La cultura del real-time
Parte 3/ La condizione d’immediatezza
A questo punto non manca di riaffacciarsi un’antica e ricorrente questione mediale e, con essa, il bisogno di diradare gli associati e fallaci pregiudizi morali.
La telepresenza – che può essere compresa nei termini della possibilità, e sempre più per molti, della preferenza, “di tenersi in contatto” senza in realtà, letteralmente, essere in contatto – non dovrebbe essere considerata come una condizione del tutto deficitaria. Con ciò voglio dire che la telepresenza deve essere compresa come un modo esistenziale distintivo di presenza, che esiste insieme alle relazioni dirette e incarnate di presenza, ma che non è da ritenersi o valutare in termini negativi in quanto giudicabile solo rispetto a un modo esistenziale “ben definito” di dover essere presenti anche con il corpo (p. 111).
Gli esempi di pregiudizi sulle nuove possibilità di contatto ottenute su basi tecnologiche sono innumerevoli. Le critiche a una condizione di vita immersa nei flussi di contatti istantanei che portano le persone a stare inevitabilmente nello stato di impazienza le troviamo già nel racconto di E. M. Foster The Machine Stops pubblicato nel 1909.
Tuttavia, rammenta Tomlinson, prima che si creassero queste condizioni vi era una certa giustificazione per averne timore. Non altrettanto adesso. Si prenda la descrizione fatta da Proust del suo primo contatto telefonico con la madre e sullo stato di ansietà provocato in lui da questa presenza fantasmatica vocale, e le considerazioni sullo stato precario della vita dopo la brusca interruzione della chiamata.
Oggi, dal punto di vista esperienziale siamo agli antipodi, nel senso che dobbiamo raccogliere tutta la nostra attenzione e sensibilità per cercare di ricatturare la “stranezza” della situazione. Inoltre, la condizione di fondo è quella di disporre sempre più di tecnologie.
[La tecnologia] si aggiunge alle possibilità della vita e risponde alle esigenze poste da un mondo sociale ed economico più dinamico e con un passo di evoluzione più veloce, che generalmente estende le nostre opzioni di comunicazione (p. 118).
Non possiamo nasconderci queste evidenze, anche se dobbiamo vederle in maniera critica. Ad esempio,
che le telecomunicazioni sono tanto un obbligo quanto una convenienza. Vi una crescente e tacita assunzione – strutturata sia nei processi lavorativi sia nella più vasta etichetta sociale – che noi abbiamo un obbligo sociale sia ad essere utenti abili della tecnologia sia (più importante) ad essere quasi costantemente disponibili alla/ e per la comunicazione…. e questo senso di obbligazione può avere un’influenza diretta sulle possibilità di essere sfruttati.
Ma oltre a questo, all’abilità del capitalismo di far tornare tutto utile agli affari, il fenomeno si innesta su un
terreno di pratiche già-ben-stabilite che ha a che fare con la costante riaffermazione del nostro essere-nel-mondo e con le relazioni che ne stabiliscono le condizioni (p. 118).
Nonostante si levino costanti critiche e campagne di panico sulle comunicazioni istantanee e sullo stato di continua connessione, l’immediatezza offerta dalle tele-tecnologie rinnova le pratiche routinarie del modo di registrare la nostra presenza con le altre persone per noi significative, e
non vi è nessuna ragione di considerare ciò come, di per sé, indicativo di uno stato di dipendenza né di fragilità esistenziale all’interno della cultura contemporanea. Potremmo considerarlo semplicemente una sostituzione nell’ambito delle forme primarie dei “legami” sociali (p. 119).
A proposito dei cellulari e della comunicazione fatica Tomlison richiama le osservazioni del geografo culturale Yi-Fu Tuan che offre un’utile metafora per spiegare il “chiacchericcio” come una funzione che lavora per rafforzare/mantenere i legami sociali. Se la conversazione è un’abilità del “cosmo” la chiacchiera per Tuan è la pratica del “focolare”:
Le persone sono sedute attorno a un pranzo, un fuoco o un angolo del locale. Correnti di parole muovono avanti e indietro, intrecciando i singoli parlatori in un tutto. Che cosa è comunicato? Niente di che. Il chiacchiericcio sociale consiste quasi interamente di gossip senza conseguenze, piccoli racconti di esperienze e di eventi del giorno… Quando, per caso, due persone sono attratte dentro una reale conversazione, il padrone di casa considera suo dovere interromperla così da reintegrarli nel gruppo (Tuan, 1996, p. 175).
