Retoriche ed ebbrezza degli effetti
In continuità con gli ultimi contributi, tratteremo qui il tema della velocità prendendo in considerazione una sua ultima declinazione diventata a noi particolarmente cara, la velocità di accesso alle reti di telecomunicazioni.
Considerata da tempo obiettivo primario per lo sviluppo economico e sociale in quasi tutte le nazioni del mondo — garanzia di una fluida e costante connettività tra persone/ambienti digitalmente attrezzati — possiamo affermare che questa nuova condizione tecnologica si sta rivelando, usando la definizione con cui l’antropologo ed economista Karl Polanyi descriveva la connaturalità a fondere le nostre esistenze con le moderne infrastrutture tecnologiche (1944), una “realtà inesorabile”.
Al riguardo, ci permettiamo di ordire una piccola premessa. Quando sentiamo discettare di velocità d’accesso siamo istintivamente portati a pensare che sia, fondamentalmente, un problema più tecnico, importante ma poco affascinante. Anzi, per dirla tutta, abbastanza noioso.
In effetti, l’ampiezza dello spettro tematico che dovrebbe interessare le forme e i media della comunicazione, proprio alla luce della scarsa comprensione della nostra plasticità fisica e psichica e delle attrattive culturali della modernità, risulta essere un problema che attanaglia anche i cosiddetti ambiti scientifici.
Nonostante le continue prove degli effetti trasversali e profondi che le nuove condizioni mediali supportano e alimentano in ogni campo delle attività umane, quando ci si inoltra in un qualche tentativo di indagare le nuove forme della comunicazione “interrogando il medium”, si sconta immancabilmente la sensazione di dover vincere, prima di tutto, una spessa barriera di “scientifico” scetticismo.
Ci si sente, cioè, in dovere di giustificare un percorso che inevitabilmente è costretto a (e attratto da) un utilizzo eterogeneo di argomenti e strumenti concettuali/empirici, e dunque a un uso sconsiderato di ecletticità. Eppure, come spesso accade quando una realtà così fondamentale per gli esseri umani continua a cambiare i termini del suo operare, sono pochi gli aspetti della vita personale e sociale che non devono tenerne conto. Ergo, di cui dovremmo tenere conto.
Nel frattempo, aumenta la distanza tra le pratiche di vita e una certa formalizzazione teorica, tanto che forse sarebbe più produttivo dare per acquisita la nostra trans-umanizzazione digitale per provare a prendere “di petto” gli aspetti che mordono la vita comune.
Ad esempio, improvvisamente sembriamo catapultati in dinamiche irresistibili quanto inevitabili e molti sapienti pubblicisti hanno buon gioco nel parlare allarmati di “vertigini digitali”, “fragilità, “disorientamento” (Keen, 2013), per non riconoscere invece, molto più pragmaticamente, che
oggigiorno abbiamo fondamentalmente due differenti modi di stare nel mondo: essere o non essere nello stato di connessione. Ciò nonostante, deplorare uno stato o l’altro non aiuta nessuno poiché essi rappresentano un diverso insieme di possibilità in termine di pensiero e azione» (Chatfield, 2013).
Per inciso, nella traduzione italiana del titolo How to thrive in the digital age in Come sopravvivere nell’era digitale, il libro del citato Chatfield, si insiste nello sfruttare il disagio sottolineando, più che le speranze di sviluppo proprie del termine inglese thrive, le fatiche e i rovesci dell’impresa.
Ad ogni modo, che si sia forse esagerato in pre-sunzioni conservative riguardo a un fenomeno naturalmente sconfinante e umanamente ri-strutturante come la comunicazione lo prova l’abbassamento delle asticelle nell’ambito della riflessione accademica, almeno a livello internazionale.
