Il ventre molle di internet
In un intervento appassionato e molto pubblicizzato, Ethan Zuckerman, intellettuale, giornalista e attivista digitale di successo, attualmente direttore del MIT Center for Civic Media, si è proclamato profondamente dispiaciuto di essere stato tra i primi supporter di quello che definisce il “peccato originale di internet”, ovvero lo sfruttamento della pubblicità come modello di business per avviare e mantenere dei servizi online.
Pur agendo in parallelo a molte altre persone e gruppi di interesse, una colpa precisa Zuckerman ha ragione di imputarsela essendo all’epoca (1995) l’ideatore dell’odiosa tecnica del pop-up pubblicitario, ovvero quelle pagine web piene di consigli degli acquisiti che esplodono improvvisamente, frapponendosi (caoticamente) ai contenuti ricercati nei tragitti delle nostre navigazioni, spesso vere e proprie trappole in cui rimanere nervosamente impigliati durante i vani tentativi di disincagliamento.
Il mea culpa del giornalista non è però rivolto contro la comunicazione pubblicitaria, piuttosto alla conseguenza del suo utilizzo come fonte di guadagno primaria per i servizi più popolari, che porta inevitabilmente alla implementazione e uso di tecniche tendenti a sorvegliare le attività degli utenti connessi.
Nonostante si possa provare a ingegnarsi con sistemi di remunerazione diversi, la pubblicità è il driver più facile con cui gli imprenditori internettiani ancora giustificano i propri business plan presso gli investitori. Inoltre, alla luce della crescente competizione per la conquista dell’attenzione dei naviganti e al declino dei prezzi della pubblicità legata alle mere visualizzazioni, l’advertising online è tanto più apprezzato quanto più riesce a indirizzare con efficacia il destinatario.
Ma non è solo una questione di targettizzazione, la sorveglianza è insita nella stessa natura della pubblicità online. Intanto, è necessario stabilire un controllo anche solo per capire che non ci siano meccanismi di abusi quali il click-fraud (conteggio di impression stimolate automaticamente tramite software) o il click-bait (traffico pubblicitario generato ingannevolmente da contenuti scorrelati dai target tematici e quindi ancora più fastidiosi per i consumatori).
Inoltre, come corollario, le logiche economiche sorrette dalle aggregazioni di grandi audience comportano anche politiche di accentramento per cui diviene conveniente acquisire servizi promettenti e ancora in erba, rafforzando poteri monopolistici che restringono competizione e alternative.
Per non parlare anche degli effetti più subdoli derivanti dal filtraggio dei contenuti presentati sulla base degli specifici interessi dell’utenza, che indeboliscono il confronto di idee sia alimentando le nicchie autoreferenziali, sia depauperando il necessario set delle conoscenze comuni.
La pubblicità nel medium
A dirla tutta, la tesi di Zuckerman pecca, per diversi motivi, di una certa dose di ingenuità. Intanto, sarebbe stato veramente originale se le esigenze che sostengono le ragioni della pubblicità non avessero giocato un ruolo importante per il medium internet.
Storicamente, gli interessi del commercio hanno plasmato la vita di molti media, ad iniziare da quella rete internet ante-litteram che è stato il telegrafo, per trionfare completamente facendo della pubblicità il vero “king of content” della radio e della televisione.
Sarebbe stato veramente difficile creare un barriera protettiva, essendo pure capaci di armonizzare/coordinare/indirizzare univocamente le intenzioni a livello globale, per un medium che ha così tante potenzialità comunicative, dal broadcasting al narrowcasting, immunizzandolo in qualche modo dalla vita reale dei consumi e dei desideri delle persone!
Inoltre, il supporto all’economia internet da parte del marketing e della pubblicità ha consentito e consente lo sviluppo di dinamiche innovative a livello di servizi e di accesso producenti ricadute benefiche collettive altrimenti impensabili (e anche inimmaginabili) nei termini a cui ci siamo abituati.
Insomma, possiamo lamentarci del circolo vizioso del free, ma sarebbe davvero difficile e anche ingeneroso nasconderne la virtuosità alla luce delle meraviglie che contribuisce effettivamente a radicare.
D’altro canto, la preoccupazione verso le sempre più incisive forme di sorveglianza a cui dobbiamo quotidianamente sottostare quando connessi, che con il trionfo delle tecnologie mobile equivale a dire sempre (always-on), è del tutto legittima e fondata.