Lo snodo della consegna e le pratiche del consumo
Il consumo è spesso criticato in quanto pratica che enfatizza ed esalta (esaltandosi a sua volta nel) la condizione del vivere schiacciata sul presente. Tomlinson richiama le analisi del sociologo francese Gilles Lipovetsky (2005) che distingue due fasi del “vivere il presente”.
La prima ha visto la celebrazione controculturale del carpe diem che, iniziata come progetto politico disperde presto il suo impulso rivoluzionario per divenire semplicemente un “presentismo” ribelle ed edonistico, un zeitgeist dominato dall’assenza di ansietà circa il futuro, allo stesso tempo anti-establishment e consumistico.
Dagli inizi degli anni ‘90 siamo entrati in una seconda fase di presentismo, molto meno ottimistica, guidata e maggiormente ossessionata dalle performance individuali, frequentata da ansietà sulla salute, dalle prospettive di disoccupazione, dalle minacce ambientali e dall’incertezza del futuro. L’iperconsumismo non è mero edonismo ma una parte intrinseca della tarda modernità, in cui la politica riguardo a un radiante futuro è stata sostituita dal consumo come promessa di un euforico presente.
Il consumo, seguendo anche le critiche di Bauman, è la sindrome che certifica la fine della mitologia di un progresso inarrestabile e di una continua felicità e pace, l’utopia di un uomo nuovo, delle classi redentive e di una società senza divisioni. Dal canto suo, Tomlinson non nega la centralità del consumo e il nostro scivolare da un’impostazione valoriale produttivistica a una consumistica, divenuta peraltro quasi un obbligo come mezzo per rivitalizzare la declinante economia.
E tuttavia, allo stesso tempo egli invita a non esagerarne l’impeto totalizzante in un rapporto meccanicistico tra domanda del sistema e cambiamento culturale. Detto ciò, si può essere d’accordo su certe evidenze
processuali, anche se l’eccessiva drammatizzazione ed estensione rischia di annullare la bontà di esigenze necessarie e anche piacevoli.
La cultura produttivistica, implicante la promozione della credenza nel progresso e il miglioramento attraverso l’industria, la dignità del lavoro e la virtù della provvidenza e della accumulazione, ha largamente lasciato il passo a valori legati al bisogno dei consumatori, peraltro legittimati a spendere liberamente.
Il passaggio da una sindrome produttivistica fondata sulla virtù della procrastinazione, delle proprietà e della desiderabilità del ritardo rispetto alla immediata soddisfazione, e lo slittamento verso il consumismo, hanno l’effetto — e vi è qui un diretto richiamo delle tesi di Bauman — di demolirne i pilastri. Essi degradano la durata ed elevano il transiente. Puntano sulla novità piuttosto che su ciò che perdura, abbreviano non solo gli intervalli che separano il desiderio dall’ottenimento, ma anche quelli tra la nascita del desiderio e il suo spegnersi. Inoltre, incrementano i ritmi di appropriazione e dismissione e dunque lo spreco: “’La sindrome consumistica è centrata tutta sulla velocità, l’eccesso e lo spreco” (2005, pp. 83-84 enf. Orig.)
Difficile non concordare con queste osservazioni per spiegare la particolare “preminenza del presente” ma, a parte l’eccessivo effetto soverchiante attribuito al consumo, per Tomlinson vi è qualcosa di più della sindrome di consumismo dietro lo slittamento dai valori di perduranza a quelli basati sul transiente.