Dopo i pressanti e ripetuti inviti a legittimare campi di analisi dimostratesi (almeno) proficui nel segnalarne le complesse articolazioni, e che, per via dell’eterogeneità e dell’eclettismo, si circoscrivono spesso solo nei termini laschi di “mediologia”, siamo in una fase in cui si stimolano ricerche che hanno nella “mediatizzazione”, o meglio, nel meta-processo di mediatizzazione, il loro fulcro, in quanto
la mediatizzazione deve essere compresa come un processo di lungo corso che ha, per ogni cultura e società, e in ogni fase storica, una specifica realizzazione. La mediatizzazione ha dunque degli stadi di sviluppo specifici e, allo stesso tempo, diversi. In più, la mediatizzazione in quanto meta-processo dovrebbe essere compreso come un processo simile alla globalizzazione, individualizzazione o consumismo. Ognuno di questi processi è un principio ordinativo che ci aiuta a pensare gli eventi e gli sviluppi specifici come intrinsecamente correlati, e, pur insediati in determinati campi della cultura e società, influenti su molti altri campi [… infine] la mediatizzazione è un meta-processo fondato sul cambiamento della comunicazione come pratica basica del modo in cui le persone costruiscono il mondo sociale e culturale, vale a dire attraverso i cambiamenti delle pratiche comunicative che utilizzano i media e ai media si riferiscono (Lundby, 2009, pp. 24-25).
Chi ha aderito da tempo a questa impostazione non può non osservare che essa ha la possibilità di ottenere dei risultati ancora più completi quando riesce a ristabilire la circolarità tra tecnologie della mediazione e società anche in termini di costruzione e sostenibilità dei sistemi mediali, il che richiede un’attenzione critica ai processi di trasformazione che sono frutto della complessa interazione tra bisogni percepiti dai soggetti, pressioni economico-politiche e innovazioni sociali e tecnologiche (Fidler, 2000).
Da questo punto di vista, il presente contributo sposa la tesi che stiamo ormai sperimentando condizioni proprie di nuovi paradigmi di vita. Avendo l’ambizione di coltivare (se possibile) degli anticorpi per irrobustire una mentalità più adeguata ai nuovi orizzonti, esso prova a riflettere sui termini e le sfide a cui dobbiamo rispondere in quanto persone che ormai operano e si formano in società fittamente interconnesse da reti telecomunicative.
La retorica della velocità d’accesso
Il termine ICT (Information & Communication Technology) include ormai una vasta gamma di settori quali la produzione di componenti e apparati IT, servizi software, apparati e servizi di telecomunicazioni, dispositivi multimediali, ecc.
Eppure, come sempre più evidente dalla tendenza a dotare i dispositivi elettronici di qualche tipo di connessione di rete, che sia via cavo o wireless, i vari prodotti e servizi finali a cui l’ICT dà vita trovano proprio nella capacità e velocità di accesso alla rete una misura vitale e universale della loro desiderabilità e possibilità, da parte di persone e gruppi, di poter essere (e di operare) in rete.
La tesi che seguiremo è che, sull’onda di una retorica e una pratica che spinge continuamente in avanti i limiti dei canali di connessione telematici, ci siamo aperti strutturalmente sia a cambiamenti profondi che a continue sperimentazioni dagli esiti non preordinabili o prevedibili.
Incentivata da logiche moderniste e autogiustificanti, l’esigenza di incrementare le velocità di trasporto delle connessioni digitali ha attivato dei feedback sempre più stretti tra funzioni efficientiste ed esperienze vitali impregnando tutte le altre dimensioni esistenziali. L’ubiquità dei punti di accesso e gli incrementi performativi hanno predisposto in ultimo scenari di interazioni complessi che segnano una discontinuità qualitativa forte in cui è saltata la capacità di controllo degli effetti che ogni azione razionale sembrerebbe invece presumere.