Non esiste una “risposta giusta” alla domanda su come pagare per gli strumenti che ci consentono di condividere conoscenza, opinioni, idee e foto di gatti simpatici. Si possono adottare sistemi di micropagamento, sottoscrizioni, crowdfunding o qualunque altro modello, e ci sarebbe comunque sempre possibilità di conseguenze non volute. Ma dopo venti anni di web supportato dalla pubblicità possiamo vedere che il nostro attuale modello è nocivo, guasto e corrosivo. È tempo di iniziare a pagare per la privacy, di supportare i servizi che amiamo e di abbandonare quelli che sono free ma che offrono noi – gli utenti e la nostra attenzione – come prodotto (Zuckerman, 2014).
Licenza di free-riding
In effetti, nonostante la reale fetta di guadagni derivanti dal marketing e dall’advertising online siano una frazione veramente marginale rispetto all’intero ambito dei prodotti e dei servizi ICT, non passa giorno che non vi sia qualche rivelazione su nuove implementazioni miranti a lucrare “anche” sui dati carpiti all’utente-consumatore da parte di qualche azienda partecipante alla filiera ICT.
L’ultima, in ordine di tempo, riguarda la compagnia mobile statunitense Verizon. Solo ora, nonostante la cosa vada avanti da ben due anni, la grande maggioranza dei suoi clienti ha saputo che l’azienda inserisce nei pacchetti del loro traffico dati delle etichette di riconoscimento tramite cui gli operatori web possono ottenere, previo pagamento, informazioni personali sull’utente navigante.
Non è ancora chiaro se l’avvio della pratica sia stata comunicata esplicitamente, né se l’iscrizione per il cliente preveda il consenso iniziale (opt-in) o sia attivata automaticamente (opt-out).
Ma perfino l’implementazione (maldestra) presenta aspetti critici: l’etichetta è apposta all’esterno delle logiche architetturali del web usando invece tecnologie di deep packet inspection gestite e gestibili dal solo carrier (il trasportatore “neutrale” di traffico), e ciò preclude all’utente la possibilità di potersi schermare. Nel caso del classico cookie, infatti, se l’utente vuole può eliminarli dal browser o anche preventivamente disabilitarli.
Ma il meccanismo introdotto da Verizon ha un ulteriore risvolto: una volta inserite, le etichette marchiano il traffico — come a dire, mettere altro sale sulla ferita … — in maniera univoca rendendolo facilmente tracciabile da chiunque operi nella rete.
Verizon consente alle persone di ritirare la loro adesione automatica al programma (opt-ot), che significa che l’operatore telefonico non permetterà all’inserzionista pubblicitario di richiedere direttamente e analizzare la vostra navigazione online. Ma l’operazione di rinuncia da parte del cliente è pressoché inutile: ogni singola richiesta http tramite la sua rete è etichettata con l’identificatore UIDH in quanto il sistema non tiene conto dell’opt-out, rendendo così identificabile il traffico ad ogni web server visitato (The Register, 2014).
Pare che i web server, ma per essere più precisi le reti degli advertiser (ad network), già sfruttino tali identificatori. Nel frattempo, la soluzione escogitata da Verizon piace così tanto che anche l’altro grande operatore AT&T si sta muovendo per applicarla (Forbes, 2014).
Comunque, a fronte delle polemiche suscitate dalle pratiche, così come dei consigli ai clienti di queste specifiche aziende di usare reti alternative tramite accessi wi-fi o di crittare il traffico dati tramite software vpn (virtual private network), l’azienda statunitense pare voler ritornare sui suoi passi annunciando che si trattava solo di sperimentazioni già in fase terminale (Propublica, 2014).
Il valore economico dei dati personali
Guardando le cose con un minimo di prospettiva e per fini difensivi, vi è chi pragmaticamente prova a spostare il discorso sul valore economico di questi dati per il singolo utente.
In effetti, una strategia più efficace andrà sicuramente implementata considerando lo scenario alla luce della raccolta indiscriminata dei dati personali provenienti dai dispositivi connessi di tipologia più svariata (wereable, health, home, automotive) e di fronte all’inevitabilità di comportamenti di free-riding.
L’obiettivo è quello di stimolare, puntando sulla possibilità di avere dei ritorni economici, una reazione da parte dei reali possessori dei dati, vale a dire i semplici naviganti – le ultime stime assegnano ai dati personali valori che, su base annua, variano da 77 a 140 euro.
La pretesa di avere un ritorno economico, oltre che a spingere l’utenza verso una maggiore consapevolezza, potrebbe dare la spinta a elaborare una qualche forma di controllo e quindi la richiesta di implementazioni di interfacce per gestire i propri profili informativi detenuti dagli attuali (silenti) partner-broker.
Tuttavia, come in ogni buona indagine, la pista degli interessi economici contribuisce ad alzare i veli sull’intera problematica.
In effetti, questo intrallazzo continuo sui dati personali, con intrecci tra esigenze di sicurezza ed esigenze di marketing, inizia a irritare non poco i cittadini e, conseguentemente, le autorità deputate a difenderli.