Intanto, lo studioso non è poi così sicuro che le persone, esercitate da anni al gioco del marketing, siano poi così in balia del consumo e delle sue promesse in un ciclo che rinnova immancabilmente la frustrazione. Allo stesso tempo, è difficile non accorgersi che aumentano le aree coinvolte nel regime di commodificazione, con preferenza per quelle che richiedono cicli di appagamento continui quali salute, bellezza e sessualità.
E tuttavia, una delle cose più semplici da fare per verificare queste tesi è confrontare il valore dei beni con alcuni principi di convenienza. Si può farlo, dice Tomlinson, restringendo il campo proprio ai prodotti che offrono vantaggi in termine di velocità e immediatezza. Ad esempio, i cibi pronti e tutte le tecnologie che supportano queste esigenze di time-saving – forno a microonde, frigoriferi, ecc. Il loro successo è, chiaramente, anche conseguenza delle ristrettezze e degli affanni temporali che perseguitano le persone altrimenti impegnate.
Ma è sbagliato non vedere come questi beni si prestano anche a una diversa organizzazione individuale per rispettare e armonizzare altre esigenze in termini di incontro, lavoro, divertimento, ecc. In questo senso si è lontani dall’ipotesi di eccesso compulsivo. Ma sono le tecnologie mediali a interpretare con più forza le caratteristiche più desiderabili dei beni: ubiquità, facilità di fruizione (senza sforzo fisico) e velocità.
Nel descrivere queste tecnologie come “impazienti” e “immoderate” – descrizioni che sono in una certa tensione con il loro apparire “senza sforzo” – io suggerisco che vi è qualcosa nella loro stessa natura che è un incitamento all’immediatezza del consumo (p. 131).
Non si tratta, afferma Tomlinson, di determinismo tecnologico inteso come modellazione del comportamento delle persone da parte delle tecnologie. Piuttosto, le tecnologie contengono “copioni” o mostrano affordance che sollecitano certi comportamenti.
Esse sono tecnologie mediali impazienti perché portano con loro il copione della consegna istantanea. I dispositivi mp3 consegnano la musica nei termini minimali dello scaricamento dei file musicali dal computer; fotocamere digitali consegnano istantaneamente le immagini senza la mediazione del processo chimico; i motori di ricerca forniscono informazioni che altrimenti richiederebbero giorni se non settimane di ricerca in biblioteche, dati forniti tanto rapidamente quanto veloce è la connessione di rete. E sono tecnologie immoderate perché consegnano tutto ciò con un abbondanza incredibilmente esagerata. [Ma esse fanno di più], “rimuovono” l’aspettativa di una distanza tra la domanda e la consegna […] e ci invitano a vedere la super-abbondanza come la norma. […] La cosa importante è che la rimozione è una funzione del copione della tecnologia, indipendente da qualunque manipolazione tentata del desiderio umano.
Si potrebbe obiettare che si tratta solo di una parte relativamente modesta della cultura del consumo, e anche che copre una porzione di attività della vita giornaliera relativamente piccola. Ma, senza esagerarne i significati, non è difficile vedere come l’integrazione routinaria di queste tecnologie nell’esperienza culturale mondana contribuisce a uno slittamento più generale nella disposizione culturale e valoriale. Ciò è particolarmente evidente nella cultura blasé verso gli sviluppi tecnologi in generale: l’assunzione comune dell’inevitabilità di nuove ondate di innovazione e della ridondanza che le tecnologie correnti acquisiranno (p. 132-133).
É anche vero che il soddisfacimento della consegna sopravanza quello dello stesso consumo, caratterizzato ormai da una bassa aspettativa (e il tutto, ovviamente, può continuare a lavorare in combutta con il marketing).
Oggi la grande maggioranza delle persone ha una piuttosto bassa aspettativa su ciò che le merci consumistiche possono o dovrebbero fornire. Uno dei modi per dirlo è che il consumo contemporaneo è caratterizzato dalla aspettativa della consegna piuttosto che dalla soddisfazione fruitiva.
Vi è scarsa fiducia della piena soddisfazione ma grande aspettativa che questa società continui a dispensare prodotti.