Mentre i fautori e attori delle tecnologie mediali hanno continuato a puntare sulla rassicurante ottica che stressa, con l’aumento della quantità dei bit trasportati, l’efficienza nel raggiungere e perseguire fini eterogenei, uno scarto enorme è andato a prodursi nelle nostre vite. Potremmo dire che mai come in questo caso l’opera della cosiddetta “legge di Benjamin” in ambito mediale – la trasmutazione della quantità in qualità propria della comunicazione di massa (1934) – sia stata più evidente, e da essa dobbiamo passare per comprendere come stiamo predisponendoci, più o meno forzatamente, ad assorbire esperienze, competenze e mezzi che sappiano ridare senso alla nostra nuova posizione nel mondo.
A ripercorrere gli ultimi venti anni di storia, così inestricabilmente legati all’evoluzione e diffusione delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione, ci accorgiamo che sono stati anni accompagnati da una litania tanto semplice quanto potente.
Il ritornello sul valore di essere connessi tramite un cellulare o la rete internet, il fatto di dover disporre di un buon canale in termini di velocità per scambiare messaggi/contenuti di ogni genere, sono stati una costante della pubblicistica sospinta dalle industrie del settore. Ma non solo.
Il discorso sulle infrastrutture digitali è il tasto su cui hanno battuto anche i vari policy maker avvertendo dell’esigenza di mantenere allineate persone e comunità ai nuovi sviluppi economici, sociali e culturali. Mentre le categorie politiche andavano offuscandosi, è stata la telematica ad essersi imposta con forza nella narrativa e nella pratica come fattore indispensabile per raccordarsi in ambienti che interagivano già con fitte istanze, locali e globali.
Tutto ciò non è secondario e anzi acquista un significato particolare alla luce di quanto ci rammenta il sociologo francese Alain Touraine (1973) riguardo al modo in cui una società si produce orientando, in base alla fiducia che ha di agire su se stessa, le proprie risorse.
La nuova (terza) rivoluzione digitale ha mosso infatti enormi capitali: i settori dell’industria elettronica, con tutte le sue filiere, e le crescenti iniziative di convergenza tra servizi informatici e di telecomunicazione hanno attirato una gran parte delle speranze degli investitori a livello globale. L’effetto di questo orientamento è davanti agli occhi di ognuno, vale a dire l’altissimo livello di interconnessione telecomunicativa raggiunta da gran parte della popolazione mondiale.
Il contesto, per altro, rimane ancora attuale. Gli Stati Uniti hanno appena approvato un piano di investimento di circa 15 miliardi di dollari il cui obiettivo
non è solo di assicurare connessioni affidabili e alla portata di ogni comunità ma anche di equipaggiare la maggior parte delle case (circa 100 milioni) con linee veloci, almeno 100 Mb/s. È un tentativo di spingere con forza gli Stati Uniti nell’era dell’alta velocità – tutto ciò, suggerisce la FCC, è ottenibile entro il 2020. (Technology Review, 2010).
La fiducia in queste politiche è fondata sui probabili ritorni economici, soprattutto in termini di incremento di produttività e di competività – nell’ideazione, progettazione, produzione di beni materiali e immateriali. Ci sono anche calcoli più precisi sulle percentuale di prodotto interno lordo che investimenti di questo tipo riescono a determinare e tali politiche incentivanti del broadband si ripropongono un po’ ovunque nel mondo.
Illustrando gli scopi strategici della cosiddetta “agenda digitale” che, entro il 2020, deve rivitalizzare l’economia e la qualità di vita del vecchio continente, la Commissione Europea ci spiega che
il settore ICT è direttamente responsabile del 5% del prodotto annuo lordo dell’Europa con un valore di mercato di 660 miliardi di euro, ma esso contribuisce molto di più all’aumento della produttività generale (il 20% direttamente dal settore ICT e il 30% dagli investimenti ICT). Ciò è dovuto agli alti livelli di dinamismo e innovazione inerenti il settore e al suo ruolo abilitante nel cambiare i modi in cui altri settori operano. Allo stesso tempo, l’impatto sociale dell’ICT è diventato importante – ad esempio, per il fatto che ci sono quotidianamente più di 250 milioni di utenti internet in Europa e virtualmente tutti gli europei possiedono un proprio telefono mobile che ha cambiato gli stili di vita. Lo sviluppo delle reti ad alta velocità ha oggi lo stesso impatto rivoluzionario che le reti di trasporto e dell’elettricità hanno avuto un secolo fa (EU, 2010, p. 4).
