire che è soprattutto un’azienda del web nata e strutturata inestricabilmente nella cultura di rete di internet, il che significa che una parte preponderante del suo motore aziendale e delle sue competenze è profondamente tecnologico e affonda nella ricerca continua di soluzioni elaborate per vie informatiche e trasmissive provando a sfruttare tutte le opportunità che la diffusione e disponibilità dei dispositivi di rete in circolazione e uso offrono per la loro idea di business – per dire, nel 2019 Netflix ha investito in ricerca e sviluppo ben 1,5 miliardi di dollari, una cifra considerevole in valore assoluto ma importante anche in termini relativi rispetto a un fatturato lordo e netto rispettivamente di 25 e 1,8 miliardi di dollari.
Da questo punto di vista è istruttivo dare un’occhiata alle sue infrastrutture, tutte asservite a distribuire, monitorare e organizzare efficientemente i suoi servizi personalizzati. Innanzitutto, vi è la sua content delivery network Open Connect, una rete di cavi e server distribuiti nel mondo per collocare i contenuti mediali nei punti di accesso più vicini alla propria utenza, circa 10.000 apparati (Open Connect Appliance, OCA) messi in 1.000 punti nei confini (IX, Internet eXchange point ) e lungo le reti di telecomunicazione dei vari operatori nazionali (Internet Service Provider, ISP).
Poi vi è la parte applicativa contenente le logiche centralizzate del servizio – realizzata comunque su infrastrutture di cloud computing di altri provider, in questo caso servendosi di Amazon Web Services, che oltre ad essere uno dei leader dell’ecommerce mondiale è anche il leader di questa tipologia di servizi. L’architettura applicativa è strutturata su ben tre livelli di computing costantemente attivi (il fronte on-line, near-online e off-line) e in tutti una parte rilevante è giocata dai software di machine learning, applicazioni AI di nuova generazione tese a mettere a punto le proprie funzionalità tramite l’autoapprendimento, possibile grazie al vaglio dell’inesauribile quantità di dati estratti e combinati con le interazioni degli utenti – funzionalità finalizzate a predire e, come vedremo, anche indirizzare, le scelte degli abbonati.
Il machine learning (AI) nel motore computazionale
Per approfondire meglio tali contesti ed entrare un po’ più nel vivo delle questioni abbiamo ritenuto opportuno sporcarci un poco le mani e alzare il cofano di questi motori computazionali proponendo una presentazione tenuta nel 2018 dal responsabile del team di machine learning di Netflix, Tony Jabara. L’incontro si svolge presso un’università statunitense ed è focalizzata sul sistema di personalizzazione e raccomandazioni elaborato da Netflix – per agevolare la comprensione abbiamo anche provveduto a sottotitolare i dialoghi in italiano.
La presentazione, indirizzata a studenti di materie scientifiche desiderosi di apprendere le tecniche che muovono tali prodotti, ha diversi fini – Netflix punta a spingere al massimo la personalizzazione del consumo audiovisivo, che diventa una sfida ardua quando si devono gestire in contemporanea oltre 200 milioni di abbonati (dato 2020) – ed uno di essi è anche quello dell’ingaggio di tecnici di data science e machine learning, competenze evidentemente tanto vitali quanto scarse per la competizione agguerrita in essere in questi settori.
La presentazione è interessante per ciò che dice: ci spiega come sono costruiti gli ambienti di fruizione per ogni singolo abbonato, così come le tecnologie a supporto e le loro evoluzioni. Cosicché riusciamo a capire cosa succede nei pochi secondi in cui ci deve apparire la nostra pagina (e le singole immagini per noi appositamente personalizzate) contenente in maniera organizzata l’offerta di film, documentari e serie TV, con l’insieme dei singoli titoli selezionati dalla migliaia presenti nel catalogo, impilati in righe tematiche e ordinati secondo una scala del massimo interesse, ecc. [A proposito della catalogazione dei generi ideata in maniera molto creativa e originale da Netflix per organizzare dei contenitori tematici in cui inserire i film – pare che se ne contino circa 80.000 mila – si rimanda per un eventuale approfondimento ad un precedente articolo.
Luci e ombre della ribalta
Ma la presentazione è interessante anche per ciò che non dice. In verità, come ricordavamo in un altro articolo, il mondo online è cresciuto in maniera altamente incontrollato e sono tante le critiche riguardo a molti suoi aspetti, soprattutto per il fatto che, durante lo sviluppo dei suoi tanti servizi, non si è tenuto in debito conto dei pieni interessi delle persone utilizzatrici, con il web considerato come collettore in cui poter razziare indiscriminatamente qualunque tipo di informazione utile ai propri scopi aziendali – per tutti basta richiamare il trattamento a fini commerciali dei dati sensibili degli utenti internet, uno dei peccati originali di questi mondi. E su ciò vi è un imbarazzo che riaffiora costantemente.
Ad esempio, vi è una domanda in coda alla presentazione da parte del pubblico. Essa chiede se Netflix possa ripetere l’iniziativa che nel 2006 le ha dato una certa notorietà – il Netflix Price, consistente in un challenge aperta nel web, con in palio un premio di 1 milione di dollari a coloro che riuscivano a migliorare del 10% l’efficienza del loro algoritmo aziendale usato per predire la prossima scelta di un film da parte di un abbonato, partendo dalle recensioni che lo stesso ha prodotto nel tempo. Rispondendo, il relatore non accenna al fatto che l’evento non possa ripetersi per le polemiche nate sul rilascio pubblico dei dati riguardanti i propri abbonati.
In effetti, i dati messi a disposizione da Netflix per consentire ai team di sviluppo di utilizzarli, onde addestrare e testare i propri algoritmi, circa 100 milioni di recensioni fatte su quasi 18.000 film da circa 500.000 utenti, sono stati anche utilizzati, nonostante tutti gli sforzi per renderli anonimi, in una operazione di contro-hacking, per dimostrare come sia impossibile – in una massa di dati organizzati per tracciare comportamenti e profilazioni personali – nascondere informazioni sensibili – per curiosità, si è riusciti non solo a individuare alcuni utenti ma anche a rivelarne orientamenti politici e sessuali (Narayanan, A., Shmatikov, V., 2008, Ohm, P., 2010, New York Times, 2010).
Tony Jebara, Netflix Director, Machine Learning Team Leader – Parte 1
Tony Jebara, Netflix Director, Machine Learning Team Leader – Parte 2
Riferimenti
Carr, D., 2013, “Giving Viewers What They Want“, New York Times.
Crawford, C. J. M., 2019, “Fictitious Capital. Netflix and the New Narratives of Media Value in Platform Capitalism”, Intersections-Cross-sections 2019.
Narayanan, A., Shmatikov, V., 2008, Robust De-anonymization of Large Datasets(How to Break Anonymity of the Netflix Prize Dataset), The University of Texas at Austin.
“Netflix Cancels Contest After Concerns Are Raised About Privacy”, New York Times, 12/03/2010.
Ohm, P., 2010, “Broken promises of privacy. Responding to the surprising failure of anonymization”, UCLA Law Review 1701.
Striphas, T., 2015, “Algorithmic culture”, European Journal of Cultural Studies, Sage.
van Dijck, J., Poell, T., de Waal, M., 2018, The Platform Society. Public Values in a Connective World, Oxford, Oxford University Press.