In questo senso la “consegna” diventa il telos del consumo, essa è la terminazione del contratto sociale implicito tra il consumatore e il capitalismo consumistico, il punto nel quale l’obbligazione (sia economica sia culturale) cessa. Ci aspettiamo che i beni del consumo siano funzionali o innovativi o divertenti; che siano alla moda, fascinosi, di valore e qualità buoni; ci aspettiamo sempre di più che siano forniti di quella funzione semiotica relativa allo stile di vita così intensamente evidenziato dalle strategie del marketing. Ma nella maggioranza dei casi queste aspettative implicano una scarsa convinzione sul fatto che esse, in un qualche senso profondo, possano soddisfare i nostri desideri. Ciò non è comunque un grande ostacolo al consumo reiterato, in particolare quando combinato con la piacevole aspettativa che qualcosa di nuovo è sempre sulla via, cosicché non è necessario – né si deve – investire molto nell’oggetto del momento (p. 138-139).
Ragionare sullo snodo consegna-soddisfacimento ci permette di accettare e capire altre cose, a iniziare dall’abitudine alla ridondanza delle merci (ormai data per scontata), così come al ricambio facile degli oggetti, ad esempio all’acquisto del cellulare ogni sei mesi. Ma anche a vedere le merci come un “processo parallelo alla vita”, che ne segue le vicende biografiche.
Tra l’altro, la tolleranza dell’abbondanza/ridondanza è legata anche ad un altro aspetto spesso trascurato del carattere umano, vale a dire il suo amore per la novità. In definitiva, l’insieme di questi elementi e condizioni, in parallelo alle convenienze del capitalismo, stanno delineando un nuovo modello di consumo.
L’ultimo tema trattato da Tomlinson riguarda i richiami alla decelerazione. Quasi sempre venati da nostalgie ai bei tempi passati, essi hanno una colorazione più romantica che realistica o perfino giusta per ciò che realmente accadeva in quei periodi. L’argomento velocità comunque andrebbe sviscerato in altra maniera, affrontandolo cioè come emergenza positiva.
Un esempio può essere ricavato dalla politica e dalle critiche riservate alla difficoltà di operare in condizione di velocità. Al riguardo Tomlinson richiama il teorico della politica William Connolly:
L’accelerazione del passo porterebbe dunque un danno. Ma essa pone anche una condizione di possibilità per ottenimenti che premiano democratici e pluralisti. La questione per me, allora, non è come rallentare il mondo ma come lavorare con o contro un mondo che si muove più veloce di prima per promuovere un ethos positivo del pluralismo (2002, p. 143).
Il richiamo della lentezza frammisto alla nostalgia ha come primo effetto di rafforzare il localismo e il comunitarismo, e ciò comporta il fallimento a confrontarsi con le più ampie forze sociali – in particolare il turbo-capitalismo – che è il retroterra sottostante:
Questi devoti della comunità agiscono come se localismo, comunità, famiglia, vicinato e chiesa potessero far da diga alla mobilità di capitale, lavoro, viaggi, moda e comunicazione. Una ostilità così selettiva alla velocizzazione spinge i suoi proponenti verso una aspra politica di guerra culturale contro coloro che mancano del potere istituzionale o che sfidano attraverso i loro modi di essere i richiami dei fondamenti tradizionali per incorporare un’autorità finale morale (Connolly, 2002, p. 162).
Il risultato è prendersela con qualche capro espiatorio come zingari, ebrei, donne, omosessuali, ecc., una cultura accusatoria che si accompagna a rischi estremi come le forme di fondamentalismo. Ma in che modo opporsi a questa deriva che immagina positivamente la lentezza, e cosa vi è di alternativo nella velocità? Due risposte. La prima è nei termini di Nietzsche «nella possibilità di sviluppare una attitudine “sperimentale”, “improvvisatoria” alla contingenza dell’esistenza» (p. 156). É un attitudine necessaria per prepararci ad affrontare gli accidenti e le sorprese una volta accertato che il tempo non è né lineare né ciclico ma pieno di crepe e confluenze:
diviene saggio abbracciare un’aspettativa di sorpresa e di imprevisti all’interno della stessa costruzione delle nostre teorie esplicative, all’interno di schemi interpretativi, identità religiose, concezioni territoriali e sensibilità politiche ed etiche. E di lavorare su noi stessi intelligentemente per superare il risentimento esistenziale di queste aspettative (2002, p.145).