La forza di questa spinta ideale si può misurare in termini di investimenti nella ricerca. La situazione europea, sicuramente non al top rispetto alle regioni nord-americane o asiatiche (Giappone, Corea, Taiwan), è così fotografata:
il settore ICT è il maggiore in termini di R&D per l’economia europea, a dispetto del fatto che rappresenta solo il 3% della forza lavoro totale e il 4,9% del suo Prodotto Lordo. Con il 17% degli investimenti in R&D, il 25% di tutte le spese effettuate a livello business da tutti i settori e il 32,4% di tutti i ricercatori, il settore ICT è di molto avanti rispetto agli altri comparti e il maggior contribuente all’economia della conoscenza in Europa (EU 2010, p. 30).
L’ultimo rapporto dell’OCSE (OECD), che comprende i 50 paesi del mondo economicamente più sviluppati, fotografa una situazione e dei giudizi che vanno nella stessa scia, certificando tutti i trend positivi così come il ruolo guida del settore, e di internet in particolare (2012).
In ogni caso, al riguardo è bene anche riportare i dubbi di chi critica queste valutazioni proprio per la difficoltà di sapere indirizzarne i risvolti, e sono perlopiù gli economisti che si attengono alle analisi classiche. Ad esempio, un docente della Kellogg School of Management della Northwestern University afferma che i vantaggi sono in realtà molto meno ovvi.
La sfida per la ricerca è sostanziale […afferma Greenstein, forte dei suoi studi sugli impatti economici delle reti broadband…] generalmente gli effetti non si riverberano nel settore dove l’investimento è realizzato. Per esempio, quando inizialmente arrivò il broadband chi sapeva che la ristrutturazione dell’industria musicale sarebbe stata la prima ad essere coinvolta? … d’altro canto, nessuno ha interesse a mostrare scetticismo perché ciò minaccia una delle mitologie del broadband, vale a dire che è una panacea tecnologica (Technology Review, 2010).
E tuttavia, ci assale il sospetto che questa spinta quasi ossessiva verso un tale risultato sia stata condotta sulla base di un’inerzia culturale di stampo modernista. In definitiva, si è agito come da sempre abbiamo fatto replicando l’esigenza di questa velocità come elemento implicito della modernità, quasi un bene di per sé.
Si pensi, ad esempio, alla confusione e alla deliberata disattenzione verso i normali parametri economici riguardanti i progetti digitali al tempo della new economy e al conseguente drammatico scoppio della bolla speculativa all’inizio degli anni 2000.
In effetti, la velocità di connessione ha la virtù intrinseca di essere materialmente misurabile, un bene su cui è possibile applicare metriche e ragionare “obiettivamente”, senza doversi interrogare o perdersi in spiegazioni più complesse e meno afferrabili, spesso rimandando le analisi sul merito o sulle cause/effetti a un successivo momento.
Insomma, questa spinta inerziale ci ha consentito di evitare di affrontare delle logiche considerate un po’ più “aleatorie” perché costrette a rendere conto anche di interessi ed esperienze diverse e meno afferrabili, perfino pericolose perché aperte a desideri insondabili e poco controllabili.
La cosiddetta pirateria informatica e gli scambi liberi di materiali eterogenei sono un altro esempio curioso e importante di questo atteggiamento. Le critiche e le azioni ostili riversate contro tali pratiche sembrano inquadrare il problema quasi fosse un effetto collaterale e non il nucleo centrale di uno scisma culturale che nasce proprio dalle nuove condizioni di vita (Lessig, 2009).