D’altronde, anche le persone più abituate alle comodità degli ambienti online e più propense a chiudere un occhio sugli usi/abusi dei dati personali dovrebbero sussultare di fronte alle prospettive delineate da Frank Paquale, professore di legge ed editorialista del New York Times.
In un recente articolo descrive le derive in cui i circa 4.000 broker di dati personali ci stanno avviando, ad esempio allestendo le offerte di liste personali, più o meno accurate, organizzate secondo le più varie categorie (opinioni, salute, credito, atteggiamenti, ecc.), mettendoci alla mercé di ogni possibile interlocutore/potere, in maniera preventiva e per motivi che non riusciamo, se non per pochi casi, neanche a immaginare.
Ad esempio, se sono già di per sé inquietanti le applicazioni possibili che un utilizzatore di dispositivi indossabili alla Google Glass potrebbe sfruttare a livello informativo facendoci uno screening preventivo nell’attimo di un incontro, il connubio potrebbe avere effetti ancora più nocivi nel caso il tutto si basasse su dati distorti o anche solo mal interpretati.
D’altronde, lasciamo continuamente impronte digitali, in maniera attiva e passiva, dati e informazioni che sono per lo più registrati e possibilmente combinati e analizzati per un qualche scopo.
Di fronte a tali preoccupazioni e alle iniziative crescenti che in ambito politico si vanno a organizzare, iniziano a delinearsi meglio, spesso uscendo direttamente allo scoperto, gli interessi che muovono questo enorme dispositivo tecno-commerciale.
In realtà, se è vero che l’ advertising ha un valore frazionale rispetto a tutta la filiera ICT, i dati personali dei consumatori si rivelano di importanza fondamentale per le attività di marketing.
In un’azione di lobbying verso il Congresso americano tesa a far comprendere le loro funzioni in un’ottica sia strategica che tattica, l’associazione DMA statunitense (Direct Marketing Association) ha spiegato recentemente come la raccolta e il trattamento delle informazioni individuali dei consumatori, sia in forma anonimizzata che personali, aiutino la pianificazione, comunicazione e distribuzione dei beni e servizi avvicinando al meglio le esigenze della produzione e del consumo.
Le aziende che vi lavorano impegnano molte persone (circa 700.000 nel 2012) e sono organizzate in filiere complesse che creano per l’economia un notevole valore aggiunto – negli USA, ben 156 miliardi di dollari. Il valore della cosiddetta economia dei dati nelle attività di marketing (Data-Driven Marketing Economy) pesa almeno per il 50% di tutte le attività del settore e ciò riguarda, per la stragrande maggioranza (75%), le attività tradizionali off-line.
In alcuni casi parliamo di attività consolidate da oltre 100 anni (vendite dirette o tramite cataloghi, marketing postale, marketing strategico, ecc.) e il mondo on-line, attualmente, incide solo per il 25%.
Tuttavia è chiaro che la qualità informazionale di indirizzamento, in termini di precisione e timing, che è raggiungibile tramite gli ambienti e le tecnologie online – come abbiamo provato a spiegare in un precedente contributo – porterà rapidamente a una inversione delle proporzioni. D’altronde, i gateway d’innesto alle articolate architetture delle tecnologie programmatiche della pubblicità deputati ad arricchire i dati personali integrando varie fonti sono già pronti e funzionanti, e un esempio si ha nelle piattaforme di DMP (Data Management Platform).
Insomma, alla luce delle implicazioni in campo, sembrerebbero molte le variabili da inserire in un’ipotetica equazione capace di trovare delle regole che (ri)stabiliscono un (certo) equilibrio tra le esigenze del marketing e quelle della privacy, un obiettivo da coltivare attivamente per sminare internet dalle pericolose derive intraprese da molti dei suoi attuali e futuri co-attori.
Riferimenti
“AT&T Stops Using Undeletable Phone Tracking IDs“, Propublica.org, 14/11.
Deighton, J., Johnson, P. A., 2013, The Value of Data: Consequences for Insight, Innovation & Efficiency in the U.S. Economy.
Eagle, N., 2014, “Mine Your Digital Business”, 9/10.
“EFF: VPNs will crumble Verizon’s creepy supercookie stalkers”, The Register, 6/11/2014.
Loudhouse/Orange, 2014, The future of digital trust. A European study on the nature of consumer trust and personal data.
Paquale, F., 2014, The Dark Market for Personal Data, New York Times, 16/10.
“The Privacy Lowdown On Smartphone ‘Permacookies’ That Make You Trackable On The Web“, Forbes, 29/10/2014.
Zuckerman, N., “The Internet’s Original Sin”, The Atlantic, 14/08/2014.