Questa preparazione è necessaria per affrontare le attuali sfide globali, che sono sfide ad allargare il pluralismo oltre la visione limitata dalla propria cultura, poco aperta agli altri e spesso attardata in un cosmopolitismo non più adatto, rimasto ai tempi dell’Ottocento e ai ritmi dei dibattiti che nascevano sui giornali. Alla fine, si chiede Tomlinson, come premunirsi rispetto al fatto che viviamo in questa nuova condizione e che, per altri versi, vorremmo esperirla positivamente senza richiamarci a teorie che si rifanno a un passato molto diverso?
A livello pratico il problema non è intrattabile. Dal momento che la velocità, come sappiamo, non è omogenea, dovrebbe essere possibile costruire zone lente nelle nostre pratiche cultural-istituzionali tramite una forma selettiva di applicazione dei rallentamenti»
e che, anche nei termini di Connolly, potrebbero servire ad approfondire ed elaborare le buone pratiche. Allo stesso tempo, però, ci dobbiamo confrontare con qualcosa che è anche diverso
non solo zone di accelerazione ma un’ampia condizione di immediatezza che, nonostante non offra nessuna narrativa coerente, cionondimeno fornisce suggerimenti, indizi e sollecitazioni. Le attrazioni dell’immediatezza sono forti perché esse portano comfort, convenienze e piaceri che sono stati a lungo promessi e presenti nell’immaginario culturale della modernità. Ma, in termini morali, la sfida riguarda le assunzioni culturali e le aspettative di consegne infinite, senza sforzo e ubique in un mondo che, telemediato e tecnologicamente sovra-attrezzato, evolve velocemente. L’intrinseca e inconsapevole auto-soddisfazione dell’immediatezza ha bisogno di essere disturbata perché non fornisce le risorse esistenziali con cui rispondere alla contingenza della moderna esistenza e affrontare la sorpresa che ci attende (pp. 157-158).
Va motivato uno sforzo a ri-bilanciare questa nuova condizione con l’innesto di una crescente consapevolezza di precarietà, anche se, riconosce Tomlinson, non siamo poi così sicuri che le persone abbiano voglia di farlo.
Per quanto mi riguarda, la speranza non risiede nell’esortazione morale ma nello scoprire la ricompensa per questo sforzo. Questo significa intercettare il significato – che rimane quasi sommerso in questa condizione – che l’esistenza è uno stato del divenire, allo stesso tempo intriso di possibilità, di fragilità e di precarietà. Se questa nuda sensibilità è tenuta in primo piano nella narrativa culturale, le ricompense per impegnarsi a mantenere dei circuiti di feedback e ri-bilanciare le nostre vite divengono più chiare. Tutto ciò è per sperimentarci come sensibilmente e adeguatamente sintonizzati al nostro ambiente iper-veloce, e dunque come esistenzialmente flessibili e resistenti. La promessa della narrativa della velocità meccanica era l’ordine e il progresso. Le attrazioni dell’immediatezza sono i comfort e le soddisfazioni ottenute con leggerezza. Ma nessuna di esse può dispensare adempimenti esistenziali o sicurezza senza incappare nelle contingenze temporalmente compresse dell’accelerazione contemporanea. La virtù che si può trovare nella velocità è abbastanza differente: è nel fare uno sforzo per divenire un performer della vita agile e aggraziato. L’obiettivo è l’equilibrio. La ricompensa è la padronanza (p. 159).
(Fine)
Bibliografia
Connolly, W., 2002, Neuropolitics: Thinking, Culture, Speed, Minneapolis Univesity of Minnesota Press.
Lipovetsy, G., 2005, Hypermodern Times, Cambridge, Polity.
Tomlinson, J., 2007, The Culture of Speed. The Coming of Immediacy, London, Sage.
Tuan, Y., 1996, Cosmos and Earth: A Cosmopolite’s Viewpoint, Minneapolis, University of Minnesota Press.