Una contraddizione, peraltro, ben cavalcata dalle stesse industrie ICT che hanno puntato — inconfessabilmente ma chiaramente — all’espansione del mercato degli accessi broadband proprio contando sul desiderio che le persone hanno di usufruire di servizi e contenuti ritenuti pregiati e finalmente liberi dai vincoli elaborati in epoche in cui le capacità riproduttive e creative e i mezzi di distribuzione rispondevano a criteri di scarsità e a logiche centralizzate.
Per inciso, facciamo notare che questo implicito richiamo è funzionale agli interessi delle aziende TLC visto che è il mercato degli accessi ad aver fin qui permesso di sorreggere l’intero ecosistema delle telecomunicazioni dopo l’innesto di internet. Una modalità che sta andando però in crisi — un altro effetto collaterale — via via che si affermano iniziative che sfruttano la programmabilità software delle risorse tecnologiche/culturali messe in rete e interrelate a tutti gli ambiti di vita delle persone, drenando il valore economico sulla capacità di organizzare i contenuti. Un valore che, per una questione di competenze nuove e in frenetica evoluzione, di nuove sensibilità, ma anche di un sistema degli accessi “libero”, spesso viene colto e sfruttato più dagli outsider che dal tradizionale circolo degli operatori mainstream.
In conclusione, ci troviamo ormai “strutturalmente incardinati” in sviluppi tecnologici che hanno generato una molteplicità di effetti che potremmo definire, seguendo una logica efficientista, collaterali e le cui interpretazioni ci rimandano, per lo più, a visioni veramente radicali riguardo alla nostra nuova “umanità”.
Ad esempio, i cambiamenti sono tali che anche un tradizionale istituto di ricerca socio-economica italiano (Censis) deve ormai parlare in termini di “era biomediatica” per spiegare il nostro nuovo essere:
Web 2.0, social network, miniaturizzazione dei dispositivi hardware e proliferazione delle connessioni mobili inaugurano l’era biomediatica, in cui diventa centrale la condivisione telematica delle biografie personali (La Stampa, 2012).
Oppure, per prendere letture a spettro veramente largo, si interpreta il potenziamento delle piattaforme inter-comunicative con la necessità di essere in linea con tutto ciò che ci circonda, di vivere e agire in maniera accorta, pronti a cogliere e rispondere alla variabilità e molteplicità degli eventi, a sviluppare ciò che per scarsa precisione semantica potremmo chiamare intuito, il prodotto alchemico nonché l’incorporazione di un’immensa capacità di ascolto e di partecipazione continua, che diviene appunto un invito a predisporci differentemente.
Per dirla con le analisi sapienti e lungimiranti di Jeremy Rifkin (2009), la nuova comunicazione rappresenta la via empatica per riformulare, di fronte alla crisi generalizzata dei modelli ereditati — soprattutto nella produzione e nel consumo — i principi di una nuova civiltà.
Bibliografia
Benjamin, W., 1934, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 2000.
Chatfield, T., 2013, Come sopravvivere nell’era digitale, Milano, Guanda.
EU, 2010 (1), A Digital Agenda for Europe.
EU, 2010 (2), The 2010 report on R&D in ICT in the European Union.
Fidler, R., 2000, Mediamorfosi. Comprendere i nuovi media, Milano, Guerini e Associati.
Lessig, L., 2009, Remix. Il futuro del copyright (e delle nuove generazioni), Milano, Etas.
Lundby, K., 2009, Mediatization. Concepts, changes, conseguences, NY, Peter Lang Pubblishing.
Keen, A., 2013, Vertigine digitale. Fragilità e disorientamento da social media, Milano, Egea.
Polanyi, K., 1944, La grande trasformazione, Torino, Einaudi, 2000.
Rifkin, J., 2009, La civiltà dell’empatia, Milano, Mondadori, 2010.
Technology Review, 2010,
America’s Broadband Dilemma. Can the FCC bring access to everyone in the country and achieve world-leading speeds at the same time?
Touraine, A., 1973, La produzione della società, Bologna, Il Mulino, 1975.
La Stampa, 2012, “’Inizia l’era biomediatica’. Il Censis su italiani e comunicazione”.